sabato 31 luglio 2021

Namwali Serpell, “Capelli, lacrime e zanzare” ed. 2021

                                                 Voci da mondi diversi. Africa

          saga

Namwali Serpell, “Capelli, lacrime e zanzare”

Ed. Fazi, trad. E. Budetta, pagg. 650, Euro 18,50

 

     “Scrivo per i curiosi”, ha detto Namwali Serpell, la giovane scrittrice zambiana che ha vinto parecchi premi nel 2020 con questo romanzo dal titolo “The old drift” in originale. E il fascino del romanzo è proprio nella curiosità che suscita nei lettori, trascinati in un mondo che non conoscono, coinvolti in una saga che copre tre generazioni di donne (nonne, nipoti e figlie) e che ci trasporta dall’Africa all’Italia e all’Inghilterra prima di ritornare a Lusaka, capitale dello Zambia.

     Tutto inizia nei primi anni del ‘900, con la colonizzazione dell’Africa, la scoperta delle cascate Vittoria, la convinzione che i bianchi siano esseri superiori e il disprezzo per i neri comprensibile e scontato.

Quando la scena si sposta in Italia, ad Alba, e fa la sua comparsa la prima delle protagoniste femminili, Sibilla, lo stupore per questo personaggio ci invita alla pazienza per arrivare  a capire quale è e quale sarà il collegamento tra lei e l’Africa. Sibilla e le altre due grandi protagoniste hanno tutte un ‘difetto’, come una crepa su un vaso di cristallo. Sibilla è affetta da ipertricosi- ho pensato al personaggio de “La donna leone” di Erik Fosnes Hansen-, un’anomalia per cui è interamente ricoperta di peli che, anche se tagliati quotidianamente, ricrescono a velocità incredibile. Quando ci sposteremo in Inghilterra conosceremo Agnes, giovane promessa del tennis che diventa cieca, e in Africa, infine, Matha che, dopo essere stata abbandonata incinta dall’uomo che amava, non smise più di piangere per tutto il resto della vita.


     Nonostante la sua stranezza, o forse proprio per quella, Sibilla incontra l’amore- una storia avventurosa che include un omicidio, un’identità rubata e una fuga in Zambia dove il marito italiano si occuperà dei lavori per la diga di Kariba sullo Zambesi. Poi seguirà il disamore nonostante la nascita di una figlia e per lui il decadimento fisico e l’alcolismo che sembrano essere prerogative dei bianchi nelle aree colonizzate.

    Anche Agnes si innamora ed è ricambiata. Lei non lo sa, perché non vede, ma il suo Ronald, in Inghilterra con una borsa di studio, è di colore. La loro unione è avversata dai genitori di lei e anche questa coppia pensa di trovare riparo dai pregiudizi in Africa. Avranno due figli e il maschio, Lionel, sarà il protagonista dell’ultima parte del libro, insieme a Sylvia, figlia della piangente Matha. La quale Matha, però, era stata protagonista del programma spaziale zambiano (poco o affatto conosciuto, ma assolutamente reale anche se risibile) voluto da Edward Makuka Nkoloso negli anni ‘60, mentre sua figlia, con la prerogativa di un codice genetico diverso, sarà al centro delle ricerche scientifiche per il vaccino che possa salvare l’Africa dalla nuova peste dell’Aids che ha già spazzato via due generazioni.

la diga Kariba

    È un romanzo ambizioso, “Capelli, lacrime e zanzare”, in cui le zanzare del titolo italiano non sono gli insetti noiosi a cui siamo abituati in Europa ma voraci portatori di malattie e protagoniste di un quanto mai insolito coro che intervalla la narrazione. C’è realismo e realismo magico africano, c’è un filone futurista con ricerche scientifiche e tecnologiche e ci sono tracce di fantascienza con droni e microchips inseriti nelle dita della popolazione (sono uno sviluppo ulteriore dei telefoni cellulari con mille ulteriori funzioni, da torcia a macchina fotografica, e finiscono per essere un ineludibile strumento di controllo da parte del potere centrale). Ci sono storie su storie e una miriade di personaggi: se possiamo ricorrere all’immagine possente delle cascate Vittoria come un paragone per questo grandioso romanzo, possiamo però anche pensare a quando il corso di un fiume si fa meno impetuoso e l’acqua diventa stagnante, per le pagine in cui il racconto rallenta e perde la presa.

