giovedì 29 marzo 2018

Rosa Teruzzi, “Non si uccide per amore” ed. 2018


                                                          Casa Nostra. Qui Italia
    cento sfumature di giallo


Rosa Teruzzi, “Non si uccide per amore”
Ed. Sonzogno, pagg. 240, Euro 11,90

   “Non si uccide per amore”: quello del nuovo romanzo di Rosa Teruzzi sembra un titolo di un romanzo di Giorgio Scerbanenco, autore tra i prediletti di Libera Cairati, protagonista, insieme all’eccentrica madre Iole e alla figlia Vittoria, della serie della fioraia del Giambellino. Impossibile non ricordare che Libera- forte somiglianza con Julianne Moore, vedova di un poliziotto ucciso in circostanze misteriose, madre di una ragazza che ha scelto di entrare nella polizia per vendicare suo padre, figlia di un’ex sessantottina che continua (a quasi settant’anni) a praticare gioiosamente il libero amore- ha ripiegato come lavoro sulla sua seconda passione dopo aver dovuto chiudere una libreria: crea originali bouquet di nozze, scegliendo fiori che si adattino alla personalità della sposa. Chi ha letto anche i libri precedenti sa che “La fioraia del Giambellino” terminava con un foglietto ritrovato nella tasca di una camicia di Saverio, il marito di Libera. Poche parole, una grafia femminile, l’ora di un appuntamento, il luogo. L’ora e il luogo in cui Saverio era morto. E la donna di cui era stata riconosciuta la grafia, moglie di un uomo della ‘ndrangheta a cui Saverio dava la caccia, era scomparsa lo stesso giorno.

    “Non si uccide per amore” riparte da lì e la novità del romanzo è che non c’è un doppio filone, quello costante con l’interrogativo su chi abbia ucciso Saverio e quello più casuale, con un risvolto intimo, per cui delle sconosciute si rivolgono a Libera in cerca di aiuto laddove gli organi ufficiali si sono tirati indietro- la madre che cerca la figlia che si è volatizzata vent’anni prima, la figlia che vuole scoprire chi sia il padre di cui la madre non vuole rivelarle il nome. In “Non si uccide per amore” Libera diventa il personaggio principale su cui converge tutta la nostra attenzione, mentre Iole ha il ruolo di alleggerire l’atmosfera colma delle paure di tutte le possibili scoperte- era solo un’informatrice Loredana Paci che gli aveva fissato un appuntamento? Perché nessuno sapeva di lei? C’era un traditore tra i colleghi di Saverio? Poteva anche essere Gabriele quel traditore? Gabriele che era l’amico di Saverio, Gabriele di cui Libera è innamorata ed ora pure gelosa?- e Vittoria impallidisce nello sfondo, presa dalla sua improbabile storia d’amore e assente nel momento risolutivo di un mistero che l’ha tormentata da quando ha avuto l’età di capire.
     Rosa Teruzzi ha dosato sapientemente i generi in “Non si uccide per amore”. C’è la soluzione del caso del poliziotto Saverio Deidda da scoprire (i flash back sui giorni che precedono l’appuntamento fatale accrescono la tensione, il viaggio in Calabria di Libera e Jole apre una falla nel muro di silenzio) e poi c’è questa donna dai capelli rossi che ama i fiori, che ha nostalgia del nonno che l’ha cresciuta, che è così timida in amore, forse perché sua madre è così sfacciata, e non ha neppure il coraggio di dirsi che lei l’amore non ha fatto neppure a tempo a conoscerlo e perché mai rifiutarsi di accettare quello che le offre Gabriele, oppure quello del galante e grosso corteggiatore che sembra farle la posta per vederla?

Questo è un romanzo poliziesco che finisce per parlare di amore, per mettere in mostra le tante facce dell’amore- chi può giudicare quale amore sia giusto o sbagliato per ognuno di noi?- e quello che invece non è amore, pur spacciandosi per tale. Non è amore il sentimento che porta al Male, può darsi sia amore di sé ma non certo dell’altro, non certo Amore con la A maiuscola che investe tutto e tutti e non può condurre alla morte.
     Al termine del romanzo sappiamo chi ha ucciso Saverio, come e perché. Ci dispiace però di aver finito di leggere. Ancora una volta la scrittrice ci ha lasciato con il fiato sospeso- e no, non doveva farlo! Possiamo solo aspettare il prossimo romanzo.

