Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
il libro ritrovato
Louise Dean, “La primavera dell’odio”
Ed. il Saggiatore, trad. Claudia
Valeria Letizia, pagg. 372, Euro 16,00
Novembre 1979, Irlanda del Nord:
il figlio di Kathleen Moran, Sean, è appena stato trasferito nei famigerati
blocchi H del carcere di Maze ed inizia lo sciopero “della coperta”; anche John
Dunn è un nuovo arrivato nel carcere, ma come secondino. In capitoli alterni,
mentre il tempo scorre verso il Natale, le storie di due genitori, due figli,
di un popolo diviso. Con un finale altamente drammatico.
INTERVISTA A LOUISE DEAN, autrice de “La primavera dell’odio”
“Maze”, labirinto: che ironia sadica che questo sia il nome della
prigione a 9 miglia
da Belfast, sinonimo di inferno negli anni ‘70 e ‘80. E tuttavia il nome, che
richiama alla mente i labirinti di siepi per cui sono famosi i giardini
inglesi, non era intenzionale, in quanto derivato da quello del paese vicino,
Mazetown, seppure stranamente adeguato. C’è chi ha definito la prigione di Maze
un “labirinto razionale”, con i due cancelli di ingresso, una rete di strade
ognuna delle quali poteva essere chiusa per impedire fughe, 8 edifici a forma
di H con 96 celle di 5 metri quadrati
in ogni costruzione, una tale ripetitività dei vari elementi da rendere
impossibile al visitatore dire dove si trovasse, in quale dei blocchi fosse
stato condotto. 900 guardie lavoravano nella prigione di Maze, paga ottima per
un lavoro a dir poco impopolare, decisamente pericoloso quando l’IRA iniziò ad
attuare la minaccia di uccidere i secondini.
Il periodo drammatico negli H blocks iniziò quando, alla fine degli
anni ‘70, con circa 1200 detenuti che reclamavano lo stato privilegiato di
prigionieri politici in quanto combattenti dell’IRA per la riunificazione dell’Ulster
alla repubblica irlandese, il governo britannico decise di revocare la
condizione di Categoria Speciale. E la protesta si appuntò sulla prima delle
cinque richieste dei prigionieri, il diritto di indossare i loro abiti invece
della divisa carceraria che li accomunava ai delinquenti comuni. Fu così che i
300 che aderirono alla protesta si trovarono a coprirsi con la sola coperta (di
loro si diceva che erano “on the blanket”)- da qui la proibizione da parte dei
guardiani di usare i servizi igienici del carcere e la conseguente reazione dei
prigionieri: avrebbero fatto i loro bisogni nelle celle e affrescato le pareti
con gli escrementi (e a questo punto non erano più solo “on the blanket” ma
anche “on the dirty”). L’inferno di Maze non ha bisogno di altre descrizioni, è
sufficiente un accenno al tanfo e al gelo, agli insetti e alle umilianti
perlustrazioni delle parti intime prima dei colloqui che potevano anche essere
annullati all’improvviso o accorciati, a seconda dell’umore delle guardie. E
allora, fuori, fuori da quei recinti e per le strade di Belfast, la morte
poteva essere in agguato per quei secondini.
L’inglese John Dunn, guardia carceraria di
Maze, è uno dei due personaggi principali de “La primavera dell’odio” di Louise
Dean. L’altro è Kathleen Moran, la madre di uno dei prigionieri. Da una parte
l’inglese che era arrivato in Irlanda quando ancora i soldati della regina non
erano così malvisti, e che adesso aveva accettato questo lavoro perché si
guadagnava bene- voleva comprasi una casa e sposarsi. Dall’altra l’irlandese cattolica
con i capelli rossi, ancora giovane e piacente nonostante i quattro figli, di
cui una è in Inghilterra (“sono felice qui”, dice al telefono e la madre non
può non capirla) e uno, il diciannovenne Sean, è rinchiuso a Maze.
