lunedì 30 novembre 2015

Eric Lichtblau, “I nazisti della porta accanto” ed. 2015

                                            Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
            seconda guerra mondiale
             FRESCO DI LETTURA


Eric Lichtblau, “I nazisti della porta accanto”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. S. Bourlot, pagg. 315, Euro 19,55

      Della via dei topi, la via di fuga dei nazisti verso l’America Latina grazie all’aiuto della Croce Rossa e del Vaticano, sapevamo da tempo. Qualcosa si sapeva anche di quelli che avevano trovato rifugio e copertura negli Stati Uniti dopo la guerra, ma la versione ufficiale parlava  di ‘alcuni’ nazisti, minimizzando, giustificando la protezione offerta dal governo americano con la necessità di evitare che dei brillanti scienziati finissero in Unione Sovietica e che i loro cervelli potessero essere sfruttati a vantaggio dei comunisti nella Guerra Fredda che sarebbe seguita alla seconda guerra mondiale. Furono più di diecimila, invece, gli uomini di Hitler che si rifecero una vita negli Stati Uniti e moltissimi di questi avevano avuto un ruolo non da poco nei crimini commessi. Eric Lichtblau, giornalista del New York Times e vincitore del premio Pulitzer per il giornalismo nazionale del 2006, ha scritto su questo argomento un libro di denuncia appassionante come un romanzo e basato su ricerche negli archivi americani ed europei.
    “I nazisti della porta accanto”- avevano un’ottima capacità di dissimulazione, questi nazisti che si erano sbiancati la coscienza. Forse si erano convinti loro stessi di quello che avevano dichiarato e che continuavano a dire, che erano innocenti, che non avevano nulla a che fare con i campi, con gli eccidi, con i rastrellamenti, con le esecuzioni sui bordi delle fosse, con le crudeltà inumane. Negavano anche quando si trovavano davanti ad un testimone- a distanza di anni, chi può dichiararsi sicuro di riconoscere una persona? Dopotutto, tuttavia, pur disprezzandoli, possiamo comprendere la loro necessità di mentire ad oltranza: si trattava di salvarsi la vita. Quello che invece ci fa orrore, nel libro minuzioso di Eric Lichtblau, quello che ci provoca disgusto è il cinismo della Cia e dell’Fbi che hanno scelto, per più di mezzo secolo, di privilegiare le menti o i possibili servigi dei nazisti, cancellando il loro operato con un colpo di spugna, accontentandosi che, in una qualche maniera blanda e attenuata, gli aspiranti immigrati riconoscessero di essere stati seguaci del Führer, arrivando ad impedire di procedere, quando qualcuno dei loro ‘protetti’, già utilizzato come spia, veniva portato in tribunale. E inoltre, come ben documenta Lichtblau, il servizio prestato dai nazisti arruolati nelle file della Cia non era neppur sempre di alto livello, piuttosto l’opposto.

     Un discorso a sé merita l’accaparramento di teste da parte degli americani. E’ indubbio che ci fossero menti brillanti, addirittura geniali, tra gli scienziati tedeschi. Valga per tutti il nome di Werner von Braun, il barone che ebbe un ruolo determinante nella fabbricazione dei razzi V-2, il volto che comparve sulla copertina della rivista Time come progettista del propulsore che portò la missione Apollo sulla luna nel 1969. Si presentava bene, von Braun. Decisamente un bell’uomo con quell’aria nordica e il portamento aristocratico. Era quasi impossibile vederlo come un criminale. Eppure, nonostante i giri di parole, le mezze negazioni, von Braun era perfettamente al corrente della realtà agghiacciante del campo Dora Mittelbau dove schiavi rimpiazzabili lavoravano in condizioni disumane per fornire al Führer il numero richiesto della sua arma letale. Ma questa era la guerra, no? A quanto pare la giustificazione era buona sia per von Braun sia per la Cia che già aveva preso contatti con alcune delle personalità più importanti prima della fine della guerra. Ma il problema etico resta: si può separare la ricerca scientifica dai valori morali?

    Eric Lichtblau, nella sua disanima di criminali impuniti, di funzionari conniventi, di processi intentati e della reazione pubblica, cita anche un film degli anni ‘80 che è venuto in mente anche a me leggendo il suo libro, quando lo stupore dei figli davanti alla rivelazione del passato dei padri è il segno più chiaro della perfezione della menzogna di questi. In “Music Box” Jessica Lang è l’avvocato che difende il padre, immigrato ungherese, dall’accusa diffamante di aver fatto parte delle Croci Ferrate e di essere responsabile della morte di molti ebrei. No, suo padre non può aver fatto quelle cose. No, non lui. Finché trova delle fotografie nascoste in un carillon e la verità è lì, davanti ai suoi occhi. E, chiudendo il libro di Lichtblau, siamo sopraffatti da un miscuglio di sentimenti, proviamo orrore e sdegno per i criminali, ci sentiamo offesi dall’amorale cinismo americano e pieni di compassione per quelli che si sono presi sulle spalle le colpe dei padri.




domenica 29 novembre 2015

Abraham B. Yehoshua, “Il responsabile delle risorse umane” ed. 2004

                                                         Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                      il libro ritrovato


Abraham B. Yehoshua, “Il responsabile delle risorse umane”
Ed. Einaudi, trad. Alessandra Shomroni, pagg. 258, Euro 17,00