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martedì 27 marzo 2018

Luca Saltini, “Una piccola fedeltà” ed. 2018


                                                          Casa Nostra. Qui Italia
              love story
            la Storia nel romanzo


Luca Saltini, “Una piccola fedeltà”
Ed. Giunti, pagg. 276, Euro 15,30


     Gli uomini di questo romanzo di Luca Saltini, “Una piccola fedeltà”, li conosciamo con il cognome, come succede a scuola, oppure sul lavoro- Castiglioni, Janku, Lenz. Delle donne, invece, sappiamo solo il nome, Achilina, Ioana, Erika, Mariela. E questo già dice tanto. Perché tutta la prima parte del romanzo parla di lavoro, lavoro e ancora lavoro. Quel tipo di lavoro che fa guadagnare soldi a palate senza guardare in faccia nessuno, senza scrupoli. Altro che gli ideali sociali del padre di Castiglioni contro cui il figlio si è sempre ribellato. E chissà con quale disprezzo suo padre lo guarderebbe, se sapesse i dettagli del modo con cui il figlio ha fatto i soldi.
     Li ha fatti come trader, con il petrolio, nella Romania di Ceauşescu. Adesso, ad anni di distanza da quando ha iniziato, in un letto di una lussuosa clinica di Milano, Castiglioni ricorda, ricostruisce il passato, si sa che il soffio della morte spinge a riconsiderare le vie che si sono prese e le scelte che si sono fatte. Castiglioni era il cervello, Lenz era il suo più stretto collaboratore, la sua ombra che eseguiva senza discutere, con il sogno di soddisfare ogni desiderio della moglie Erika, Janku era ‘il boss’ rumeno che andava a braccetto con il Conducator, un uomo violento e rozzo con qualcosa di mefistofelico. La prima volta che Castiglioni e Lenz lo avevano visto con Achilina, la maniera da padrone con cui la trattava, l’assoluta mancanza di rispetto nei suoi confronti, ne erano rimasti sconvolti. Anche perché era chiaro che la ragazza- bella, molto bella con quei capelli fini di luce e gli occhi chiari- non gradiva le sue attenzioni ma, pur non potendo far altro che subirle, riusciva a mantenersi altera e distante.

     Tra una Bucarest grigia e triste, con i palazzoni popolari di stampo comunista, il gigantesco Palazzo del Parlamento voluto da quel megalomane di Ceauşescu, la gente in coda per procurarsi qualcosa da mangiare (mentre il whisky di importazione scorre a fiumi negli ambienti del potere, insieme a caviale e cibi prelibati), le ombre minacciose degli uomini della Securitate che possono sbucare ovunque per arrestare chiunque con qualunque pretesto, e l’interno della Romania dove vive Achilina in un villaggio sperduto, tra campi coltivati e colline su cui ondeggia la nebbia del mattino (splendido contrasto, come tra un paese di sogno e la squallida realtà), si svolge la trama di “Una piccola fedeltà”, storia d’amore e storia di ambizione e di potere in un clima di violenza che rispecchia quella di un intero paese.
Perché anche alla fine, quando è il 1989 e tutta l’impalcatura del comunismo scricchiola e sta per crollare, quando la storia è diventata la cronaca di una morte annunciata, nonostante le promesse d’amore di Castiglioni per Achilina, è un ‘si salvi chi può’ e con quanto più denaro si può, e per l’amore c’è tempo. E invece di tempo non ce n’è e Ceauşescu non è l’unico a morire di morte violenta. E per Castiglioni il futuro sono anni di rimpianti. Impossibile rimediare al male fatto nel passato, resta solo un piccolo atto di fedeltà che si può compiere al posto di una fedeltà maggiore che è stata inadempiuta. Un aiuto a Lenz che gli è vicino, così come, quando ancora andava avanti e indietro dalla Romania, nel pieno degli affari, portava sempre una stecca di sigarette alla vecchia signora del mercato, quella che una volta aveva corso il rischio di essere arrestata dalla Securitate per colpa sua.

       Ho pensato agli eroi fallibili di Graham Greene, leggendo “Una piccola fedeltà”. Agli uomini che aspirano al meglio, che sanno dove sbagliano e non riescono a fare altrimenti, ma ci provano. E, come molti dei romanzi di Graham Greene, il libro di Luca Saltini è un romanzo politico oltre ad essere un romanzo d’amore- e questo è il suo grande fascino. D’altra parte lo diceva già Machiavelli, lo ha detto Pavese, che la vita è politica, che ogni scelta della vita è una scelta politica. E i lettori penseranno a lungo ad Achilina, la vittima che si rifiuta di essere vittima.

la recensione sarà pubblicata su ww.stradanove.net
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lunedì 26 marzo 2018

Mircea Cărtărescu, “Perché amiamo le donne” ed. 2009

                                      Voci da mondi diversi. Europa dell'Est


Mircea Cărtărescu, “Perché amiamo le donne”
Ed. Voland, trad. Bruno Mazzoni, pagg. 151, Euro 13,00