In apparenza tutto il fuoco e tutto il
dolore sono nei capitoli che parlano di Kathleen, del marito ubriacone che si
vanta di aver fatto incetta di armi nella Repubblica, del tredicenne Liam che
sogna gesta gloriose per emulare il fratello, delle vicine di casa, tutte
‘madri Coraggio’ che hanno perso chi un figlio, chi un marito, chi entrambi
(“dove altro succede che la metà degli uomini del vicinato sono morti o in
galera?”), che si preparano insieme per quella che sembra una scampagnata e
invece è la visita ai detenuti- quei minuti sotto sorveglianza che non si sa se
arrechino più gioia o pena. La sofferenza e la consapevolezza strisciano
lentamente negli altri capitoli, quelli “inglesi”, che iniziano come se il peso
del lavoro di John Dunn fosse soltanto negli orari duri. E poi subentra il
confronto con la realtà- il puzzo tremendo del luogo, le umiliazioni superflue
inflitte ai prigionieri, l’umanità negata, la volgarità degli altri secondini,
l’ubriachezza di questi per superare la noia e il disgusto, l’astio con cui si
è guardati all’esterno della prigione. I soldi, allora, iniziano a pesare
quanto il denaro di Giuda, tanto più che John Dunn riceve la visita del figlio
di cui ha scoperto da poco l’esistenza, un ragazzo che ha l’età di Sean Moran,
l’età che aveva lui l’unica volta che aveva fatto l’amore con sua madre. Suo
figlio non rappresenta solo il diritto alla vita altrove che in una cella, non
è soltanto lo specchio di Sean nudo e barbuto, ma è anche il suo specchio, è un
lui stesso migliore, e che cosa penserà suo figlio di lui?
Non vogliamo dire nulla di come Louise Dean termini le storie dei due
protagonisti- nella prigione di Maze il 1980 sarà l’anno dello sciopero della
fame guidato da Bobby Sands, mitica figura che, dal carcere dove era rinchiuso
e dove sarebbe morto, vinse un seggio in parlamento, conferendo ad una impresa
suicida l’efficacia dell’Insurrezione di Pasqua del 1916 per un’altra
generazione di Nazionalisti. Stilos ha incontrato Louise Dean che ora vive in
Provenza con il marito e tre figli, dopo aver abbandonato New York in seguito
all’attentato dell’11 settembre.
Lei è inglese ed è cresciuta in Inghilterra, eppure ha scritto un libro
sull’Irlanda e i “disordini”. Era una bambina all’epoca dello sciopero della
fame nel carcere di Maze: che cosa ha risvegliato il suo interesse?
Avevo undici anni quando sono morti dieci
prigionieri durante lo sciopero della fame. Mio padre, come la maggior parte
degli inglesi, era molto patriottico- in casa non si parlava di quanto stava
succedendo, ma per lui, come per gli altri, gli uomini dell’IRA erano cattivi,
quello che facevano era incomprensibile. Io ero una bambina ed ero affascinata
dalle figure di quegli uomini che sembravano Cristo, con la barba lunga e nudi,
sul tetto della prigione. Poi non ci ho più pensato, finché ho dovuto fare
delle ricerche per un mio romanzo ambientato nel 1981 in Inghilterra, su di
un insegnante coinvolto in operazioni di spionaggio dopo la guerra. Consultando
la sezione dei quotidiani della biblioteca, mi è capitata tra le mani una copia
del giornale del 1981 in
cui, in prima pagina, c’era la notizia della morte di Bobby Sands. Era un
articolo brevissimo, per forza doveva essere in prima pagina, visto che Bobby
Sands era un membro del parlamento, ma si capiva che era l’ultima cosa che l’impaginatore
avrebbe voluto fare. Allora mi sono ricordata e ho letto il resto del giornale.
Si dice che il passato è una terra straniera: lo è veramente, era il 2004 e il
paese era totalmente diverso. Ho pensato che fosse ora di guardare indietro a
quel capitolo di storia e seppi che avrei scritto un libro su quel periodo, sui
“Troubles”, e che avrei dovuto cercare delle persone che me ne parlassero.