Non ci colpisce più con l’orrore di una volta, la notizia che qualcuno è rimasto ucciso, vittima di un attentato, di una pallottola vagante, di una mina, di una sparatoria. Siamo diventati insensibili alla morte che fa la sua comparsa ogni giorno nelle nostre vite, sempre più cieca e casuale. La accettiamo come destino o fatalità. Il nuovo romanzo di Abraham Yehoshua, “Il responsabile delle risorse umane”, vuole aprire una breccia in questa indifferenza e, non a caso, un solo personaggio ha un nome: Julia Regajev, la donna che è presente in tutto il romanzo, pur essendo già morta all’inizio, vittima di un attentato kamikaze nel mercato nel cuore di Gerusalemme. E Yehoshua le dà un nome proprio perché deve essere identificata, è l’unica a non avere un nome, perché il suo corpo resta all’obitorio senza che nessuno lo reclami, nessuno si è accorto della sua scomparsa. Un giornalista- sempre chiamato “il serpente” nel romanzo- minaccia di far scoppiare uno scandalo, accusando di insensibilità la fabbrica in cui la donna lavorava come operaia e di cui le è stato trovato in tasca il cedolino dello stipendio.
E’ per rimediare al senso di colpa, per riscattarsi davanti al pubblico di lettori, che l’anziano padrone della fabbrica affida al responsabile delle risorse umane il compito di appurare l’identità della donna, e poi quello di scortarne la bara nel paese da cui proviene- perché Julia è un’immigrata cristiana, attirata a Gerusalemme dal fascino mitico e mistico della città. Lui, il responsabile delle risorse umane, è un uomo solo, ha divorziato da poco, è un alienato dal cuore duro, che reagisce con insofferenza a questo incarico- intanto nessuno legge quel giornalaccio e nessuno farà caso all’accusa; no, non si ricorda affatto della donna (davvero era bella?), come potrebbe ricordarsi di tutte le persone a cui fa il colloquio? E poi, a poco a poco, il suo atteggiamento cambia, naturalmente durante il viaggio verso il paese della donna. Ritorna sempre, nei romanzi di Yehoshua, il tema del viaggio come scoperta di sé, ma questo è senz’altro il viaggio più lungo che compia un protagonista dei suoi libri, ed è anche un viaggio di espiazione e di rinascita- un morto nello spirito che rinasce a opera di un morto. All’arrivo all’aeroporto del paese senza nome (presumibilmente uno dei paesi dell’ex Unione Sovietica), il responsabile delle risorse umane incontra il figlio della donna e riconosce in lui i lineamenti di lei, quegli occhi “tartari” che ne accentuavano la bellezza (un cenno di esotismo che Yehoshua ci dice di aver preso da Madame Chauchat, ne “La montagna incantata” di Thomas Mann, perché gli pareva fortemente erotico), e si innamora della donna morta. Il viaggio prosegue, più lontano, in una terra gelida che contrasta con il calore che sta sciogliendo il cuore dell’uomo, lui sta malissimo per una forma di avvelenamento da cibo, e, mentre il suo corpo espelle fetido materiale fecale, avviene l’ultima depurazione del suo animo.
La fine è aperta, forse la bara verrà riportata a Gerusalemme, a questa città che appartiene a tutti e a nessuno, perché, come ancora ci dice lo scrittore, per la pace di una città tormentata e ferita è necessaria una terza parte, cristiana come lo è Julia Regajev. Un libro triste in tempi tristi- Yehoshua è sempre un grandissimo scrittore che risveglia le coscienze, senza fuggire dalla realtà.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos




INTERVISTA A ABRAHAM B. YEHOSHUA, autore de “Il responsabile delle risorse umane”

                                                     Voci da mondi diversi. Medio Oriente


INTERVISTA A ABRAHAM B. YEHOSHUA, autore de “Il responsabile delle risorse umane”

Muore una donna, in un attacco kamikaze al mercato nel cuore di Gerusalemme. Un giornalista- sempre chiamato “il serpente” nel romanzo “Il responsabile delle risorse umane” di Abraham Yehoshua (Ed. Einaudi, pagg. 258, Euro 17,00)- vuol fare scoppiare uno scandalo perché nessuno si è accorto dell’assenza della donna nel panificio presso cui lavora. Il responsabile delle risorse umane del panificio riceve l’incarico di rimediare a questa indifferenza, scortando la bara nel lontano paese da cui la donna proviene, un viaggio di espiazione che termina in una rinascita, un ritornare alla vita dagli inferi dell’indifferenza e dell’insensibilità- come simboleggia la scultura di Proserpina del Bernini sulla copertina del libro. Stilos ha incontrato a Milano lo scrittore israeliano.


L’unico personaggio del libro che ha un nome è la donna che viene uccisa da un kamikaze: è un omaggio a tutti gli innocenti che muoiono negli attacchi terroristici?
      No, non esattamente, piuttosto è un tentativo, un esperimento per aprire uno spiraglio nell’indifferenza, nella routine con cui la società israeliana e anche quella palestinese accolgono la morte. Tutti si sono abituati alla morte, da una parte e dall’altra, è diventata una consuetudine, è stupefacente la rapidità con cui la gente torna alla vita normale dopo un evento drammatico come un attentato che ha causato dei morti. E’ così per noi ed è così per i palestinesi che mandano con facilità i bambini in battaglia e difendono i loro kamikaze…Questa è una storia che ho inventato, e ho scelto di prendere come oggetto la morte più anonima, quella della lavoratrice straniera che muore senza essere identificata, senza parenti che ne reclamino il corpo, e io cerco di provocare una rivoluzione nel sentimento riguardo a questa morte marginale e di renderla così importante da trasformare quel sentimento in amore. La mia è una protesta alla routine della morte, alla facilità con cui tutti accettiamo la morte- me compreso.