   Se il contenuto di questo smilzo libro dello scrittore rumeno Mircea Cărtărescu avesse corrisposto in pieno alla promessa del titolo, “Perché amiamo le donne”, credo che non ne avrei neppure terminato la lettura. Il libro mi incuriosiva, perché pareva così diverso dai romanzi che avevo già letto dello scrittore, ma- sono sincera- non mi importava affatto sapere perché amiamo le donne (chi è che ama? gli uomini? oppure tout le monde, implicando che le donne sono amabili in assoluto?). Ho avuto invece la sorpresa di trovare nel libro qualcosa di diverso: accanto ad immagini femminili, viste, sognate, relegate in un passato lontano, conosciute in un tempo più vicino, è lo scrittore stesso a balzare fuori da queste pagine, finalmente non più ombreggiato da personaggi a lui somiglianti, come in “Travesti”, o “Nostalgia” o “Abbacinante”, ma semplicemente e solamente lui. Che guarda, riflette, racconta. Si racconta.
     Il primo di questi bozzetti è, forse, quello che più caratterizza la raccolta, quello che si potrebbe ritagliare in quattro versi, come in un haiku di Ezra Pound (poeta peraltro citato da Cărtărescu), oppure possiamo immaginare la donna in un dipinto di Vermeer dal titolo: ‘Ragazza nera con turbante’. Una visione mattutina sulla metropolitana a San Francisco: una giovane di colore, vestita con un sari bianco, un turbante in testa dello stesso candore, i fili degli auricolari di un walkman che scendono lungo il collo: “la stessa immagine sensibile della bellezza”.

Le donne che appaiono nei ‘quadri’ seguenti a volte non hanno un nome, proprio perché sono delle sconosciute, come quella che ha colpito lo scrittore per la scia di profumo, o la ragazza dai capelli verdi che si è infilata nel suo letto in Irlanda (scalzando la pecora di gomma e lana che serviva da bottiglia dell’acqua calda per scaldare un letto gelido in uno dei più divertenti tra questi racconti brevi), o l’enigmatica nana nel racconto un poco esoterico ambientato a Torino; a volte sono indicate solo con un’iniziale (come la donna amata vent’anni fa, che dormiva con gli occhi aperti); a volte sono caratterizzate da qualcosa di speciale, come la buffa ripetizione “con le orecchie mogie mogie” della ragazza che assomigliava ad un orsetto e con cui aveva avuto una breve relazione; una, infine, ha qualcosa di sinistro nella sua accettazione di fare l’informatrice della Securitate del regime di Ceausescu.


    Se facessi un elenco delle donne che appaiono nel libro finirei per confermare che sì, questo è un libro che spiega perché le donne vengano amate. Vorrei sottolineare piuttosto come ci appare il bambino, il ragazzo, l’uomo che riassume i suoi incontri con le donne e che risalta come il protagonista di tutti i racconti. Timido e insicuro, studioso e chiuso in sé, tanto consapevole del suo valore intellettuale quanto incerto invece sulla sua attrattiva. Ci appare un poco narcisista, Mircea Cărtărescu, e- dobbiamo proprio confessarlo- non ci pare che ami molto le donne. O meglio, indubbiamente, come ripete spesso, c’è una donna che lui ama. E le pagine in cui parla dell’intimità dell’amore, del sesso che completa il sentimento, di quale sia la sua idea dell’amore, sono molto belle. Ma, nei confronti delle altre donne, ci pare di avvertire una certa condiscendenza, una qualche aria di sufficienza, come la distanza da chi viene avvertito come diverso da sé. Leggermente inferiore, non del tutto comprensibile. Mi sono chiesta, ad esempio, perché, in queste pagine, lo scrittore si rivolga sempre “alle mie lettrici”: per essere politicamente corretto, secondo l’uso che di tanto in tanto si riscontra in America, di impiegare il femminile invece del maschile? Oppure perché (e qui si deve anche tenere conto della maggiore complessità degli altri suoi romanzi) pensa che questa lettura ‘leggera’ sia adatta solo ad un pubblico femminile? Peccato, perché non è affatto così.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


sabato 24 marzo 2018

Olivier Guez, “La scomparsa di Josef Mengele” ed. 2018


                                                  Voci da mondi diversi. Francia
           biografia romanzata

Olivier Guez, “La scomparsa di Josef Mengele”
Ed. Neri Pozza, trad. Margherita Botto, pagg. 202, Euro 14,02