Sarebbe potuto essere un libro del tutto diverso, un libro di storia o
dal taglio giornalistico. Invece ha scelto di scrivere da due diversi punti di
vista, quello di un carceriere inglese e di una madre irlandese…
Fin dall’inizio sapevo che volevo collegare
in modo diverso le due parti, perché mi aveva sempre colpito il motto di E.M.
Forster all’inizio di “Passaggio in India”, only
connect. Perché l’Irlanda del Nord è un paese piccolo e diviso, tutto è
diviso nell’Ulster, ad iniziare da quello che la gente indossa alla lingua che
parla. Avrei preso come personaggio un carceriere da una parte e una madre dall’altra,
perché volevo questo contrasto, tra una prospettiva maschile e una femminile e
cattolica. Solo uno o due capitoli dicono dell’esperienza dei prigionieri
dall’interno, perché l’IRA difende gelosamente la sua storia. E d’altronde è
stata un’esperienza spaventosa, l’età media dei prigionieri era più o meno
vent’anni, volevo andarci cauta su come parlarne. Ho scelto John Dunn come
protagonista perché era molto coinvolto con la storia dell’Irlanda del Nord,
volevo che fosse un uomo con una ferita emozionale, doveva avere sangue sulle
mani- molti uomini che avevano servito l’esercito nel Nord Irlanda divennero
poi carcerieri- per considerare quello che stava avvenendo nel carcere di Maze
come una questione di rilevanza personale.
Ha trovato molte persone disposte a raccontarle di quei tempi?
All’inizio è stato difficile, proprio
perché è un paese piccolo. Poi, una volta che ho iniziato, è diventato facile:
forse mi vedevano come una lavagna bianca su cui avrebbero potuto scrivere la
loro storia, tutti volevano convincermi del loro punto di vista. Ma all’inizio
erano veramente diffidenti. E’ stato macchinoso riuscire a parlare con quelli
dell’IRA, c’è stato bisogno che un membro anziano desse il suo permesso agli
altri di parlare con me. Forse mi hanno vista come un’innocua madre di
famiglia, una casalinga della Provenza, e poi, stranamente, questo membro
anziano aveva letto il mio primo romanzo e gli era piaciuto. Hanno abbassato la
guardia, mi hanno ammesso tra di loro, mi hanno dato informazioni. Poi se ne
sono pentiti, so che si sono rifiutati di parlare con un’altra scrittrice.
Perché un esercito deve
mostrarsi duro, ma quello che io ho descritto nel libro è duro all’esterno e
umano all’interno. Un esercito non può mostrarsi umano, lo vediamo in ogni
tempo, in ogni luogo, in ogni paese.
Quali erano i sentimenti delle persone che vissero quei tempi quasi
trent’anni dopo? Come guardano al passato i carcerieri?
Gli incontri più difficili sono stati
proprio quelli con i guardiani. Difficile rintracciarli e poi, a volte, quando
avevo il numero di telefono e riuscivo a contattarli, sbattevano giù la
cornetta non appena sapevano che cosa volevo. I carcerieri vivono ancora oggi
con la paura di essere rintracciati, spesso hanno cambiato nome, vivono
nascosti. La verità è che fecero cose brutali a quei ragazzi. Dal loro punto di
vista, loro avevano ricevuto delle istruzioni, era stato loro detto che era una
guerra, e tuttavia queste istruzioni non erano scritte. Avevano ordinato loro
di spezzare questi ragazzi, infrangerne il morale e il fisico. E si è lasciato
che tutta la colpa venisse addossata a loro. Sembravano bestiali ma erano come
tutti i soldati in guerra. Fra di loro c’era la mentalità del gruppo ed è
quella che ho voluto esplorare nel libro.
Rimanevano a lungo in servizio nelle prigioni?
Sì, alcuni di loro sì. Molti si
suicidarono. 50 di loro si sono uccisi, per lo più sparandosi un colpo in
bocca. Una ventina è stata ammazzata dall’IRA nel periodo di cui parlo nel
libro.