 Il romanzo ha un sottotitolo, “Passione in tre atti”: perché “passione”?
    Mentre scrivevo il romanzo ho avuto delle incertezze nel definire a che genere appartenesse: non è un romanzo, non è una novella. E’ una “passione”, ecco, volevo fare una passione: è un viaggio della sofferenza e l’uomo che intraprende questo viaggio lo fa come una missione. Infatti il titolo originale è “La missione del responsabile delle risorse umane”. La missione, il compito che ha avuto, è di portare in patria il corpo della donna per salvare il buon nome del padrone della fabbrica. La missione è un viaggio nel suo cuore: è un uomo alienato da se stesso, è divorziato, è solo, non fa neppure caso alla bellezza di una donna, non si ricorda del suo volto e neppure di avere parlato con lei. E’ come morto e la storia è la storia della risurrezione di un morto operata da parte di un morto.

E perché la passione?
    Perché questa parola si addice alla donna morta, una donna cristiana che è venuta a Gerusalemme perché crede in Gerusalemme, voleva attaccarsi a Gerusalemme. E la Gerusalemme di oggi ha perso il suo fascino, è diventata un luogo di fondamentalismi religiosi e di povertà. Questa donna crede in maniera innocente nel potere religioso di Gerusalemme e la storia della sua morte, del viaggio della sua bara che viene portata via e poi forse riportata indietro nella città del suo sogno- ecco, mi pare un sacrificio simile a una passione di tipo cristiano. Quando ero giovane e leggevo “Delitto e castigo”, non capivo perché si dica di Raskolnikov, quando si inginocchia in una strada di San Pietroburgo, “questo ragazzo va a Gerusalemme”: che senso aveva? Poi ho capito ed ecco perché ho scritto di una donna cristiana a Gerusalemme: perché Gerusalemme appartiene a tutto il mondo e a nessuno. In un momento deprimente in cui Gerusalemme è un campo di battaglia, l’unica cosa che può farci uscire da questo contrasto è che intervenga una terza parte cristiana e Gerusalemme diventi una città di tutti. La donna cristiana è un’allegoria della necessità di sollevare Gerusalemme da questo conflitto degradante.


Una morte inosservata, una morte che passa sotto silenzio: ci si può abituare alla morte? Questa insensibilità emotiva è un’autodifesa? O egoismo?
      E’ un meccanismo di difesa, ci si difende dicendo, “non so come affrontarlo, come affrontare un autobus che salta in aria”. Si parla di destino, di fatalismo. In realtà ci siamo abituati alla facilità con cui ci uccidiamo. Diciamo, “che cosa ci possiamo fare?” E’ il fatalismo che entra nella società. Ma una volta la società israeliana non era così. Mi ricordo che venti, venticinque anni fa, la morte di un soldato era una tragedia per tutta la nazione. Ma per parlare di questa indifferenza sono partito dall’alienazione e dall’aspetto burocratico di questa morte per portare il libro ad un altro livello di emozione.

Il personaggio principale è chiamato di continuo solamente “il responsabile delle risorse umane”: c’è ironia nella reiterazione di questa denominazione?
    Quando ho iniziato a scrivere, ho preso subito la decisione che avrei dato un nome solo alla donna perché deve essere identificata. Tutti gli altri personaggi entrano nella storia per la loro funzione, non ho dato il nome a nessun altro per non promettere al lettore che gli avrei dato un personaggio completo, con sfumature psicologiche. Così tutti gli altri entrano nella storia per la loro posizione, per il lavoro che fanno, e poi ho cercato di farli muovere attraverso le motivazioni con cui entrano nella storia fino alla fine. Non potevo dare un nome al rappresentante delle risorse umane a metà del libro, volevo sottolineare la posizione burocratica in cui era ingarbugliato. Doveva restare anonimo. Una volta il titolo per quella carica era “direttore del personale”, “man power” in inglese. Poi c’è stata una svolta verso il politicamente corretto: risorse umane sembra avere un significato più ampio, più gentile, più ambizioso. Parliamo dell’umanità, dunque.

L’aggettivo “tartaro” che è ripetuto spesso per sottolineare la peculiarità dell’aspetto della donna e del figlio di questa. Perché proprio questa peculiarità?
      Devo dire qual è la fonte dell’idea per questo aggettivo: è Thomas Mann, “La montagna incantata”, dove Madame Chauchat ha quegli zigomi alti che la rendono così attraente. Sentivo la capacità erotica di questa figura femminile, mi piaceva questa particolarità così tanto non-ebraica,  così lontana dalle caratteristiche somatiche ebraiche. Questo aggettivo, “tartaro”, accentua la bellezza diversa, esotica, della donna, e lui vede nel figlio la bellezza della madre  e si innamora di una donna che è scomparsa. Innamorarsi di una donna morta era per me una sfida su che cosa può fare l’amore, a quali vette l’amore può innalzarsi.

Il tema del viaggio che ritorna in tutti i suoi romanzi, viaggio di scoperta di sé, in questo caso anche viaggio di espiazione. Qui il viaggio è verso un paese molto lontano, un paese freddo: è un simbolo della freddezza spirituale e di quanto ci siamo allontanati dalla compassione?
     Sì, è il viaggio più lungo di tutti i miei libri, fino alla fine di un mondo sconosciuto. E’ un viaggio metafisico, in un posto che il personaggio non sa dove sia. E’ un viaggio in cui lui cambia. All’inizio era risentito di questo incarico, diceva, “non sono affari miei, nessuno leggerà mai questo articolo, non mi interessa”, e poi invece diventa interamente responsabile e il freddo esterno corrisponde ad un progressivo scongelamento del suo cuore.

Per la prima volta c’è anche la presenza del coro in questo romanzo.
     E’ vero, il coro è qualcosa che non ho mai usato. E siccome la storia era vista dalla mente del responsabile delle risorse umane, volevo allargare questo punto di vista ma lui restava la figura principale. Ho scelto allora una specie di coro, si adattava al genere “passione” del romanzo: sono persone diverse che parlano, operai, soldati, bambine, camerieri…, e accompagnano il viaggio dalla parte esterna e cercano di capirlo a modo loro, offrendo commenti e interpretazioni.
  