   E’ il 1949 quando Josef Mengele sbarca a Buenos Aires. Sul documento di viaggio della Croce Rossa internazionale risulta come Helmut Gregor, nato il 6 agosto 1911 a Termeno, comune altoatesino, cittadino tedesco di nazionalità italiana, cattolico, professione meccanico. Si è già chiamato Fritz Ullmann quando, dopo aver lasciato di furia la Polonia, nel 1945, ed essersi infiltrato tra le fila della Wehrmacht, è stato liberato da un campo di prigionia americano. Si chiamava Fritz Hollmann quando falciava il fieno in una fattoria della Baviera. Era diventato Helmut Gregor quando era riuscito ad attraversare le Dolomiti e ad arrivare a Genova per imbarcarsi- aiutato, aiutatissimo, perché ci sarà sempre qualcuno che gli faciliterà la vita con i soldi della sua famiglia- per l’Argentina.
    Il nome di Josef Mengele parla da sé, è uno di quei nomi che mettono i brividi- l’Angelo della Morte che si faceva chiamare ‘zio’ dai bambini internati ad Auschwitz e distribuiva caramelle prima di far di loro le sue cavie. Adesso, quando sbarca a Buenos Aires, tiene stretta la sua preziosa valigetta con strumenti e documentazione dei suoi esperimenti. Suscita sospetto, se la cava dicendo che la  biologia è la sua passione. E’ da questo momento che lo scrittore francese Olivier Guez si mette sulle sue tracce e segue le sue peregrinazioni in un romanzo di non-fiction che ha il fascino dell’orrore- cerchiamo inutilmente in queste pagine una qualche forma di ripensamento o di pentimento da parte del criminale di guerra che non fece mai i conti con la giustizia terrena.

    La mole della documentazione di Olivier Guez è enorme- lui stesso dice, a fine libro, che poteva solo ricorrere alla forma del romanzo per ricostruire la vita in esilio, i pensieri, le paranoie e la tremenda solitudine di un uomo egocentrico e narcisista che non smise mai di credere nella superiorità della razza ariana e che- terribile ironia della sorte- si trovò a dover vivere in mezzo a quelli che, secondo l’ideologia nazista, erano esseri inferiori. Dall’Argentina di Peròn, dove tutto sommato Mengele non si trovava male, al Paraguay e poi in Brasile. Da Buenos Aires (dove praticava aborti clandestini, motivo per cui dovette fuggire) a luoghi sempre più isolati fino alla sperduta fattoria in Brasile dove, pur disprezzandola, diventò l’amante della moglie del suo ospite. Aveva perfino costruito una torretta dove si piazzava di vedetta per avvistare eventuali sconosciuti che si fossero avvicinati. Perché da un certo punto in poi, sapeva di essere un animale braccato. Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, l’uomo che era riuscito a ‘rapire’ Eichman, era sulle sue tracce. E Mengele aveva paura di tutto, non osava neppure farsi curare quando stava male.
Dopo il processo di Eichman aveva anche paura che qualcuno potesse riconoscerlo, con quella fronte alta e bombata e lo spazio tra gli incisivi frontali. Ma Josef Mengele non è il solo colpevole in tutta questa vicenda. Josef Mengele si è salvato per il comportamento a dir poco ambiguo di Vaticano, Croce Rossa, degli americani stessi, tutti impauriti dal pericolo ‘rosso’. Si è salvato perché le dittature sudamericane avevano un tornaconto nell’offrire rifugio ai nazisti e nel non concedere l’estradizione. Si è salvato perché la sua famiglia ha continuato a finanziarlo attraverso una fitta rete di sostenitori della causa. Non solo. La famiglia Mengele ne ha approfittato per vendere macchinari agricoli nei paesi dell’America Latina facendo fare a lui, Josef, il rappresentante.

    Un capitolo particolarmente doloroso del libro è quello dell’incontro di Josef Mengele con Rolf, il figlio avuto dalla moglie Irene che chiese il divorzio dopo la fine della guerra. Rolf è una figura tormentata. Dopo molte incertezze aveva raggiunto quel padre che per tanti anni non aveva saputo fosse suo padre, per sapere- che cosa? Voleva avere un’ammissione di colpa? Voleva sapere perché avesse fatto ad Auschwitz quello che si sapeva che aveva fatto? se era vero che aveva fatto bollire dei cadaveri per staccare la carne dalle ossa? Rolf Mengele tornerà in Germania senza nessuna risposta, disgustato dall’uomo che aveva incontrato e nello stesso tempo incapace di denunciarlo rivelando dove vivesse. E cambierà cognome.