E come guardano al passato, oggi?
Molti hanno paura a parlarne, preferiscono
raccontare dell’amicizia tra i carcerieri, degli scherzi che facevano, dei
giochi. Ne ho incontrato uno che era stato direttore, un uomo simpatico,
stranamente un cattolico che lavorava per il governo protestante, perché
credeva nello Stato e nell’obbedienza allo Stato. Mi ha chiesto di passare un
messaggio ad uno dell’IRA che all’epoca aveva 19 anni ed era stato il numero 11
ad entrare in sciopero. Era stato 73 giorni senza mangiare ed era in punto di
morte quando sua madre e il prete interruppero il suo sciopero e chiesero al
medico di mettergli la flebo. L’ex direttore mi chiese di dirgli, se lo avessi
incontrato, che aveva ricevuto la sua lettera anni prima e non gli aveva
risposto per ovvii motivi, ma l’aveva molto apprezzata. Mi fece leggere la
lettera in cui si diceva più o meno, ‘lei è stato gentile con noi, so che è
stato difficile per lei ma noi abbiamo apprezzato quello che è riuscito a
fare.’ Perché non aveva risposto? Perché il
Nord Irlanda era com’era, temeva che l’IRA usasse la sua lettera come
propaganda. Tutto era successo tanto tempo prima…
I prigionieri di un tempo e le loro famiglie, che cosa provano? Sentono
che hanno combattuto per niente? Che cosa è rimasto di quella speranza e di
quell’entusiasmo, della gente che cantava “di nuovo una nazione”?
Vivono nel passato, parlano di quei tempi
nello stesso modo in cui i miei nonni parlavano della seconda guerra mondiale.
Sentono la mancanza del senso di unione, di quella qualità di vita e morte che
c’era in ogni giornata. Rimpiangono l’umorismo nero, da allora la vita per loro
è stata un anticlimax. Hanno goduto nel raccontarmi la loro storia. Capitava
che stessi parlando con uno di loro e nel giro di due ore la stanza si
riempiva, c’era fumo, tazze di tè che passavano da una mano all’altra, la casa
piccola era piena di gente che raccontava. Non lottavano tanto per la
Repubblica quanto per avere diritti uguali ai Protestanti. Gli irlandesi amano
raccontare storie, sono grandi affabulatori, quello dell’unione era un mito,
una bandiera. Ma non succederà mai, prima di tutto perché il Sud non li vuole.
E’ stato un risveglio amaro, pensavano di essere tutti fratelli. La realtà è
che si è uniti solo quando c’è un nemico in comune.
Il 26 marzo è stato firmato l’accordo storico per formare un governo
cattolico-protestante a Belfast. Quando parlava con la gente per le sue
ricerche, come attendevano questo momento?
No, non attendevano questo momento. La
gente con cui parlavo viveva nel passato. E io non ho parlato con i moderati.
Nel 2004, mentre facevo ricerche, il governo di coalizione non era una
prospettiva reale, c’erano altre cose che importavano di più, quel risveglio
economico che offriva cose per noi scontate ma nuovissime e tremendamente
attraenti per loro. Il Nord Irlanda era un paese molto povero che assaporava la
ricchezza.
Gerry Adams sarà nel nuovo governo, è uno degli uomini “storici” del
Sinn Fein, è stato in prigione e ha preso parte ad uno sciopero della fame
precedente a quello di cui si parla nel suo libro: ha incontrato anche lui?
Gerry Adams |
No, ho però incontrato il suo numero due,
Danny Morrison, il suo amico che abita vicino a lui, e infatti ogni volta che
andavo a parlare con Danny Morrison c’era l’elicottero che sorvolava la strada.
Era Danny che scriveva i discorsi per Gerry, Danny era l’IRA e Gerry il Sinn
Fein.
Il secondino John Dunn scopre di avere un figlio, Mark Wilson. Mi sono
chiesta se ha scelto di proposito i loro nomi, visto che Wilson è il doppio
nella famosa novella di Poe e Dunn è un colore grigiastro, adatto all’uomo che
Dunn è all’inizio.
