Diaspora
FRESCO DI LETTURA
Doron
Rabinovici, “Alla ricerca di M.”
Ed. Giuntina, trad. Ester Saletta
e Palma Severi, pagg. 208, Euro 16,00
Non so che fine ha fatto Dani
Morgenthau, ma voglio dirti una cosa, Arieh: può darsi che voi dobbiate
convivere con le ipoteche della nostra eredità, ma se volete liberarvene dovete
guardare dentro il Grande Libro della Storia. L’unica via che dal passato porta
al proprio futuro passa attraverso la memoria. Vieni con me a Cracovia,
altrimenti diventerai come quel Mullemann, sarai uno che ha rinunciato, sarai
come uno di quelli che nel lager chiamavano cadaveri ambulanti, i condannati a
morte che vestiti di stracci aspettavano la fine, che avevano abbandonato ogni
speranza.
E’ ricco di suggestioni letterarie e cinematografiche, il romanzo “In cerca di
M.” di Doron Rabinovici, scrittore nato a Tel Aviva ma residente a Vienna. Ad
iniziare dal titolo che ci ricorda il famoso film del 1931 diretto da Fritz
Lang, “M- Il mostro di Düsseldorf” (il titolo originale però era “M. Una città in cerca di un assassino”), oltre a farci pensare a Becket
(il nome dei suoi protagonisti inizia per M, lettera centrale dell’alfabeto) e
a Kafka, e si può continuare alludendo alla figura del Golem e alle
trasformazioni e le volgarizzazioni che questo personaggio ha subito. Al di là
di tutto questo, però, la trama, spogliandola fino alla sua essenza, è
semplicissima: c’è un assassino che attende donne sole per strangolarle e
violentarle nelle strade buie di Vienna. Un misterioso personaggio che si firma
Mullemann (uomo bendato) rivendica puntualmente i delitti e anticipa quelli che
seguiranno, come fosse un veggente o fosse in grado di leggere nella mente
dello sconosciuto assassino.
La storia procede a sbalzi, per episodi
che sembrano slegati finché non si capisce quale è il filo che li connette.
All’inizio del libro vengono introdotti due bambini, che saranno poi i
protagonisti del libro. Dani Morgenthau e Arieh Scheinowiz sono entrambi figli
di sopravvissuti alla Shoah. Sono figli del silenzio perché i loro genitori non
vogliono ricordare, eppure ogni loro comportamento ricorda l’orrore dei campi
di concentramento. E’ lo stesso silenzio dell’Austria (grande accusata nel
romanzo di Rabinovici) che ha insabbiato il passato con le colpe mai
riconosciute. La reazione singolare di questi due rappresentanti della seconda
generazione al trauma vissuto dai genitori è in qualche maniera simile. Dani
Morgenthau si addossa tutte le colpe del mondo, lo ha sempre fatto fin da
quando era un ragazzino che si dichiarava colpevole delle malefatte compiute da
compagni di scuola. Dani è il misterioso Mullemann che si avvolge con bende per
proteggere una malattia psicosomatica della pelle, una sorta di fantastico
Golem capace di prevedere i delitti oltre che pronto ad assumersi la colpa.
Arieh ha una abilità che assomiglia a quella di Dani, per cui verrà ingaggiato
dai servizi segreti israeliani. Arieh fiuta i colpevoli, riesce a dar loro la
caccia pur non conoscendoli. Un impulso segreto dentro di lui lo spinge a
rendersi somigliante al criminale che sta inseguendo, a comportarsi come lui. A
questo punto il romanzo diventa un gioco di specchi, una pirandelliana ricerca
dell’identità dell’uno-nessuno-centomila, un inseguimento di un colpevole dalle
molte facce che sembra trovarsi in parecchi luoghi simultaneamente. Ogni
personaggio ha più di un nome, ogni personaggio assomiglia a qualcun altro- nel
passato della persecuzione nazista ci si poteva salvare la vita assumendo
l’identità di un altro con un baratto mortale. E Mullemann assomiglia al mitico
Ahasvero, l’ebreo errante, che è raffigurato in un dipinto contemporaneo
esposto in una galleria, l’eterno colpevole condannato al nomadismo.
Il fardello del ricordo e il silenzio, la
negazione e ancora il silenzio, il senso della colpa e l’innocenza, la
ripercussione del passato sul presente: il lettore di Rabinovici deve
addentrarsi in tutto questo in un romanzo per molti versi sconcertante (come è
tutto quello che esce dagli ordinari binari), ricco di metafore e allusioni e
significati nascosti, di frecce acuminate contro la società e l’ambiente
culturale austriaco. Se Rabinovici voleva ottenere un effetto inquietante, ci è
riuscito perfettamente: terminata la lettura ci sentiamo osservati, scrutati
nel profondo e l’immagine di Mullemann, come un Lazzaro resuscitato, come una
mummia destinata a durare per secoli, ci ossessiona costringendo anche noi a
dire “Sono stato io”.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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