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giovedì 22 marzo 2018

Silvia Truzzi, “Fai piano quando torni” ed. 2018


                                                   Casa Nostra. Qui Italia
       love story

Silvia Truzzi, “Fai piano quando torni”
Ed. Longanesi, pagg. 272, Euro 13,94

    
    Margherita, trentacinque anni, è in un letto d’ospedale. Ha avuto un incidente d’auto. Veramente, solo un incidente o voleva uccidersi?
    L’ultrassettantenne Anna condivide la stanza d’ospedale con Margherita. Si è rotta il femore cadendo in casa.
    Margherita, magrissima, capelli molto corti, camicie da notte che sembrano vestiti da sera (gliele porta sua madre), l’immagine della raffinatezza e però sempre di umore cupo, scostante, arrabbiata con tutti e prima di tutto con se stessa.
    Anna, capelli di un colore assurdo, biondo platino, forme abbondanti che lascia generosamente intravvedere, camicie da notte e vestaglie sempre rosa e con pizzi, l’immagine della volgarità ma di un’allegria straripante, non c’è offesa che la blocchi, ha una voglia di vivere contagiosa.
    Ogni capitolo di “Fai piano quando torni” inizia con una breve lettera. L’intestazione della prima è ‘Napoli, 10 maggio 1960’, quella del’ultima, ‘Napoli 4 luglio 2015’. Entrambe sono firmate ‘il tuo Nicola’. Nella prima Nicola scrive che, anche se c’è un proverbio che dice, L’ammore fa passà ‘o tiempo e ‘o tiempo fa passà l’ammore, ‘E’ falso. Anche se il tempo passa io ti penso sempre.’ Nell’ultima, più di mezzo secolo dopo e tante altre lettere in mezzo, alcune firmate Anna, o ‘la tua Annuccia’, in risposta alle sue, Nicola dice, ‘Che brutta cosa la vecchiaia. Voglio dirti che pensare a te mi ha fatto superare tutti gli accidenti, tutte le cose brutte e i dispiaceri.’

    Anna, a cui sono indirizzate le lettere, è proprio lei, la compagna di stanza di Margherita ed è la sua storia di un amore durato tutta una vita che noi leggeremo, che lei racconta a Margherita che dapprima non vuole sentire, che è burbera e sgarbata, che respinge il tentativo di amicizia che Anna le offre. Ma Anna parla ugualmente. Anna parla perché questo è il suo carattere, parla perché, più o meno consciamente, vuole aiutare quella ragazza che si rifiuta di vivere, perché la vita non fa sconti a nessuno- lo sa bene lei, Anna, che a nove anni è stata mandata a servizio perché in casa sua non c’era abbastanza da mangiare per tutti. Una bambina fra sconosciuti, altro che i privilegi di cui aveva goduto Margherita, figlia unica adorata dal padre.

    Da una parte Anna racconta, dall’altra Margherita ricorda- il padre che è morto troppo presto, il fidanzato con cui sognava un futuro insieme e che invece l’aveva lasciata per un’altra dopo una convivenza di cinque anni, il momento in cui aveva chiuso gli occhi e l’automobile si era schiantata.

    Lentamente, lentamente, anche se Margherita non abbandona i suoi modi bruschi e la sua aria di superiorità e disprezzo, nasce un’affettuosa confidenza tra la donna anziana e quella giovane che finisce per sostituire, per Anna, la figlia arida e ambiziosa che raramente la va a visitare. Si sbagliava, Margherita, quando pensava che questo grande amore di Anna fosse l’uomo che era diventato suo marito. Era mezzo secolo che lei e il suo Nicola non si vedevano- ora che è possibile, ora che Nicola è libero, non sarebbe bello rivedersi?
metropolitana di Napoli che incanta Margherita

     Il libro di Silvia Truzzi è un romanzo che parla di amicizia, di amore, di rapporti famigliari, di giovinezza e di vecchiaia e del valore di entrambe, di cultura sterile e di saggezza popolare, di tenacia e ambizione, di lotta quotidiana che dà un senso alla vita. I discorsi di Anna, il suo buon senso terra-terra, la sua generosità nel dare di sé, sono di maggiore aiuto a Margherita che non lo psicologo. La storia dell’amore contrastato e lontano (che forse è durato così a lungo proprio perché non ha conosciuto la quotidianità) che sembra uscire da uno dei romanzi Harmony che Anna ama leggere, spinge Margherita a rivedere la sua storia con l’idealizzato Francesco e la porta poi a Napoli che diventa il simbolo di luminosità e bellezza, di gioia di vivere. E naturalmente non voglio dirvi il finale di questa storia raccontata con garbo, vivacità, eleganza e umorismo gentile.

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mercoledì 21 marzo 2018

Savyon Liebrecht, "Le donne di mio padre" Intervista 2008


                                       Voci da mondi diversi. Medio Oriente


Quando, anni fa, avevamo letto “Prove d’amore”, il primo romanzo della scrittrice israeliana Savyon Liebrecht, ci aveva colpito l’originalità della storia- l’amore ‘a tempo’ di due persone che si conoscono andando a far visita ai rispettivi genitori in una clinica geriatrica. Leggendo in seguito i suoi libri di racconti, “Mele dal deserto”, “Donne da un catalogo” e “Un buon posto per la notte”, avevamo ammirato l’eleganza, la sensibilità e la discrezione del suo modo di narrare. Sono tutte qualità che abbiamo ritrovato in quest’ultimo romanzo appena pubblicato dalla e/o, di cui abbiamo parlato con la scrittrice durante la Fiera del Libro di Torino.

