martedì 13 gennaio 2015

Robert Littell, “L’epigramma a Stalin” ed. 2010

                                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                   il libro ritrovato


Robert Littell, “L’epigramma a Stalin”
Ed. Fanucci, trad. Sara Brambilla, pagg. 333, Euro 17,00

Titolo originale: The Stalin Epigram

   “Mi sembra che il mondo si stia serrando su di me” disse Osip, aggrottando la fronte. Poi soggiunse: “Forse non dovrei lamentarmi. Ho la fortuna di vivere in un Paese in cui la poesia viene tenuta in gran considerazione: le persone vengono uccise perché la leggono o perché la scrivono.”


     Osip Mandel’štam, il poeta russo nato nel 1891 a Varsavia da una benestante famiglia ebraica che si trasferì presto a San Pietroburgo, fu arrestato nel 1933 per aver declamato davanti ad amici (qualcuno dei quali lo denunciò) un componimento satirico nei confronti di Stalin, responsabile della gravissima carestia seguita alla collettivizzazione forzata in Ucraina. Stranamente Mandel’štam non fu condannato a morte ma a tre anni di confino negli Urali. Arrestato una seconda volta nel 1938, fu mandato in Siberia, dove morì in un campo di transito. Forse di tifo, o comunque di una qualche malattia a cui cedette il suo fisico ormai troppo indebolito.
    “L’epigramma a Stalin” di Robert Littell, giornalista (ha collaborato per anni a Newsweek) e scrittore di romanzi di spionaggio, ci racconta la storia di questi ultimi anni di Osip Mandel’štam, ed insieme ricrea l’atmosfera del terrore nel peggior periodo della storia sovietica, quello delle purghe ordinate dal ‘montanaro del Cremlino’- come lo chiama Mandel’štam nella sua poesia- in preda ad una folle paranoia.

Il metodo adottato da Littell è quello di tante narrative in prima persona- inizia a parlare Nadežda, moglie di Mandel’štam, e sarà seguita dalla poetessa Anna Achmatova, dall’attrice Zinaida (per un certo periodo amante di Osip in uno spregiudicato ménage à trois), da Boris Pasternak e dallo stesso Mandel’štam. Due voci sono del tutto diverse e per diversi motivi. Una appartiene a Vlasik, fedele guardia del corpo di Stalin, e l’altra è del sollevatore di pesi Fikrit, arrestato per un adesivo della torre Eiffel incollato sul suo baule, reo forzatamente confesso di cospirazione trockijsta e deportato in Siberia.
    Quello che viene fuori è un vasto quadro a tinte forti: il poeta, la moglie, gli amici, le sigarette scroccate, la casa degli scrittori, la paura delle automobili nere e dei passi sulle scale, i miseri pasti, le poesie nascoste nella teiera e quelle mandate a memoria per salvarle da qualunque ispezione, la Lubyanka e gli interrogatori con l’agente del NKVD che indossa un grembiule di pelle come un macellaio, il treno verso Est, i messaggi che i deportati lasciano cadere tra le traversine, sperando che qualcuno li inoltri ai famigliari, le temperature inferiori ai trenta sotto zero, la volontà di vivere che vacilla. ‘l’assassino che fa strage di contadini’, il georgiano dal viso butterato che oramai è convinto che nessuno sia innocente, che aspira all’immortalità nei versi di un poeta ma sa anche riconoscere la buona dalla cattiva poesia. E l’ode che Mandel’štam scriverà dopo il suo rilascio, quella con cui spera di ottenere il permesso di soggiorno a Mosca, è cattiva poesia, neppure paragonabile ai versi infuocati  con cui pensava di salvare la Russia- e a Stalin non piace.
Lubyanka
Sopra queste vite piegate e interrotte, domina
   Il ritratto che Littell ci fa dell’Unione Sovietica degli anni ‘30 del secolo scorso è variegato, vivido e agghiacciante. Anni in cui amore e amicizia vengono messi alla prova. Di nessuno ci si può fidare, persino gli alberi nei parchi hanno orecchie. Non ce ne rendiamo subito conto ma le voci che ascoltiamo sono di una registrazione- una simulazione al positivo dei famigerati interrogatori nella Lubyanka-, e la testimonianza del sollevatore di pesi Fikrit, l’uomo del popolo che non sa né leggere né scrivere, si discosta parodisticamente e in maniera voluta dalle altre. Niente intacca la fede di Fikrit nel ‘khozyain’, il ‘padre’ del popolo russo, Stalin. Se la Čeka lo ha arrestato perché è colpevole, vuol dire che, anche se lui, Fikrit, non sa di che cosa, è però di certo colpevole. Al processo lo accusano di essere un sabotatore. Che cosa intendeva sabotare? Fikrit non ne ha la minima idea e risponde che, be’, qualunque cosa gli avessero ordinato, lui sarebbe stato in grado di farlo, non si vede dal suo fisico? Ed è ansioso di scontare la sua pena più che meritata se ordinata da Stalin. Fikrit è il beota ben diverso dall’idiota dostojevskjiano, gli perdoniamo la sua stupidità solo per l’umanità che dimostra alla fine per Osip gravemente ammalato.
Nadežda

     ‘Ancora danzando’: sono le parole che chiudono la lettera pervenuta alla moglie di Mandel’štam. Iniziava con la parola ‘Speranza’, il significato in russo del nome Nadežda. Quasi di sicuro l’ha scritta il poeta nel suo ultimo viaggio. Noi chiudiamo il libro e ci capita quello che solo i libri molto belli sono capaci di suscitare: un desiderio di saperne di più, di leggere tutte le poesie di Osip Mandel’štam, di non lasciarlo morire.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it






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