      È forse un po’ troppo lungo questo romanzo affascinante per lettori curiosi? Resta, però, un libro da leggere, così come Namwali Serpell, che si è trasferita in America con la famiglia all’età di nove anni, resta una scrittrice da tenere d’occhio.

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domenica 25 luglio 2021

Puk Qvortrup, “In una stella” ed.2021

                                                                            vento del Nord

  romanzo autobiografico

Puk Qvortrup, “In una stella”

Ed. Marsilio, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 196, Euro 16,50

 

        Come si fa a dire ad un bambino di due anni che il suo papà è morto? È una parola senza senso per lui, e già facciamo fatica noi adulti a capire la morte. Allora gli si dice che il papà era andato a correre e che correva così forte e non si è fermato, ed è arrivato fino ad una stella. Lo si porta ad una finestra, gli si indica una stella- il papà è lassù, lo si saluterà ogni sera.

     A casa era tutto pronto per festeggiare il secondo compleanno di Elmer, lei stava decorando un omino di marzapane, con la pancia che la ingombrava perché c’era un secondo bambino in arrivo. Poi la telefonata e la corsa in ospedale. Lasse stava correndo la mezza maratona, un arresto cardiaco lo aveva stroncato. Aveva ventisette anni.


   Se per romanzo intendiamo ‘fiction’, è impossibile definire ‘romanzo’ il libro di Puk Qvortrup, giornalista danese al suo esordio letterario. È un diario del dolore, l’elaborazione di un lutto, uno sfogo e una confessione letterari. Rimasta sola, con un figlio piccolo e un altro che sarebbe nato da lì a tre mesi, Puk passa attraverso tutti gli stadi della perdita. L’incredulità e l’incapacità di accettarla, la speranza contro ogni ragionevolezza che Lasse possa uscire dal coma, il vuoto totale dentro di sé, il crollo di ogni sogno per il futuro e i ricordi che si rovesciano su di lei, come un’onda gigantesca- come possono fare così male dei ricordi di tanta felicità? E poi Elmer, la rabbia di questo piccolo uomo che è preso da furie improvvise contro di lei, quasi la ritenesse responsabile per la scomparsa del papà. E le difficoltà pratiche della vita quotidiana che non si possono accantonare. La famiglia di lui e quella di lei che cercano di aiutare, gli amici che sembrano essere onnipresenti- tutto può diventare un peso, un fastidio, quando si vuol solo piangere.


    Con sentimento, con pudore, con delicatezza, con estrema sincerità, Puk Qvertrup, scrive una cronaca del dolore, mettendosi a nudo, non nascondendo neppure l’assurdo eppur così comprensibile rancore nei confronti del marito che l’ha lasciata sola, e neppure il desiderio che la sorprende, di essere ancora bella, di avere delle mani maschili che la accarezzano. Perché la vita va avanti, le stelle stanno a guardare, un bambino nasce e ha gli occhi di Lasse, la routine giornaliera è un delirio, ma in qualche maniera Puk ha trovato anche la forza di proseguire gli studi di giornalismo.

      E l’ultimo capitolo ci allarga il cuore. Perché questo è un libro che fa male, che vorremmo accantonare ma non possiamo farlo, perché i versi di John Donne, non chiederti per chi suona la campana, riecheggiano nei nostri orecchi e l’esperienza di chi ha avuto la forza di non lasciarsi inghiottire dal buio della sofferenza è un esempio luminoso, da seguire, da ammirare e su cui meditare.

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domenica 18 luglio 2021

Kate Grenville, “Una stanza fatta di foglie” ed. 2021

 

                                              Voci da mondi diversi. Australia


Kate  Grenville, “Una stanza fatta di foglie”

Ed. Neri Pozza, trad. Simona Fefé, pagg. 352, Euro  18,00

 

    È entrato in inglese nel nostro lessico, il titolo “A room of one’s own”, per indicare uno spazio che la donna rivendica solamente per sé. Nel romanzo di Kate Grenville lo ritroviamo in francese, con una strizzata d’occhio a Virginia Woolf da parte della scrittrice australiana, mon petit coin à moi- sono le parole con cui Dawes, studioso appassionato di astronomia e botanica, interessato alle lingue dei nativi australiani e il personaggio più accattivante del libro (a parte la protagonista), indica la stanza fatta di foglie, nascosta tutt’intorno dalla vegetazione, verso cui conduce Elizabeth- sarà il luogo dei loro incontri d’amore, segreti e appassionati, un Giardino dell’Eden.