Questo è il primo romanzo dopo “Prove d’amore”. In mezzo ci sono raccolte di racconti: trovo sempre affascinante osservare come uno scrittore riesca a passare dai racconti ai romanzi. Come le è venuta l’idea per questo romanzo e come ha saputo che era l’idea per un romanzo e non per un racconto?
      Penso di essere, prima di tutto, una scrittrice di racconti. Infatti entrambi i miei romanzi all’inizio erano dei racconti. In questo caso l’idea era quella di un ragazzo che passa da una casa all’altra con il padre, era sul tempo passato insieme, di padre e figlio senza casa, alla ricerca di un tetto per la notte. Questo è il cuore del romanzo. Poi è venuta la domanda- dov’è la madre? E da una domanda ne nasce un’altra, e le domande sono diventate risposte sempre più lunghe e il racconto è diventato un romanzo.


I due personaggi principali sono due uomini: ha trovato difficile scrivere del dongiovanni Aharon Rosenberg?
    No, per niente. Penso che la domanda se sia difficile scrivere con una consapevolezza di uomo o di donna, se a farlo è uno scrittore del sesso contrario, sia irrilevante: è lo stesso, non fa differenza. Dipende da quanto si va in profondità, perché nel profondo la psiche di un uomo e di una donna si incontrano. La differenza è nel comportamento esterno dei gesti, ma il cuore è lo stesso. Una volta che ho delle informazioni sui protagonisti, non ho nessun problema. I bisogni e i desideri umani fondamentali sono gli stessi, non c’è una divisione così netta.

A proposito di Aharon Rosenberg, ci piacerebbe sapere quale è la storia che ha dietro di sé, che cosa c’è nel suo passato che lo porta in maniera così forte verso le donne. Potrebbe essere il soggetto di un altro romanzo?
Quello che avevo in mente per Abraham era un sopravvissuto dell’Olocausto, un bambino che a suo tempo non ha avuto abbastanza amore e così continua a cercare amore. La sua è stata un’infanzia non realizzata, il bambino che è in lui non si è sviluppato, si comporta in maniera irresponsabile. Ci sono dei momenti in cui il ragazzo sembra più adulto del padre.


La letteratura ebraica è spesso sulla memoria. Anche questo è un libro sulla memoria, anche se di tipo diverso. Si può sempre manipolare la memoria, come qualunque altro processo mentale?
   Sì, ho letto molti libri su come la gente ricorda o dimentica le cose, e poi qualcosa fa loro tornare in mente tutto. Si dice che se qualcuno nasconde un tesoro mentre è ubriaco, se lo vuole ritrovare è meglio che si ubriachi di nuovo, perché non lo troverà mai da sobrio. Come posso applicare questo al mio libro? Il bambino è cresciuto, non si può ritornare all’infanzia. Quando però ritorna sul posto, allora i sensi funzionano, quello che vede, gli odori che fiuta lo fanno ricordare. Negli Stati Uniti doveva iniziare una nuova vita, proprio come i sopravvissuti dell’Olocausto e non poteva permettersi di ricordare, doveva rimuovere la memoria.

La memoria della Shoah che deve essere mantenuta ad ogni costo, anche a quello della manipolazione: i suoi genitori sono sopravvissuti all’Olocausto, le hanno mai parlato dei ricordi del tempo prima, durante e dopo la guerra?
    So che ci sono dei sopravvissuti che parlano della loro infanzia prima della guerra. I miei genitori parlavano solo di dopo che si sono incontrati. Dopo la guerra mio padre ha trovato un lavoro e ha affittato una casa da dei tedeschi che avevano perso il figlio in guerra. E’ straordinario: io sono nata in Germania e, quando siamo andati a vivere in Israele, i miei hanno continuato a corrispondere con queste persone; io li chiamavo “Oma” e “Opa”, nonno e nonna. Non ho mai saputo se i miei genitori avessero dei fratelli e delle sorelle. Eppure esiste un silenzio che trasmette delle informazioni. Scopro di sapere delle cose che non mi sono mai state dette. Ad esempio, che mio padre era già stato sposato e aveva avuto un bambino- lo sapevo, lo avevo capito da una fotografia…


Il personaggio più toccante del libro è Berel, il sopravvissuto. Il ragazzino, e poi il giovane uomo che diventa, è molto affezionato a lui: che cosa hanno in comune?
    Penso che lo riconosca come il debole, in un certo senso sono entrambi vittime della loro situazione. Si assomigliano nella loro vulnerabilità, nel fatto che sono emarginati, Berel nella società e il bambino fra gli altri bambini.

La madre resta piuttosto fuori della scena: come mai?
  E’ americana e gli americani non hanno mai sperimentato niente di così terribile come l’Olocausto. L’America è un mondo così diverso. Gli ebrei americani sono dell’alta borghesia, non riescono a capire. Lei è cattiva nei confronti di Berel, è una ragazza viziata che ad un certo punto crede di vivere in un sogno e poi la sua vita viene spezzata.