C’è stata una conseguenza di questo stato di guerra continuo nella letteratura israeliana, per la creatività degli scrittori?
     Se c’è stata una conseguenza, questa è risultata in un tipo di letteratura di diversivo, di fuga, negli ultimi quattro anni. Le attività culturali proseguono, ci sono balli, rappresentazioni di opere, nessuno vuole affrontare la realtà per mancanza di strumenti artistici per rappresentarla. Fatta eccezione per il romanzo di Amos Oz, “Una storia di amore e di tenebra”, in genere c’è un tipo di letteratura di evasione dalla realtà. Per quello che mi riguarda, io mi sento responsabile di quello che succede e penso di dover usare i mezzi artistici che ho: questa è la mia maniera di trattare la realtà.

Questo è il suo libro più triste, che rappresenta una Gerusalemme “tormentata e ferita”. E’ di ieri la notizia che Sharon farà smantellare gli insediamenti a Gaza: che cosa ne pensa? Porterà la pace?

      Io non credo in Dio, ma da ieri credo nella giustizia divina. Sharon che era ostile a ogni compromesso, che era il responsabile degli insediamenti nei territori occupati, che si era opposto a Rabin- e ieri era il nono anniversario della morte di Rabin- adesso toglie gli insediamenti: questa è la giustizia divina, deve affrontare l’estrema destra e i coloni che lo considerano un traditore. Da noi si dice che “se sei un uomo giusto, il tuo lavoro lo fanno gli altri”: Sharon adesso deve lavorare con la sinistra, sta facendo la politica della sinistra. Questa decisione è la prova che si può correggere uno sbaglio. Il mio libro più triste: “La sposa liberata”, il mio romanzo precedente, è stato scritto in tempi di ottimismo, in tempi di rapporti liberi tra israeliani e palestinesi. Questo è stato scritto in giorni bui, in tempi pessimisti: non è un libro dolce, il personaggio è un morto che ha un cuore duro come una pietra. Se volete un libro dolce, non comprate questo libro.





                                                                                                      

Abraham Yehoshua, Il Responsabile Delle Risorse Umane - Trailer 30" TV HD



              Abraham B. Yehoshua, "Il responsabile delle risorse umane"
                                                          dal libro al film

con la regia di Eran Riklis, ecco il film tratto dal romanzo di Yehoshua. Attore principale, Mark Ivanir.



A. Yehoshua, "La comparsa"- Debussy: La Mer / Abbado · Berliner Philharmoniker



                                                     musica per un libro

Diretta da Abbado, ecco uno stralcio della sinfonia che fa da colonna sonora all'ultimo romanzo di Yehoshua, "La comparsa".



sabato 28 novembre 2015

Abraham B. Yehoshua, “La comparsa” ed. 2015

                                                     Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                 FRESCO DI LETTURA


Abraham B. Yehoshua, “La comparsa”
Ed. Einaudi, trad. A. Shomroni, pagg. 260, Euro 17,00


       Si chiama Noga, che vuol dire Venere in ebraico, come il pianeta che viene spesso scambiato per una stella, la prima ad apparire la sera, l’ultima ad impallidire al mattino. Ha quarantadue anni, suona l’arpa in un’orchestra olandese, il suo matrimonio è finito perché lei non voleva figli.
E’ questo il nodo centrale del nuovo e denso romanzo di Abraham Yehoshua, lo scrittore settantottenne israeliano che avrebbe meritato l’assegnazione del premio Nobel già da molti anni. Yehoshua non teme di risultare impopolare, né di essere attaccato dalle femministe per la posizione che prende ne “La comparsa”: è nell’ordine della natura per una donna avere figli, un figlio è quello che resta di noi, del nostro passaggio sulla terra. Anzi, un figlio non è solo la traccia dei suoi genitori, ma anche dei suoi nonni e delle generazioni che li hanno preceduti, è un dovere nei confronti di tutti loro. Un figlio è dire di sì alla vita, un’affermazione di coraggio e di speranza, l’accettazione di una sfida, di mettersi in gioco per conciliare il sé con gli altri. La disapprovazione verso Noga, ogni volta che lei mette in chiaro che non è che non potesse avere figli, proprio non voleva bambini, è palese- da parte del fratello, della madre, delle persone che incontra occasionalmente. Senza contare il dolore che questo rifiuto ha causato all’ex marito Uriah, nonostante che si sia risposato e che ora abbia due figli. Uriah soffre ancora, Uriah vorrebbe ancora un figlio da Noga, vorrebbe ritrovare in un bambino i lineamenti di lei- dopo tutto non è questo il desiderio più comune, duplicare la persona che si ama in un piccolo essere?

       Noga ritorna in Israele, poco dopo l’improvvisa morte del padre, per permettere alla madre di passare un periodo di prova di tre mesi in una casa di riposo di Tel Aviv mentre lei si stabilirà nel suo appartamento di Gerusalemme in modo che non risulti disabitato. Lontana dalla sua arpa e dalla musica che hanno avuto tanta importanza nella sua vita, Noga trova un’occupazione come comparsa durante la ripresa di alcuni film, passa le notti dormendo ora in uno ora nell’altro letto della casa in cui è cresciuta, battaglia con due ragazzini che, su permesso della madre di Noga, si intrufolano in casa sua a tutte le ore, di giorno o di notte, dalla porta (hanno un doppione della chiave), o dalla finestrella del bagno, per guardare la televisione che in casa loro non è permessa, essendo ebrei ortodossi. E poi riappare Uriah, l’ex marito di Noga. Pure lui ha un doppione della chiave, e, nonostante tutto, l’amore di Uriah per Noga non è finito.
     Le soluzioni banali non sono per Yehoshua, non aspettatevi niente di scontato. Intanto, in molte sottili maniere, lo scrittore ha girato intorno al suo tema, quasi in cerchi concentrici- i due monelli che adorano la televisione (e il più piccolo dei due è un bambino problematico) e che mettono a dura prova la pazienza di Noga, i figli del fratello di lei e quelli di Uriah (li aveva portati anche a conoscere l’ex suocero, come volesse far capire che non era stata colpa sua se il suo matrimonio con Noga era stato sterile), la musica di Debussy che Noga dovrà suonare in Giappone, la sinfonia La Mer il cui titolo ha la stessa pronuncia di mère, madre- per arrivare infine al bambino non ancora nato della seconda arpista dell’orchestra di Noga, quello per cui la donna rinuncia alla tournée in Giappone.
E poi- Yehoshua non si smentisce mai- il libro è spruzzato di allusioni al contesto sociale. Gli ortodossi così austeri che popolano il rione in cui vive la madre di Noga, le figure in nero che sembrano grandi corvi , ci parlano di una frattura, la stessa che separa Tel Aviv da Gerusalemme, di un possibile rischio di fanatismo.