    Elizabeth Macarthur e suo marito John sono veramente esistiti, la loro effigie, come pionieri nell’Australia dei primi anni dell’800, è sulle banconote, la loro casa, Elizabeth Farm, è un museo.


La scatola di latta contenente le memorie di Elizabeth che dà ‘il via’ al romanzo, è invece un’invenzione, il tradizionale espediente narrativo del genere del manoscritto ritrovato in soffitta. E tuttavia, pur facendo concessioni alla libertà immaginativa dello scrittore, le vicende del libro sono basate su vecchi documenti d’archivio e gli stralci delle lettere sono tratti dalle vere lettere di Elizabeth.

     Era il 1790 quando Elizabeth salpò con il marito e il figlio neonato per la colonia penale del Nuovo Galles del Sud, da poco istituita. Era stato un matrimonio riparatore ed Elizabeth doveva essere grata per questa conclusione di un amplesso che era durato pochi minuti in una notte di curiosità. Nelle lettere che scrive all’amica, Elizabeth diventa maestra nell’arte dei doppi significati e delle allusioni, del dire senza dire, del lasciar intendere- sa che il marito le leggerà prima di inoltrarle. Non c’è mai la minima illusione, mai si parla di amore, solo di abbracci (sgradevoli) notturni per adempiere un dovere.


     L’arrivo nella colonia è sconvolgente. Ci sono loro, i britannici che fanno parte dell’esercito, ci sono le loro mogli, c’è un governatore, un pastore della Chiesa. E poi ci sono gli altri, i galeotti per cui la pena di morte è stata scambiata con un esilio al fine di popolare la colonia con una mano d’opera non pagata. Sono uomini e donne che hanno commesso le infrazioni più varie che oggigiorno ci sembrano di ben poca entità- uno di loro, che darà poi un inestimabile aiuto ad Elizabeth, era stato condannato a morte per aver rubato un montone. E poi, più in basso ancora, ci sono i nativi su cui circolano le voci più assurde (ritenute vere, peraltro), come ad esempio che mangino i propri figli.

    Non è soltanto al nuovo ambiente sociale e alle regole non scritte di questo che Elizabeth si deve abituare. Deve imparare a ‘gestire’ il marito, ambizioso, presuntuoso, geloso, arrogante, con un esagerato e molto personale senso dell’onore. Deve imparare a non confrontare le verdi colline del Devon che sono ormai un lontano ricordo con questo nuovo paesaggio arido dove anche l’aria sa di polvere e dove perfino i vivere scarseggiano.

Elizabeth Farm

    È un personaggio entusiasmante, questa Elizabeth Macarthur. È la dimostrazione di quello che può fare una donna in circostanze sfavorevoli quando usa il cervello per trarre quello che può nella situazione in cui si trova. Può imparare cose nuove- l’astronomia e la botanica. Può imparare l’amore, cautelandosi nel rischio. Può aprire gli occhi e sottrarsi ai luoghi comuni che vedono i nativi come selvaggi e non come esseri umani a cui si è rubata la terra. Può, usando l’astuzia oltre che l’intelligenza, favorire le velleità del marito che, senza di lei, mai avrebbe avuto il successo che ebbe come allevatore di pecore e padre dell’industria laniera australiana. Può farsi una ragione che la sua vita è del tutto cambiata e conviene derivarne il meglio, imparando ad amare quel paese che le svela tutta la sua sterminata bellezza, che è diventato la sua ‘casa’, a sostituire quella che conviene dimenticare.

    Un romanzo da leggere, una storia di personaggi veri, di avventura e di scoperta, di iniziativa e di coraggio, di paesaggi splendidi. E anche una storia d’amore.

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sabato 10 luglio 2021

Deon Meyer, “L’ultima caccia” ed. 2021

                                               Voci da mondi diversi. Africa

cento sfumature di giallo

Deon Meyer, “L’ultima caccia”

Ed. e/o, trad. Silvia Montis, pagg.387, Euro 18,00

 

     Due vicende parallele. Una si svolge in Sud Africa e una a Bordeaux e a Parigi. Che la seconda sia collegata alla prima lo sospettiamo fin dall’inizio perché Daniel Darrett, che lavora come aiutante nella bottega di un antiquario, è un uomo di colore e i suoi pensieri hanno il colore della nostalgia.