La bellissima poesia che termina il libro è intesa per farci cambiare idea su Aharon?
    E’ un po’ come le domande su quale sia la verità: che cosa è successo in quella stanza? Aharon ha ucciso l’attrice? Oppure si è suicidata? O l’ha uccisa sua sorella? E così anche la poesia dedicata da Aharon alla moglie, che viene però letta anche dall’altra donna: è l’enigma della vita stessa.

l'intervista e la precedente recensione sono state pubblicate su www.wuz.it





martedì 20 marzo 2018

Nora Ikstena, “Il latte della madre” ed. 2018


                                                                  vento del Nord
             la Storia nel romanzo
             storia di famiglia

Nora Ikstena, “Il latte della madre”
Ed. Voland, trad. Margherita Carbonaro, pagg. 188, Euro 13,60

 Mia madre aspirò una boccata di fumo e per un istante restammo sedute accanto alla tomba di Bambi.
Ma perché ha mangiato il suo bambino, le chiesi.
Forse voleva evitare che finisse in gabbia, disse mia madre e mi abbracciò forte.

Rileggeremo queste frasi più avanti, in questo libro davvero molto bello della scrittrice lettone Nora Ikstena, e le capiremo meglio. Sapremo che Bambi è il criceto della bambina e che la gabbia di cui parla la madre non è soltanto quella della bestiola e che la storia di queste donne, madre e figlia, è più ampia di quanto appare all’inizio, ci introduce alla Storia dei tre minuscoli stati baltici contesi da diverse potenze straniere.
    “Non ricordo il 15 ottobre 1969”- è la figlia a parlare. Di quel giorno d’autunno in cui è nata sa che sua madre era scappata per cinque giorni subito dopo averla messa al mondo perché non voleva allattarla. E’ l‘immagine portante del libro, quella del latte materno rifiutato, del seno cercato, del latte che la bambina vomita a scuola, dell’acqua calda come il latte, come il liquido amniotico nel ventre di una madre- simbolo di un rapporto complesso fatto di opposti sentimenti.
    “Non ricordo il 22 ottobre 1944”- adesso è la madre a prendere la parola. In quel tremendo anno di guerra l’Armata Rossa aveva messo in fuga i nazisti da Riga. Lei neonata era stata portata via dai genitori, in una casa tra i boschi, e sì, lei, invece, era stata allattata al seno perché la sua, di madre, aveva tanto latte. Poi erano arrivati dei soldati, si erano messi ad abbattere gli alberi, avevano portato via suo padre che protestava e sua madre, terrorizzata, l’aveva chiusa in una valigia in cui aveva fatto dei buchi e si era nascosta in un armadio.

  Da adesso le due voci si alterneranno, sovrapponendo i tempi della narrazione, dandoci due angolazioni diverse di visione. Nella storia privata di famiglia c’è la nonna che si risposa con un uomo, ‘il patrigno’, che sarà sempre molto affettuoso con la figliastra e con la nipote. C’è la madre ambiziosa e intelligente che diventa medico ginecologo, che resta incinta e rifiuta il suo latte alla bambina perché sa che sarebbe un latte amaro, perché lei si porta dentro il male di vivere, acuito dalla situazione politica, dalla sensazione di essere in una prigione che diventerà poi un’immaginaria cella di isolamento quando, per punizione, viene mandata a lavorare in un luogo sperduto- lei che era riuscita a praticare un’inseminazione artificiale in maniera artigianale rendendo felice una donna che credeva di essere sterile, lei che aveva un occhio diagnostico eccezionale, che aveva un numero infinito di donne incinte che aspettavano con pazienza di essere visitate proprio da lei. C’è la figlia che elemosina l’affetto della madre, che è bravissima a scuola per strappare un elogio dalla madre, che piange quando devono lasciare Riga e i nonni per quel posto nel nulla.

    Nella vita da sole, di madre e figlia, qualcosa cambia lentamente. Non c’è più la nonna ad essere la figura forte di casa, si invertono lentamente i ruoli, la figlia diventa a poco a poco la madre di sua madre. Tocca alla figlia svolgere i lavori di casa, tocca a lei cercare di strappare la madre a quel buio che la tenta, all’apatia che è rifiuto della vita. Aumentano le ossessioni della madre che si identifica con i fantasmi che escono dalle sue letture, la madre è il capitano Achab che lotta contro la balena, è il Winston orwelliano stritolato dal Grande Fratello. Tanto da non accorgersi che i tempi stanno cambiando, che Breznev non c’è più, che è arrivata la glasnost, che la porta della gabbia del criceto si è aperta, che sarebbe bastato aggrapparsi a quello che aveva, al lavoro, alle sue pazienti, alla figlia, all’amica Jesi, e avrebbe visto abbattere il muro di Berlino e la bandiera bianca e rossa sventolare di nuovo su Riga.