Ho scelto deliberatamente il nome di John
Dunn, perché sia in inglese sia in tedesco la parola significa “scuro”, e anche
per via del poeta John Donne: il problema del mio John è che è un romantico,
lui stesso dice, parlando dell’Irlanda, che per lui è come una storia d’amore
finita male, e ne soffre cercando di non soffrire perché questo non è il luogo
giusto per soffrire. E no, non avevo pensato al Wilson di Poe, ma è vero che
Mark Wilson è un doppio di Sean Moran, e quando John Dunn vede il prigioniero
Sean come suo figlio, inizia a cambiare.
Kathleen osserva che la maggior parte degli uomini della loro strada o
sono i prigione o sono morti. Sembra che quelli che sono rimasti in giro siano
i peggiori, capaci solo di parlare e raccontare storie esagerate e bere.
Persino Brendan Coogan, l’intermediario dell’IRA con la prigione, non ci fa una
bella figura…
Ecco perché si sono arrabbiati per il mio
libro, perché questi uomini sono quelli che sono stati lasciati indietro.
Volevo fare un quadro in bianco e nero ed è naturale che gli uomini vadano alla
guerra se c’è una guerra, sarà un pensiero antiquato, ma la penso così. Forse
oggi penseremmo che i migliori restano a casa a badare ai bambini e a fare
frittelle.
Al contrario c’è un sacerdote straordinario, padre Pearse, con un gran
cuore e una mente aperta. E’ basato su qualcuno che ha conosciuto?
Sì, ne ho incontrato parecchi come lui,
dei sacerdoti che erano vicino ai ragazzi dell’IRA e hanno lavorato in
prigione. Uno in particolare mi ha mostrato i disegni dei ragazzi prigionieri,
erano come disegni fatti dai bambini, uomini a fiammifero che imbracciano il
fucile e sventolano la bandiera. Mi ha mostrato anche una collezione dei
proiettili di gomma usati dall’esercito britannico. Gli importava troppo della
gente della sua parrocchia per poter prendere una posizione diversa da questa,
di sostegno.
Per l’IRA si trattava certamente di una
guerra e non di terrorismo. Per loro non c’era nessun problema ad uccidere chi
apparteneva al nemico- non ammazzavano solo i secondini, ma anche i postini o
chiunque avesse un impiego governativo, chiunque rappresentasse il governo
britannico nel Nord Irlanda.
La prigione di Maze è stata messa in disuso nel 2000 e adesso stanno
smantellandola: non sarebbe dovuta rimanere come buia memoria del passato?
Non c’è molto da salvare nella prigione
di Maze, non c’è molto da vedere. Ci sono stata dentro, naturalmente, ho
chiesto anche che mi chiudessero in una cella per una decina di minuti, per
avere la sensazione del luogo. Ci sono state due cose che mi hanno colpito,
come strane: la stanza in cui le guardie avevano gli armadietti di metallo in
cui mettevano le loro cose- gli sportelli erano aperti, c’erano ancora dentro
degli oggetti, foto di donne ritagliate dai giornali attaccate agli sportelli.
Era come se avessero abbandonato il luogo in fretta, fuggendo. E poi la stanza
in cui avrebbero dovuto essere conservati i dossier dei prigionieri: erano
tutti per terra, i fogli sparpagliati che coprivano il pavimento, era come
camminare sulla neve.
Le recensioni sono state molto buone, la
cosa più stupefacente sono state le lettere che mi hanno scritto dei soldati
inglesi dicendo che avevano trovato così veritiera la descrizione di quanto
avveniva nel carcere; uno di loro mi ha scritto di aver pianto leggendo il
libro. Danny Morrison ha parlato per conto dell’IRA, facendomi sapere che a
loro non è piaciuto il ritratto di Brendan Coogan. E, come dicevo prima, l’IRA
non parlerà più con nessuno di quegli anni- si sono rifiutati di incontrare una
scrittrice neozelandese, dopo la pubblicazione del mio libro.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"
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