      L’andamento della narrazione è come un crescendo musicale con una domanda implicita nella parte centrale (una donna che rifiuta la maternità ha solo il ruolo di ‘comparsa’ nella vita?) e una domanda senza risposta alla fine- o forse ogni lettore può scegliere la risposta che più gli aggrada.




giovedì 26 novembre 2015

Isabel Colegate, “La battuta di caccia” ed. 2015

                                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                 FRESCO DI LETTURA


Isabel Colegate, “La battuta di caccia”
Ed. Beat, trad. Marco e Dida Paggi, pagg. 240, Euro 16,00



     “La battuta di caccia”: un’espressione che ci parla di uno stile di vita scomparso, di un mondo che non c’è più. In inglese, poi, “The shooting party”, con l’ambigua parola ‘party’ che può indicare sia semplicemente un gruppo di persone ma anche un gruppo di persone che si radunano per festeggiare qualcosa (in questo caso la carneficina di uccelli esibita come un trofeo), è ancora più significativa, sottolinea il piacere dell’uso delle armi per uccidere. Che si tratti di animali conta poco. Nel romanzo di Isabel Colegate è il 1913. Manca poco perché inizi una ben altra battuta di caccia con ben altre vittime. Quella che sarà chiamata la Grande Guerra segnerà definitivamente la fine del mondo rappresentato nel romanzo di Isabel Colegate, la caduta di quella barriera tra padroni e servitori, tra classi alte e classi basse, tra ‘upstairs’ e downstairs’.

    Il tempo del romanzo è breve, quello, per l’appunto, di una battuta di caccia nella splendida tenuta di Nettleby appartenente a Lord Randolph. Sono i preparativi ad essere lunghi, per una battuta di caccia (dalla cova dei fagiani, all’ingrasso, ad averne un numero tale da soddisfare le aspettative dei cacciatori), e colpisce la disparità di numero tra i protagonisti cacciatori, con mogli a seguito, e lo stuolo di servitù, tra coloro che sono preposti alla caccia (battitori, loaders che caricano i fucili in modo che il loro padrone ne abbia sempre uno carico in mano, guardiacaccia, serratori di file) e i domestici di casa (maggiordomo, cameriere personali delle signore, valletti, cuoche, governante per i bambini). Lord Randolph esprime spesso la sua preoccupazione per questo stile di vita fatto di apparenza che sta diventando sempre più insostenibile.

In questo lasso di tempo impariamo a conoscere i personaggi dalle loro conversazioni, le signore che considerano naturale prendersi delle distrazioni fuori dal matrimonio, purché il tutto sia fatto con discrezione (i loro mariti non fanno altrettanto, forse?)- la moglie di Sir Randolph è stata l’amante del defunto re, Aline è nota per sfarfalleggiare e anche il suo attuale amante è presente alla caccia-, mentre la giovane nipote di Sir Randolph considera l’opportunità di incoraggiare la corte dell’ungherese altolocato (lo scarterà, poi, delusa dal suo cinico comportamento finale) e la candida Olivia si accorge con sgomento felice di ricambiare i sentimenti che le manifesta il giovane Lionel, bello, aitante, ottimo cacciatore. Ecco, questo è un punto importante, a cui Sir Randolph attribuisce grande importanza: la caccia, per non essere un sanguinoso massacro, deve preservare almeno la caratteristica di essere praticata per amore dello sport. Non si gareggia, la competizione è vietata. Lionel non cerca la competizione, il marito di Aline sì. Già umiliato (pur non volendo ammetterlo) dai tradimenti della moglie, svantaggiato da un confronto fisico con il bel Lionel, timoroso di perdere il suo primato come riconosciuto campione di caccia, il marito di Aline non rispetta le norme. Qualcuno muore, fine dello spettacolo.

     Il romanzo riscoperto (è stato pubblicato nel 1980) di Isabel Colegate è un piccolo gioiello, uno di quei regali tipici della letteratura inglese. Con grande finezza, con ironia elegante, Isabel Colegate dipinge un quadro con un pennello a punta fine, con piccoli tocchi, con brevi osservazioni di un paio di personaggi ‘fuori dal coro’ coglie la vacuità di giornate scandite da cambi di abito e riunioni conviviali, l’assurda importanza data alla scelta dei bottoni da camicia, l’ipocrisia delle relazioni sociali. Non si accontenta di sollevare il sipario sui ‘piani alti’, con la stessa minuta attenzione osserva ‘i piani bassi’, sottolinea i contrasti- le parole d’amore di Lionel per Olivia, in una lettera che il suo valletto ha trovato nella carta straccia, suonano ridicole nel messaggio che questi scrive alla cameriera sua fidanzata, le innumerevoli portate servite al tavolo imbandito fanno apparire più misero il coniglio cacciato di frodo per cui il guardacaccia potrebbe essere punito. E il personaggio del ragazzino Osbert che salva la sua anatra dalla mattanza, che studierà belle arti, è il simbolo dell’uomo nuovo che sarà.

