Diaspora
il libro ritrovato
Jonathan Littell, “Le benevole”
Ed. Einaudi, trad. Margherita
Botto, pagg. 943, Euro 24,00
Titolo originale: Les Bienveillantes
Mi pervase un’ondata di amarezza: ecco
cos’hanno fatto di me, mi dicevo, un uomo che non può vedere una foresta senza
pensare a una fossa comune. Un ramo secco mi si spezzò sotto uno stivale. “E’
proprio strano che a lei non piaccia cacciare”, commentò Speer. Immerso nei
miei pensieri, risposi senza riflettere: “Non mi piace uccidere, Herr
Reichsminister.” Mi gettò un’occhiata strana e io precisai: “A volte è
necessario uccidere per dovere, Herr Reichsminister. Uccidere per piacere è una
scelta.”
“Les Bienveillantes” è il titolo in francese del romanzo di Jonathan
Littell, ebreo di origine polacca, nato a New York, cresciuto in Francia,
ritornato in America per frequentare l’università di Yale, che ha scelto di
scrivere in francese il suo libro. E’ un titolo che vuole darci una chiave di
lettura? Perché les bienveillantes
sono le Eumenidi, le benevole custodi della giustizia che si sostituiscono alle
Furie o Erinni che inseguono Oreste, assolto da Atene per aver ucciso sua
madre, colpevole a sua volta di aver fatto uccidere suo padre. E Maximilien Aue
è, con tutta probabilità, l’assassino della madre e del patrigno, nonché
colpevole di altri delitti. Verrebbe da dire che, in una scala di grandezza
storica, gli altri crimini di Max Aue sono maggiori, essendo stato un ufficiale
delle SS- ma questa è una delle tante domande che pone questo straordinario romanzo
che resterà “il” libro sulla tormentata storia della Germania e dell’Europa
negli anni della seconda guerra mondiale: è vero quanto diceva Stalin, che “la
morte di un uomo è tragedia, la morte di milioni è statistica”, ed è per questo
che, in una scena di delirante assurdità, Max Aue è ricercato da due poliziotti
per aver ucciso la madre, in una Berlino già invasa dall’Armata Rossa?
Niente sembra essere casuale in “Le benevole”, ad iniziare dal cognome
del protagonista: se sostituiamo la vocale “u” con “w”, awe in inglese è la sensazione di sgomento davanti all’orrore, ed è
orrore quello che prova Max Aue davanti alla carneficina degli ebrei in
Ucraina, prima tappa in un viaggio dell’orrore che sostituisce nel secolo XX il
romantico Grand Tour dell’800, Max Aue al posto di Childe Harold, una discesa
all’Inferno in cui la scritta Arbeit
macht frei sostituisce il dantesco “Lasciate ogni speranza…”, l’amico
Thomas prende il posto di Virgilio come accompagnatore e i gironi sono
intitolati a Babi Yar, Stalingrado, Auschwitz, Dora, e la marcia della morte
finale delle larve viventi che sono diventati i prigionieri dei lager è come la
turba di anime sospinte dal vento che suscita la compassione di Dante.
Non è
una scelta leggera, quella di aver fatto di Max Aue un omosessuale, perché,
intanto, è risaputo che lo erano molti SS, e c’è pure il carico aggiunto di
sottolineare l’assurdità delirante della campagna nazista di pulizia attraverso
l’eliminazione degli esseri inferiori o devianti: Max Aue ama l’unica donna che
non può avere, anche se l’ha avuta in un passato di giochi- perché no?-
innocenti: la sorella gemella che si chiama Una, a ricordare quell’unico corpo
perfetto maschio e femmina di cui si parla nel “Simposio” di Platone, nonché
l’unicità del suo sentimento. Così come è intenzionale l’inizio dalla fine, con
l’anziano ex nazista Max Aue che è fuggito con carte false e ha preso dimora in
Francia, ex paese nemico della Germania, dove ha fatto fortuna con una fabbrica
di merletti. E se l’immagine dell’SS omosessuale in mezzo alle trine e ai pizzi
può apparire un po’ kitsch, ha tuttavia un forte impatto di contrappasso in un
libro che unisce non il peggiore ma certamente il più intelligente di tutti e infatti riuscì a prendersi solo vent’anni di carcere), realtà e metafora (Max Aue è ferito a Stalingrado, una pallottola gli trapassa il cranio lasciandolo con una cicatrice che è come un terzo occhio pineale), raccapriccianti scene di sangue ed altre fantasmagoricamente oniriche che ricordano Schnitzler, colte dissertazioni di linguistica nonché sulle lingue in relazione alle etnie (e mentre i soldati muoiono a Stalingrado la discussione se i Bergjuden di etnia tat siano o no da considerarsi ebrei e come tali da sterminare ha un che di paradossalmente grottesco come in una scena del teatro dell’assurdo) e nostalgiche celebrazioni musicali (non ci pare strano che Aue esalti eccelsi compositori poco noti, ancora una volta ci sembra un’ulteriore segnale della frattura tra la “grande” Germania dei filosofi e dei musicisti e quella del Reich).
Ma chi è questo Max Aue che, diciamo la
verità, non è affatto simpatico né vuole esserlo? Quale tedesco vuole
rappresentare? Nessuno, in realtà, piuttosto tutti gli esseri umani, come dice
nella frase che incomincia il suo racconto: “Fratelli umani, lasciate che vi
racconti come è andata”. Perché questo è il suo punto: “io sono colpevole, voi
non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi
stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo,
ma anche con meno disperazione.” Max Aue, figlio di un uomo che ha combattuto
nella Grande Guerra e ne ha vissuto le umilianti conseguenze, ha fatto quello
che chiunque altro, in quel luogo e in quel momento avrebbe fatto, perché in
tempo di guerra il cittadino non solo perde il diritto di vivere, ma anche
quello “di non uccidere”. Come qualunque uomo comune in quella situazione, Max
Aue è inorridito, Max Aue non sopporta la vista non solo dei morti ma anche
della modalità delle stragi, Max Aue sta fisicamente male, vomita- è come se il
suo corpo volesse espellere da sé quello che vede (senza riuscirci, peraltro,
se all’inizio del romanzo confessa di continuare a vomitare occasionalmente e ad
essere stitico), ha dei piccoli e inutili gesti di pietà, come raccomandare che
una bimba venga uccisa con gentilezza. Più tardi, quando si avvicina la fine
della guerra e i forni hanno bruciato per anni senza interruzione, Max Aue
cerca di far ottenere più cibo e vestiario per i prigionieri, con il pretesto
che debbano essere trattati meglio se li si vuole impiegare come forza-lavoro.
Certo, poteva fare altro, unirsi al complotto contro Hitler. O suicidarsi- e
siamo sicuri che non ci abbia provato quando è riuscito solo a farsi ferire nel
girone di Stalingrado? O ancora, quando si ritira nella casa della sorella in
Pomerania, a rischio di essere considerato disertore? Dopo essere esploso in
quella confessione con la mite Hèlène, reiterando “ammazziamo, ammazziamo,
ammazziamo” in un isterico crescendo di chi ha superato il limite
dell’obbedienza?
Soltanto uno scrittore di origine ebraica poteva
scrivere un libro come “Le benevole”, suscitando ugualmente polemiche, tante
quante sono le diverse letture dei diversi lettori del libro. Soltanto uno
scrittore di origine ebraica che non adotta la lingua né dei vincitori né dei
vinti (“La sconfitta, di nuovo?” “Sì, di nuovo, la sconfitta”) poteva
trasformare le Erinni in bienveillantes,
senza assolvere, chiedendo solo di non dimenticare.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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