martedì 20 gennaio 2015

Jonathan Littell, “Le benevole” ed. 2007

                                                            Diaspora
                                                            il libro ritrovato

Jonathan Littell, “Le benevole”
Ed. Einaudi, trad. Margherita Botto, pagg. 943, Euro 24,00


Titolo originale: Les Bienveillantes

 Mi pervase un’ondata di amarezza: ecco cos’hanno fatto di me, mi dicevo, un uomo che non può vedere una foresta senza pensare a una fossa comune. Un ramo secco mi si spezzò sotto uno stivale. “E’ proprio strano che a lei non piaccia cacciare”, commentò Speer. Immerso nei miei pensieri, risposi senza riflettere: “Non mi piace uccidere, Herr Reichsminister.” Mi gettò un’occhiata strana e io precisai: “A volte è necessario uccidere per dovere, Herr Reichsminister. Uccidere per piacere è una scelta.”

   “Les Bienveillantes” è il titolo in francese del romanzo di Jonathan Littell, ebreo di origine polacca, nato a New York, cresciuto in Francia, ritornato in America per frequentare l’università di Yale, che ha scelto di scrivere in francese il suo libro. E’ un titolo che vuole darci una chiave di lettura? Perché les bienveillantes sono le Eumenidi, le benevole custodi della giustizia che si sostituiscono alle Furie o Erinni che inseguono Oreste, assolto da Atene per aver ucciso sua madre, colpevole a sua volta di aver fatto uccidere suo padre. E Maximilien Aue è, con tutta probabilità, l’assassino della madre e del patrigno, nonché colpevole di altri delitti. Verrebbe da dire che, in una scala di grandezza storica, gli altri crimini di Max Aue sono maggiori, essendo stato un ufficiale delle SS- ma questa è una delle tante domande che pone questo straordinario romanzo che resterà “il” libro sulla tormentata storia della Germania e dell’Europa negli anni della seconda guerra mondiale: è vero quanto diceva Stalin, che “la morte di un uomo è tragedia, la morte di milioni è statistica”, ed è per questo che, in una scena di delirante assurdità, Max Aue è ricercato da due poliziotti per aver ucciso la madre, in una Berlino già invasa dall’Armata Rossa?
   Niente sembra essere casuale in “Le benevole”, ad iniziare dal cognome del protagonista: se sostituiamo la vocale “u” con “w”, awe in inglese è la sensazione di sgomento davanti all’orrore, ed è orrore quello che prova Max Aue davanti alla carneficina degli ebrei in Ucraina, prima tappa in un viaggio dell’orrore che sostituisce nel secolo XX il romantico Grand Tour dell’800, Max Aue al posto di Childe Harold, una discesa all’Inferno in cui la scritta Arbeit macht frei sostituisce il dantesco “Lasciate ogni speranza…”, l’amico Thomas prende il posto di Virgilio come accompagnatore e i gironi sono intitolati a Babi Yar, Stalingrado, Auschwitz, Dora, e la marcia della morte finale delle larve viventi che sono diventati i prigionieri dei lager è come la turba di anime sospinte dal vento che suscita la compassione di Dante.
Non è una scelta leggera, quella di aver fatto di Max Aue un omosessuale, perché, intanto, è risaputo che lo erano molti SS, e c’è pure il carico aggiunto di sottolineare l’assurdità delirante della campagna nazista di pulizia attraverso l’eliminazione degli esseri inferiori o devianti: Max Aue ama l’unica donna che non può avere, anche se l’ha avuta in un passato di giochi- perché no?- innocenti: la sorella gemella che si chiama Una, a ricordare quell’unico corpo perfetto maschio e femmina di cui si parla nel “Simposio” di Platone, nonché l’unicità del suo sentimento. Così come è intenzionale l’inizio dalla fine, con l’anziano ex nazista Max Aue che è fuggito con carte false e ha preso dimora in Francia, ex paese nemico della Germania, dove ha fatto fortuna con una fabbrica di merletti. E se l’immagine dell’SS omosessuale in mezzo alle trine e ai pizzi può apparire un po’ kitsch, ha tuttavia un forte impatto di contrappasso in un libro che unisce la Storia (ricca di documentazione) e la finzione, personaggi creati dallo scrittore e altri veramente esistiti (Bormann e Goering, Goebbels e soprattutto Speer,