    Julian Fellowes, scrittore e sceneggiatore di “Gosford Park” e di “Downton Abbey”, ha scritto un’ottima introduzione a questo bellissimo romanzo: non perdetela. 



martedì 24 novembre 2015

Helen Dunmore, “Le cose non dette” ed. 2005

                                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                il libro ritrovato

Helen Dunmore, “Le cose non dette”
Ed. Tropea, trad. Gianni Montanari, pagg. 220, Euro 15,00


Abbiamo già avuto modo di osservare quanto spesso venga trattato sia nei romanzi sia nei film il tema del rapporto tra sorelle, un legame più variegato quando le sorelle sono tre o quattro, più complesso in una tensione di amore e odio, rivalità e gelosie quando si tratta di solo due sorelle. E sono per l’appunto due, le sorelle Isabel e Nina nel romanzo “Le cose non dette” di Helen Dunmore.
     La trama è semplice, tipica del romanzo “al femminile”: Isabel ha appena avuto un bambino, la sorella Nina si prende un periodo di vacanza per starle vicino (e intanto va a letto con il cognato), dramma finale che però non ha niente a che fare con il tradimento del marito di Isabel. Bella l’ambientazione, prima di tutto, che non serve solo da scenografia, ma suggerisce un ambiente di pace idilliaca dove, tuttavia, la serenità è solo apparente: un cottage della campagna inglese nell’area tra il Devon e la Cornovaglia, vicino al mare. Sappiamo che Isabel ama la solitudine, ma a poco a poco ci rendiamo conto che questo desiderio di solitudine è eccessivo, che ha qualcosa di patologico, che l’isterectomia che Isabel ha subito non giustifica la sua reticenza a lasciare la sua stanza. Isabel è bella, Isabel non ha più rapporti con il marito e il bambino è stato, per così dire, “programmato”, Isabel finge di mangiare e la parola anoressia non viene mai pronunciata. Nina è l’opposto, come spesso avviene quando le sorelle sono due: ama il cibo, cucina bene, ama il sesso, è spontanea e vitale.

     Con leggerezza e facilità Helen Dunmore sposta la scena tra presente e passato, con i ricordi che affiorano nella mente di Nina: un’infanzia per alcuni versi bellissima, in una Cornovaglia di mare e di vento e giochi con Isabel, sulla spiaggia, con le bambole. Isabel che ha tre anni più di Nina, Isabel di cui la madre si fidava perfin troppo, affidando la sorellina di quattro anni a lei che ne aveva sette, Isabel che a tratti sembra avere un ruolo estremamente responsabile e protettivo nei confronti di Nina e a volte diventa dispotica e la tiranneggia. A volte la conduce sul ciglio del pericolo, per salvarla per un soffio, lasciandoci col cuore in gola. C’è un altro nome che riaffiora nei ricordi, quello di Colin, un fratellino morto a tre mesi- la “morte in culla” che si porta via i neonati all’improvviso.
Ma che cosa era successo veramente? Isabel è una manipolatrice, sa benissimo il potere che ha su Nina in qualità di sorella maggiore, e sa anche che ci sono diversi tipi di memoria e ci può essere anche una memoria ricostruita dei fatti. Di cui lei può dare la versione che vuole, forzando Nina a ricordare le immagini che è lei, Isabel, a dipingere. E mentre si sentono dei tuoni in lontananza, che annunciano un sollievo da quell’estate così insolitamente calda per l’Inghilterra, si conclude anche la vicenda delle due sorelle.

     Una lettura piacevole, scritta con garbo, un pizzico di suspense e un tocco lieve di analisi psicologica, su un tema che si rinnova all’infinito.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


lunedì 23 novembre 2015

Fionnuala Kearney, “Noi due e gli altri” ed. 2015

                                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda    
                   FRESCO DI LETTURA


Fionnuala Kearney, “Noi due e gli altri”
Ed. Neri Pozza, trad. Cristiano Peddis, pagg. 412, Euro 18,00




      Se pensiamo all’attore Hugh Grant nei panni di Adam Hall, uno dei due protagonisti del romanzo di Fionnuala Kearney, una serie di immagini attraverseranno immediatamente la nostra mente costruendo una trama che sarà probabilmente vicina a quella di “Noi due e gli altri”: uomo rampante sulla quarantina, felicemente sposato da vent’anni e con una figlia di diciannove anni, ha una storia di sesso rovente con una donna più giovane della moglie. Questa lo lascia, pur con il cuore spezzato. La faccia contrita di Hugh Grant ci balena davanti agli occhi. E adesso che succede? Lo perdonerà la moglie? Anzi, lo perdoneranno la moglie e la figlia, delusa ancora più di sua madre per il comportamento del padre? Dovrete leggere il libro per scoprirlo. Un libro che si legge di un fiato, che sembra perfetto per una trasposizione cinematografica, che si fa perdonare una buona dose di melodramma perché i personaggi si fanno amare (non riusciamo a trovare antipatico neppure Adam, il marito fedifrago) e che è perfino divertente.