     In Sud Africa, sul treno più lussuoso del mondo, un uomo viene ucciso. O meglio, scompare e il suo cadavere viene ritrovato fra i cespugli lungo un tratto della ferrovia. Faceva la guardia del corpo privata e stava accompagnando un’anziana signorina olandese. In passato, però, aveva servito nel corpo della polizia. Il caso viene affidato alla sezione dei crimini violenti, ai cosiddetti Hawks, ma molte cose sono poco chiare fin da subito e ben presto arriva l’ordine di archiviare la morte di Johnson Johnson come suicidio. Suicidio di un uomo che era stato pugnalato alla nuca con un okapi, un coltello usato per tagliare la carne secca che è una specialità del Sud Africa? Assurdo. Ben Griessel e Cupido Vaughn non lo accettano e continuano ad indagare. Chi o che cosa aveva visto JJ per essere tolto di mezzo? E chi erano i due uomini anziani che erano saliti a bordo del treno con nomi falsi?


     In Francia la vita che Daniel Darrett si è ricostruito con fatica, deciso a dimenticare il passato, si infrange con l’apparizione di una vecchia conoscenza. Daniel non è più giovane, ma è l’unico in grado di portare a termine un compito che ridarebbe dignità al loro paese, che non vanificherebbe la Lotta per cui molti di loro hanno combattuto a fianco dell’indimenticabile Nelson Mandela. Vorrebbe non accettare, si è già tirato indietro, poi la morte improvvisa dell’amico che lo aveva cercato e che sperava di aver messo in salvo lo obbliga a lasciarsi coinvolgere.

    Se dapprima i due filoni scorrono paralleli, ognuno con l’ampio spazio richiesto per immergere il lettore nell’atmosfera, poi, quando si fa chiaro il collegamento tra quanto succede nell’uno e nell’altro continente, il ritmo diventa più concitato, i preparativi di Daniel in Francia per portare a termine il compito che gli è stato affidato sembrano incalzare in Sud Africa la ricerca dei colpevoli dell’assassinio di JJ e di un altro uomo (un suicidio anche questo? La figlia del morto non lo crede affatto), le due narrative si susseguono e si alternano nello stesso capitolo facendo crescere la tensione.


       “L’ultima caccia” non è uno dei soliti thriller. Deon Meyer ha scelto il genere del thriller per denunciare la corruzione del governo dell’ex presidente del Sud Africa in combutta con magnati indiani e con il presidente dell’Unione Sovietica. È la delusione che scotta, per tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. Avevano tutti creduto in quel compagno della Lotta contro l’Apartheid ed era stato doloroso constatare il suo cambiamento a tutti i livelli, politico e personale. La sua era una corruzione globale, avidità di denaro unita a maschilismo e lussuria.

E allora, se è una cleptocrazia quella che governa il Sud Africa, spogliando sistematicamente le risorse del paese, imponendo forti tassazioni per ammassare fortune personali e nascondendo i guadagni illeciti con riciclaggio di denaro e falso in bilancio, ritorna il dilemma vecchio quanto il mondo, se sia lecito uccidere un tiranno.


    È una tematica forte e, per alleggerirla e nello stesso tempo accentuare il contrasto tra la vita normale di Griessel e Vaughn e quella di chi crede che detenere il potere significhi potersi permettere tutto, tra gli Hawks inorriditi dalla possibile accusa di essere loro stessi corrotti e la vera corruzione di chi sta sopra di loro, la narrazione conosce momenti di esplorazione dei sentimenti di Griessel, ex alcolista che teme che la donna che ama rifiuti di sposarlo, e di Vaughn che sa che, se conquista l’affetto del figlio della sua compagna, vincerà anche quello di lei.

      Un romanzo attuale e coinvolgente.

La recensione sarà pubblicata su www.Stradanove.it



martedì 6 luglio 2021

Björn Larsson, “Nel nome del figlio” ed. 2021

                                                                       vento del Nord

                                                             biografia

              autobiografia

Björn Larsson, “Nel nome del figlio”

Ed. Iperborea, trad. A. Scali, pagg.206, Euro16,50        

 

   Tutto ha inizio con una data di fine estate, il 27 agosto 1961. Tutto finisce quello stesso giorno.

Il 27 agosto 1961, durante una gara di pesca, una piccola imbarcazione affonda nel lago Nedre Vätter, nella Svezia centrale. Avrebbe potuto trasportare al massimo quattro persone, invece a bordo c’erano sei adulti e due bambini. Morirono tutti. Uno di loro era l’elettricista Bernt Larsson, ventinove anni, il padre dello scrittore.

