giovedì 15 gennaio 2015

Robert Littell, “I figli di Abramo” ed. 2011

                                           Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                         il libro ritrovato
              

Robert Littell, “I figli di Abramo”
Ed. Fanucci, trad. Sara Brambilla, pagg. 343, Euro 18,00

Titolo originale: Vicious Circle

   E’ ora di chiamare le cose con il loro nome. Quel pazzo del defunto rabbino Apfulbaum e i suoi compari chiamavano la Giudea e la Samaria la Palestina liberata. Tutto il mondo le considera la Palestina occupata. L’occupazione ha corrotto le nostre anime. Il nostro   ed esercito civile, creato per difendere questa scheggia di Stato ebraico dalla marea di arabi che ci circondano, è diventato un esercito di occupazione.

    Israele. Un prossimo futuro. Manca poco all’incontro di Mount Washington, dove sarà stipulato l’accordo di pace in Medio Oriente: verrà riconosciuta l’esistenza di uno stato palestinese che otterrà indietro il 94% dei territori occupati dagli israeliani con la guerra dei sei giorni. Il dottor Ishmael al-Shaath, alias Abu Bakr, terrorista palestinese, rapisce il rabbino Isaac Apfulbaum, capo di un gruppo estremista. Lo scopo: chiedere il rilascio di un patriota palestinese e di più di cento prigionieri tenuti in ostaggio. In realtà la mira è far saltare l’accordo, perché la brigata di Abu Bakr non accetterà mai altro che una Palestina senza la presenza di altri ebrei salvo quelli nati lì prima del 1948. In un edificio abbandonato nella Città Vecchia di Gerusalemme, durante lunghi colloqui tra rapitore e rapito viene fuori che entrambi vogliono la stessa cosa, pur se per motivi opposti: anche il rabbino Apfulbaum è contrario alla pace. Perché gli ebrei devono seguire il comandamento di Dio di insediarsi in ogni centimetro quadrato della terra della Torah.

    Questa è la base su cui Robert Littell costruisce il suo nuovo romanzo “I figli di Abramo”. Intorno al nucleo della vicenda, accanto ai due protagonisti, si verificano altri fatti (altri rapimenti, torture, violenze) ed altri personaggi discutono su quanto sta avvenendo e sull’impatto che l’esito del sequestro avrà sui travagliati accordi di pace. Nella stanza in cui il rabbino e il suo segretario sono tenuti prigionieri, con il passare dei giorni l’arabo che è chiamato per lo più ‘il Dottore cieco’ e il rabbino (quasi cieco pure lui, ora che ha perso gli occhiali: cecità simbolica di entrambi? visione spirituale acuita dalla privazione di quella fisica?) scoprono quanto abbiano in comune. Sono quasi l’uno il doppio dell’altro, sono come dei cugini (non sono entrambi semiti, dopotutto?), finiscono per provare reciprocamente simpatia e stima. L’uno si chiama Ishmael, l’altro Isaac: sono i nomi dei due figli di Abramo, nel Corano Allah chiede al profeta il sacrificio di Ishmael, nella Bibbia Dio chiede quello di Isacco (nel romanzo finiranno per essere tutti e due delle vittime); e poi Ishmael è il mujaddid, il Rinnovatore mandato da Dio per restaurare l’Islam; di Isaac è stato detto che potrebbe essere il Messia. Persino quando è chiaro che il rabbino deve morire, i due si attardano in discussioni che hanno del gesuitico. Il rabbino trova addirittura un cavillo per cui la Torah lo autorizza a convertirsi all’islam per permettere al dottore di ucciderlo senza rimorsi…
Fuori da questa stanza claustrofobica, nella luce dorata della Gerusalemme che tutti amano, sia l’Autorità palestinese sia gli agenti dei servizi segreti israeliani cercano disperatamente dove siano nascosti i prigionieri. E la voce degli Stati Uniti si fa sentire, pressante, perché il fallimento dell’accordo di pace significherebbe il tracollo economico.

         Se vogliamo inquadrare in una definizione di genere il romanzo di Robert Littell, possiamo dire che “I figli di Abramo” è un thriller politico, per la trama, la tensione e l’ambientazione. Tuttavia sembra che, con l’attrattiva del thriller, Littell voglia parlarci di altro. Voglia quasi sfogarsi per il senso di impotenza, la disperazione e lo sconforto davanti alla situazione di Israele che pare  trovarsi in una strada senza uscita in cui è stata la Storia a spingerla. E’ stata la violenza pianificata nazista a dare origine a tutta la violenza seguente, da una parte e dall’altra. Come dice uno dei personaggi del libro- senza Hitler gli ebrei se ne starebbero ancora nei loro villaggi dell’est dell’Europa o nelle città della Germania.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




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