     I capitoli in cui è Adam a parlare si alternano a quelli in cui è sua moglie Beth, scrittrice di canzoni, a prendere la parola. Beth ha appena scoperto il tradimento di lui, era già successo un’altra volta, ma adesso Beth non è disposta ad andare avanti e far finta di niente e forse Adam non sarebbe disposto a rinunciare all’ebbrezza di questa nuova avventura. Perché ne ha bisogno se, come lui stesso riconosce, ama tanto sua moglie che lo ha letteralmente salvato quando si sono conosciuti e i suoi genitori erano morti da poco in maniera drammatica? Più di vent’anni insieme sono stati un lungo tempo di segreti e bugie che ora verranno alla luce uno dopo l’altro, per caso o per un destino che opera solo in apparenza ai danni di Adam. E’ per questo che non ci riesce di disprezzare Adam come sembra meritarsi: ha portato sulle spalle un fardello pesante per risparmiare il fratello e poi, dopo il primo tradimento, per non ferire Beth ancora di più, ma c’è un limite a quello che un uomo è in grado di tenersi dentro. Adam è colpevole, Adam ha sbagliato e sbaglia, ma è generoso e ha delle attenuanti.

       Il piacere della lettura del romanzo di Fionnuala Kearney viene dalla storia che ci racconta e dalla vivacità dei personaggi- e non posso dire altro della trama. Succede per il lettore quello che succede allo spettatore di una soap opera a puntate: si susseguono colpi di scena, rivelazioni inaspettate, segreti e bugie che fanno molto male quando vengono svelati, il tutto ti pare un po’ troppo, un po’ impossibile, un po’ esagerato e però ti avvince, ti incuriosisce, desideri sapere di più, speri che tutto vada bene e che vivranno felici per sempre, piangi e ridi, ti commuovi e ti arrabbi, prendi parte alla commedia e alla tragedia della vita.

     Non regalerei questo libro ad un uomo (che già sbuffa a vedere un film con Hugh Grant), ma è perfetto per una donna che vuole concedersi una bella lettura un poco sentimentale.


domenica 22 novembre 2015

Isabel Allende, “L’isola sotto il mare” ed. 2009

                                             Voci da mondi diversi. America Latina
                                                          il libro ritrovato


Isabel Allende, “L’isola sotto il mare”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena Liverani, pagg. 426, Euro 19,50

Titolo originale: La isla bajo el mar 



   “Aspetta, Tété. Vediamo se ci aiuti a risolvere un dubbio. Il dottor Parmentier sostiene che i neri siano umani quanto i bianchi e io dico il contrario. Tu che ne pensi?”  le domandò Valmorain, in un tono che al dottore sembrò più paterno che sarcastico.
    Lei rimase muta, con gli occhi rivolti a terra e le mani giunte.
   “Forza, Teté, rispondi senza timore. Sto aspettando…”
  “Il padrone ha sempre ragione” mormorò lei in conclusione.
  “In altre parole, pensi che i neri non siano completamente umani…”
 “Un essere che non è umano non ha opinioni, padrone.”

   Quando si termina di leggere un libro e ci si accorge che la nostra mente continua a seguire la storia che si svolgeva in quelle pagine, che i nomi dei personaggi sono lì, sulla punta della nostra lingua, come dovessimo chiamarli per far loro qualche domanda, vuol dire che la magia del romanzo ha funzionato ancora, che lo scrittore è riuscito a creare un mondo che è diventato tanto reale quanto quello che ci circonda. Avviene questo nel nuovo romanzo di Isabel Allende, “L’isola sotto il mare”, un libro tanto dolente quanto “Paula”, anche se per motivi diversi, perchè è un libro che ci riporta ai tempi in cui la ricchezza dei bianchi si fondava sullo schiavismo, legittimato da assurde teorie sull’inferiorità della gente di colore, equiparata agli animali. Ma è anche un libro che racconta la lotta dei neri per la libertà e che ci parla d’amore, di fughe e di doppie vite, di cocottes e di incesto, di bambini bianchi e di altri bambini la cui pelle viene scrutata e definita in base a sfumature di color cioccolato, o miele, o caramello.

     Ci sono due isole nel romanzo di Isabel Allende- l’isola di Saint Domingue, colonia francese che diventerà la prima Repubblica nera di Haiti, e l’isola sotto il mare di cui parlano gli schiavi neri e che è un poco come la mitica isola di Avalon, luogo di pace per i defunti. Nel 1770 l’isola sotto il mare è dove tutti i neri di Saint Domingue vorrebbero andare, piuttosto che vivere in quelle condizioni disumane, sottonutriti, puniti con frustate al minimo sgarro, costretti a lavorare  fino alla morte perché per il padrone è più economico sostituire uno schiavo che mantenerlo in maniera migliore. Zarité, la piccola mulatta con gli occhi ‘color miele liquefatto’, ha solo nove anni quando viene venduta a Toulouse Valmorain perché si occupi di sua moglie. “L’isola sotto il mare” è la storia di Zarité, trasportata nella piantagione di canna da zucchero di Valmorain, violentata dal padrone a undici anni, madre giovanissima di un bimbo che le viene subito sottratto, infermiera caritatevole della moglie di Valmorain che sprofonda nell’oblio dell’oppio dopo aver dato alla luce Maurice. E’ Zarité a fare da mamma a questo bambino che lei amerà sempre quanto la sua Rosette, un’altra figlia del padrone bianco, anche se Zarité vorrebbe tanto fosse la figlia del suo amore per il bel ragazzo nero che riuscirà a fuggire e a guidare la ribellione. Ed è la voce stessa di Zarité che ascoltiamo in capitoli che terminano per lo più con un ‘Così ricordo’, a sottolineare la distanza tra racconto soggettivo della persona illetterata, affidato alla memoria orale, e quello oggettivo della narrazione principale con cui si alternano.