    Björn Larsson ricorda benissimo quel giorno. Aveva sette anni e mezzo. E, quando era tornato a scuola, dopo i funerali, aveva detto ad un amico che la morte del padre gli aveva dato più sollievo che dolore. Una confessione che dà molto da pensare, parole che rivelano qualcosa di cui forse Björn bambino non si rende neppure ben conto e per cui sono inutili le lacrime della madre a cui è stato riferito quanto detto dal figlio (che nega di essersi espresso così). Sarebbe meglio, forse, cercarne la causa, approfondire quale fosse il rapporto padre-figlio e poi indirizzare lo sdegno verso chi ha riportato le parole alla vedova- a che pro? Pura e semplice cattiveria.


     Inizia da qui il viaggio dello scrittore (in quanti viaggi abbiamo accompagnato Björn Larsson nei suoi libri, ad iniziare da “Il lungo viaggio del pirata Long John Silver”), questa volta non veleggiando sui mari, ma nella sua mente, alla ricerca dell’evanescente figura del padre scomparso troppo presto e finendo poi, per necessità di cose, per parlare di sé- una biografia che è nello stesso tempo autobiografia.

     Il lui bambino che ha conosciuto il padre ha veramente pochissimi ricordi. Di certo il padre, come tutti nei paesi nordici, beveva, e molto. Era perché aveva bevuto che non si era reso conto del pericolo dell’imbarcazione su cui era salito? Di certo i ricordi sgradevoli che il figlio (in tutta la narrazione Björn Larsson si identificherà come ‘il figlio’ de ‘il padre’) ha del padre sono collegati alle volte che questi aveva bevuto. Eppure suo padre avrebbe potuto avere una vita interessante e soddisfacente davanti a sé. I nonni non avevano avuto i mezzi per farlo studiare, ma il padre aveva molti interessi, oltre ad essere un ottimo elettricista. Aveva fatto ricerche per trovare l’uranio, aveva sete di avventura, aveva preso il brevetto di sommozzatore.

Ecco, come era stato possibile che un uomo in piene forze, provetto nuotatore, esperto nelle tecniche di salvataggio, fosse annegato, oltretutto ad una distanza relativamente breve dalla costa e in acque non fredde? Lo scrittore fa sue le ipotesi avanzate dai giornali dell’epoca e dalla descrizione di quanto era accaduto nello scritto di chi aveva rinvenuto il corpo del padre.


    Questo episodio cruciale non viene accantonato, Björn Larsson ci ritornerà ripetutamente sopra con domande che non hanno risposta, mentre altre domande si rincorrono, più esistenziali, di più ampio raggio. Riguardano l’ereditarietà, se esistano dei geni che tramandano inclinazioni e interessi e carattere. Pensando alla sua propria vita, a determinate esperienze, come l’anno trascorso a studiare in America, la sua specializzazione in francese e tutto quello che ne era seguito, Björn Larsson si domanda se sarebbe stato tutto uguale anche senza quella tragedia, anche senza l’assicurazione che a loro insaputa il padre aveva fatto e che aveva dato loro possibilità insperate.

      Il padre, la madre a cui il figlio ha proposto un legame di amicizia, gli amori, il suo diventare padre a sua volta, le letture, il mare, ancora domande sulla sorte del padre che diventa spunto per una riflessione di maggiore portata- non dovrebbe essere uguale per tutti il cordoglio, quando una persona scompare? Non è una gran livellatrice la morte? Perché, sui giornali, alcuni hanno la dignità di apparire con nome e cognome e altri sono dei numeri in una notizia?

    “Nel nome del figlio” è lo sguardo girato indietro per guardare al passato e cercare di interpretarlo, accettando quello che è stato, perché lo scrittore può dire di ‘non aver niente da rimpiangere, niente di cui dispiacersi, nessuno da incolpare eccetto se stesso, tantomeno suo padre’ e, ‘se potesse tornare indietro non cambierebbe quasi nulla’. C’è una quieta soddisfazione in questo, una consapevolezza che l’unica tragedia è quella di non vivere, di morire troppo presto, come suo padre, senza aver modo di realizzare i suoi sogni, qualunque fossero stati. E la riflessione dello scrittore diventa quella di tutti noi che leggiamo.