non il peggiore ma certamente il più intelligente di tutti e infatti riuscì a prendersi solo vent’anni di carcere), realtà e metafora (Max Aue è ferito a Stalingrado, una pallottola gli trapassa il cranio lasciandolo con una cicatrice che è come un terzo occhio pineale), raccapriccianti scene di sangue ed altre fantasmagoricamente oniriche che ricordano Schnitzler, colte dissertazioni di linguistica nonché sulle lingue in relazione alle etnie (e mentre i soldati muoiono a Stalingrado la discussione se i Bergjuden di etnia tat siano o no da considerarsi ebrei e come tali da sterminare ha un che di paradossalmente grottesco come in una scena del teatro dell’assurdo) e nostalgiche celebrazioni musicali (non ci pare strano che Aue esalti eccelsi compositori poco noti, ancora una volta ci sembra un’ulteriore segnale della frattura tra la “grande” Germania dei filosofi e dei musicisti e quella del Reich).
      Ma chi è questo Max Aue che, diciamo la verità, non è affatto simpatico né vuole esserlo? Quale tedesco vuole rappresentare? Nessuno, in realtà, piuttosto tutti gli esseri umani, come dice nella frase che incomincia il suo racconto: “Fratelli umani, lasciate che vi racconti come è andata”. Perché questo è il suo punto: “io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma anche con meno disperazione.” Max Aue, figlio di un uomo che ha combattuto nella Grande Guerra e ne ha vissuto le umilianti conseguenze, ha fatto quello che chiunque altro, in quel luogo e in quel momento avrebbe fatto, perché in tempo di guerra il cittadino non solo perde il diritto di vivere, ma anche quello “di non uccidere”. Come qualunque uomo comune in quella situazione, Max Aue è inorridito, Max Aue non sopporta la vista non solo dei morti ma anche della modalità delle stragi, Max Aue sta fisicamente male, vomita- è come se il suo corpo volesse espellere da sé quello che vede (senza riuscirci, peraltro, se all’inizio del romanzo confessa di continuare a vomitare occasionalmente e ad essere stitico), ha dei piccoli e inutili gesti di pietà, come raccomandare che una bimba venga uccisa con gentilezza. Più tardi, quando si avvicina la fine della guerra e i forni hanno bruciato per anni senza interruzione, Max Aue cerca di far ottenere più cibo e vestiario per i prigionieri, con il pretesto che debbano essere trattati meglio se li si vuole impiegare come forza-lavoro. Certo, poteva fare altro, unirsi al complotto contro Hitler. O suicidarsi- e siamo sicuri che non ci abbia provato quando è riuscito solo a farsi ferire nel girone di Stalingrado? O ancora, quando si ritira nella casa della sorella in Pomerania, a rischio di essere considerato disertore? Dopo essere esploso in quella confessione con la mite Hèlène, reiterando “ammazziamo, ammazziamo, ammazziamo” in un isterico crescendo di chi ha superato il limite dell’obbedienza?

     Soltanto uno scrittore di origine ebraica poteva scrivere un libro come “Le benevole”, suscitando ugualmente polemiche, tante quante sono le diverse letture dei diversi lettori del libro. Soltanto uno scrittore di origine ebraica che non adotta la lingua né dei vincitori né dei vinti (“La sconfitta, di nuovo?” “Sì, di nuovo, la sconfitta”) poteva trasformare le Erinni in bienveillantes, senza assolvere, chiedendo solo di non dimenticare.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


    
                                                                                       

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