    Non so quale delle due narrazioni sia la più avvincente ma, d’altra parte, sono talmente intrecciate l’una con l’altra che la voce di Zarité serve quasi da controcanto, voce sottile e forte che si distingue tra il rullo dei tamburi e dei canti degli schiavi che si fanno sempre più minacciosi mentre la vicenda prosegue e passano gli anni. La notizia della Rivoluzione francese arriva con ritardo nell’isola, serpeggia la paura delle conseguenze, solo i più ciechi non vedono che, quando si scatenerà, la furia dei neri sarà terribile e le violenze sui bianchi saranno ampiamente meritate. Toulouse Valmorain riuscirà a fuggire, aiutato proprio da Zarité e dal giovane nero che lei ama. Zarité salva Toulouse solo per amore dei bambini e chiede in cambio l’emancipazione, per sé e per Rosette. Seguiremo ancora entrambi, fino in Louisiana, dove Valmorain possiede un’altra piantagione e la situazione degli schiavi non sarebbe migliore che a Saint Domingue se non fosse per un sorvegliante irlandese che è un uomo buono e giusto.

     Sono tantissimi i personaggi de “L’isola sotto il mare”- ci sono i buoni e i cattivi e i cattivissimi; a New Orleans c’è un prete che aggira la legge che proibisce il matrimonio tra bianchi e neri con un taglietto sulle braccia degli innamorati, cosicché si mescoli il loro sangue e ci sia del sangue nero anche nel bianco; c’è una generosa donna di piacere che insegna l’arte dell’amore, un dottore che vive una doppia vita con la moglie mulatta che non può riconoscere e va a lezione di medicina da quella che comunemente si chiamerebbe una stregona, un padrone crudele che finisce scuoiato…
      A più di vent’anni di distanza dall’indimenticabile “Casa degli spiriti”, Isabel Allende ci ha regalato un romanzo diverso e ugualmente molto bello, mostrando la capacità di rinnovarsi e di cambiare. E se poi qualcuno vuole usare la parola ‘feuilleton’ per definire il suo libro, faccia pure. Io direi che, finché ci sono libri come “L’isola sotto il mare”, il romanzo non è morto, evviva il romanzo!


la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


    
   


    

venerdì 20 novembre 2015

Frances Greenslade, “Il nostro riparo” ed. 2015

                                                                     Voci da mondi diversi. Canada
          FRESCO DI LETTURA


Frances Greenslade, “Il nostro riparo”
Ed. Keller, trad. Elvira Grassi, pagg. 368, Euro 17,50




    Anni ‘70 nella British Columbia, la più occidentale delle province canadesi. Un’area coperta da foreste, abitata da indiani e da bianchi abituati ad una vita spartana, senza elettricità o acqua corrente. Una regione che sembra fuori dal mondo, per alcuni versi idilliaca, lontana com’è dal frastuono della vita competitiva, per altri versi insidiosa, con la minaccia della disoccupazione, della noia che spinge gli uomini a bere e le donne nella depressione.
Il titolo del romanzo di Frances Greenslade, “Il nostro riparo” (“Shelter” in originale) è significativo. La necessità di costruirsi un riparo, in caso di smarrimento, è la prima lezione che il padre insegna alla piccola Maggie. Come scegliere il punto migliore, da dove iniziare, come intrecciare i rami, verso quale direzione lasciare l’apertura. E’ costellato di ripari, il libro di Frances Greenslade. Ripari in senso letterale e in senso metaforico. Hanno bisogno di trovare un riparo le due sorelle, Jenny dai fiammeggianti capelli rossi, e la sorellina Maggie, il maschiaccio di famiglia, la bambina divorata da ansie di pericoli in agguato, voce narrante della storia. Perché all’improvviso si ritrovano sole- il padre è morto da poco in un incidente sul lavoro e la madre scompare, affidando le figlie ad una coppia di amici del marito.

     In un’ambientazione straordinaria, tra foreste, specchi d’acqua, un ricco sottobosco e inverni innevati, la trama del romanzo segue la ricerca della mamma da parte delle figlie, una ragazzina costretta a crescere troppo in fretta e una bambina che ha un bisogno fisico di affetto, che si aggrappa alla fiducia che la mamma non possa averle abbandonate, che sente acutamente la mancanza del padre e del gattino Cannella su cui aveva rovesciato la sua necessità di amore. E’ la storia di un rapporto tra madri e figlie, di ragazze che diventano madri troppo presto per potersi assumere la responsabilità, ed è anche la storia del rapporto tra due sorelle, un legame fortissimo che arriva a compensare, se non a sostituire, quello con la madre. E poi ci sono altre storie nel romanzo, altri personaggi intriganti che non potrebbero vivere in nessun altro luogo- il ragazzino indiano che cresce con lo zio (un altro caso di genitori assenti), la leggendaria indiana che non ha una casa ma si scava una buca in cui dormire (un riparo su ceneri spente per mantenersi al caldo), il nuovo compagno della madre che è stato anche il suo primo amore, uomini che bevono troppo affondando nella bottiglia, storie incredibili e folkloristiche che umanizzano gli animali della foresta.

Ecco, la natura è l’altro personaggio principale del romanzo insieme alla spavalda Jenny e alla tenera Maggie. Maggie ha un occhio attento nei confronti della natura, ne coglie le sfumature, ne ascolta le voci, risponde fisicamente al suo richiamo, è per lei una maniera di rievocare il padre che amava e a tratti le sue descrizioni rasentano il lirismo senza mai cadere, però, nello stucchevole. Ed è la natura che offre il riparo più sicuro. La mamma le aveva messe in guardia- il pericolo può venire dagli uomini, quasi mai dalla natura.

    Qualcosa ci aveva già preparato al finale, forse siamo meno sorpresi noi lettori di quanto lo sia Maggie che ascolta dall’uno o dall’altro quello che ognuno sa di sua madre, tra lacrime e tazze di caffè, come davanti ad un fuoco da campo. Diventa grande Maggie, perché questo è un romanzo di formazione, come è già diventata grande prima del tempo la sorella Jenny. Da una parte c’è un dramma, dall’altra però un raggio di luce e speranza, una forza vitale in una bimba che si chiama Sole.