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sabato 3 luglio 2021

                                                  Voci da mondi diversi. Giappone


Kaho Nashiki, “Le bugie del mare”

Ed. Feltrinelli, trad. Gianluca Coci, pagg. 219, Euro 16,00

 

    Rinfrescante. È questa la parola che mi viene in mente per iniziare a parlare del romanzo “Le bugie del mare” della scrittrice giapponese Kaho Nashiki. O, per essere più precisi, refreshing, perché in inglese è più comune trovare questo aggettivo riferito a qualcosa che porti un soffio di novità. E “Le bugie del mare” è lontano dalle solite storie di famiglia, o d’amore, o di riflessioni auto-centrate, anche se la narrazione è in prima persona.

    Quando Akino si reca nella piccola isola di Osojima, di fronte a quella di Kyushu nel Sud-Ovest del Giappone, ha appena subito una serie di lutti, compreso quello per la morte della fidanzata, una ragazza che conosceva e di cui era innamorato fin dai tempi delle scuole superiori. Akino studia geografia ambientale all’Università di K. ed è sull’isola per una ricerca sul campo. Noi lo accompagneremo in questo viaggio straordinario di continue scoperte per lui e, di riflesso, per noi lettori.

    Il titolo di ogni capitolo è composito: c’è sempre il nome di un luogo (per lo più molto suggestivo), quello di un elemento della flora locale (in latino), spesso quello di un animale o di un insetto, a volte una parola giapponese che si riferisce a qualche mito o leggenda di cui apprenderemo nella lettura.

capricorno giapponese

È un percorso affascinante, quello che facciamo con Akino. Davanti a noi si aprono paesaggi di una bellezza incontaminata e mozzafiato, esemplari della rara specie del capricorno giapponese si affacciano senza paura dai boschi, l’assiolo gorgheggia la sua canzone d’amore, farfalle svolazzano sui fiori in tutta la loro leggiadria, le higurashi, le cicale giapponesi, friniscono con quel suono che sembra una sirena d’allarme, così diverso da quello delle nostre. Akino presta attenzione a tutto, prende appunti su tutto. Lo interessano le case in cui la separazione fra il locale della cucina (il regno della donna) e quello del soggiorno (dominio dell’uomo) lasciano intendere la struttura della società. E poi c’è tutta una cultura mitica di cui Akino viene a conoscenza- i monomimi che entrano in contatto con il mondo dei defunti, gli umiuso, i ‘leoni del mare’ ovverossia ‘le bugie del mare’, i miraggi che appaiono in certe circostanze atmosferiche adeguate, la leggenda della coppia di innamorati suicidi perché il loro amore era contrastato.


    Akino era solo, quando era sbarcato sull’isola. Solo perché non conosceva nessuno e solo dentro la sua anima. Stringerà un’amicizia riserbata con due delle persone che incontra- un uomo anziano che gli offre ospitalità nella sua casa di stile occidentale che aveva incuriosito Akino e uno giovane che aveva conosciuto casualmente, quando Akino si era avvicinato per vedere meglio la tipica abitazione in cui questo viveva. Quello giovane lo accompagnerà per sentieri su cui Akino si sarebbe perso, quello anziano lo aspetterà nella sua casa. Entrambi hanno molto da ‘dare’ ad Akino, sotto forma di racconti del passato, un invito alla riflessione e all’autoanalisi in cui Akino dirà a se stesso cose che non si era mai voluto dire.

     Passano cinquant’anni. C’è stata la guerra. Akino ha ottant’anni, si è poi sposato, ha due figli. Per una serie di circostanze, Akino ritorna nell’isola di Osojima. Il ponte, capolavoro di ingegneria, che collega l’isola con il Kyushu, è l’indice del cambiamento- sarà uno shock per Akino. Peggio. Tutta la sacralità dell’isola è stata distrutta. La sua antica storia, i luoghi dei suoi miti, le abitazioni così singolari, la fauna, la flora, niente, non è rimasto niente come era, tutto fagocitato dalle esigenze del turismo di massa.


Soltanto i leoni del mare, i miraggi, balenano ancora, fuggevolmente, sul mare. Ma questa è la vita, inarrestabile. “Noi tutti seguiamo un lungo usogoe, un lunghissimo cammino. Un passaggio. E oltre la riva, ci attende un posto senza nome”.

    Una bellissima scoperta. Da leggere.

La recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it