    Un libro incredibilmente forte, da leggere, in cui il rapporto madre-figlia si inserisce, in una maniera ricca di sfumature, in quello di un paese e la sua gente.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net
Nora Ikstena sarà presente a Milano, a Book Pride, sabato 24 marzo
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lunedì 19 marzo 2018

Savyon Liebrecht, “Le donne di mio padre” ed. 2008


                                                      Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                  Shoah


Savyon Liebrecht, “Le donne di mio padre”
Ed. e/o, trad. Alessandra Shomroni, pagg. 252, Euro 18,00

Titolo originale: HaNshim shel Aba

  Un secondo ricordo lo colpì come uno schiaffo: lui, suo padre e una donna sconosciuta dormivano nell’unico letto di un monolocale. La donna da una parte, suo padre in mezzo e lui di spalle, senza muovere un muscolo, immobile anche quando il materasso cominciò a ballare come se ci fosse un terremoto.

      Meir Rosenberg ha trent’anni quando la madre gli dice che il padre, che Meir credeva morto, è vivo. Che ha passato più di diciotto anni in prigione. Che è molto ammalato e che verrà in America a farsi curare. Come può reagire un giovane uomo ad una notizia del genere, che sconvolge il suo presente e fa riaffiorare un passato che aveva volutamente dimenticato? Sbattendosi la porta alle spalle e scendendo di corsa le scale, scordando che c’è l’ascensore. Fuggendo dai ricordi che da questo momento lo assilleranno, inarrestabili.
    “Le donne di mio padre” della scrittrice israeliana Savyon Liebrecht è un libro di ricordi che il lettore non riuscirà a dimenticare, un romanzo sul rapporto di un padre con il figlio e di come i comportamenti del padre abbiano influenzato quelli del figlio, una storia di un duplice viaggio- di Meir, bambino di sette anni, che viene messo su un aereo che da Tel Aviv lo porta a raggiungere la madre a New York, e di Meir trentenne che ritorna in Israele per incontrare il padre. E se, come ha detto un grande scrittore, la vita è una detective story, anche quella di Meir è un’indagine con un risvolto poliziesco. Perché, sulle tracce del passato, non è solo la personalità del padre che Meir vuole ricostruire, ma anche che cosa sia successo nella stanza di cui ricorda solo una grande macchia rossa su un lenzuolo.

     Esiste una verità? O la verità ha molte facce e ognuno ha la propria verità, così come ognuno ha la propria versione dei ricordi? Il fascino di questo libro è in parte anche in questo- nel procedere accumulando immagini del passato, a volte frammenti minuti, a volte quadri più ampi. Mettendo a confronto i ricordi di Meir con quelli del padre che, ogni tanto, sembra voler manipolare la memoria del figlio. Perché chi era in realtà Aharon Rosenberg, arrivato in Israele dalla Polonia attraverso la Russia, scampato all’Olocausto? Soltanto il vecchio Berel, che vedeva la Gestapo nella polizia israeliana, aveva conosciuto l’ Aharon di prima della guerra; a Tel Aviv il padre di Meir era un poeta squattrinato, un giornalista occasionale, l’uomo aitante che aveva sposato una ricca turista americana. Quando questa era andata a trovare il padre ammalato nel Connecticut, Aharon Rosenberg era stato sfrattato perché non era in grado di pagare l’affitto. E aveva avuto inizio il suo peregrinare con Meir. Ecco: è incredibile quanto lunghi possano essere cinque brevi mesi, 150 notti passate- in quante case diverse?
La tecnica del fascinoso Aharon è sempre la stessa: si aggira intorno al caffè degli intellettuali, o nelle sale da ballo, o dove possa fare degli incontri; adocchia una donna, la avvicina, la corteggia, si fa invitare a casa sua. Dopo essersi accertato che le piacciano i bambini, perché Meir lo segue ovunque, ascolta quello che un bambino non dovrebbe sentire, vede quello che non dovrebbe vedere. A volte dorme nello stesso letto dove i due gemono facendo sesso. O non dorme e si tappa le orecchie, nascondendo la testa sotto il cuscino. Era per mettere un tetto sulla testa del figlio che Aharon aveva elaborato questa strategia? O perché non poteva fare a meno delle donne, come dirà molto tempo dopo, parlando degli anni in prigione? E che cosa era successo nella casa delle due sorelle, dove si erano fermati più a lungo?
     E’ raro trovare un libro in cui la trama sia, dopotutto, esile eppure così ricca e piena, con dei personaggi a cui continuiamo a pensare anche dopo aver terminato la lettura. Perché questo è un romanzo che ha l’ambiguità della vita stessa e, quando crediamo di aver capito tutto di Aharon Rosenberg, arriviamo all’ultima sezione del libro, aspettandoci altre rivelazioni. Invece troviamo una sola pagina, con una poesia scritta da Aharon in carcere. Bellissima. E il nostro giudizio viene capovolto.

la recensione e l'intervista che segue sono state pubblicate su www.wuz.it