venerdì 28 marzo 2014

Luciana Capretti, "Tevere"

                                                                        fresco di lettura

Luciana Capretti, “Tevere”
Ed. Marsilio, pagg. 220, Euro 17,50

    1975. Roma. Piove. Fa freddo. Una donna esce di casa, ha indosso solo una sottile camicia da notte e un finto pellicciotto. Prende un taxi, si fa portare in una strada dove vede suo marito incontrare l’amante. Sconvolta, scende lungo viale Trastevere finché arriva al fiume. Un’altra donna, una brasiliana che sta lanciando nell’acqua delle rose bianche per adempiere un sorta di magico rito, la vede esitare. Della donna col pellicciotto, Clara Faiola, verranno trovati solo i documenti, stranamente asciutti. Del corpo, nessuna traccia.

    Rimase lì, sull’orlo, a lungo. Forse il tempo di un’ora o di una sera o di una notte. Di certo aveva smesso di piovere da parecchio perché si era asciugata con il vento freddo e completamente intirizzita quando sentì la sua voce bisbigliarle Via, devi andare via. Allora si mosse, fece pochi passi sui lastroni grigi verso l’argine, aprì la borsetta, prese le Nazionali il borsellino e la carta di identità e si chinò per posarli con cura all’inizio delle scale che scendevano in acqua. L’acqua era nera e maestosa.

    Luciana Capretti ci racconta una storia vera intrecciata alla finzione in questo suo secondo romanzo “Tevere”, proprio come nel precedente “Ghibli” la trama era un miscuglio di invenzione narrativa e di vera storia della sua famiglia, espulsa dalla Libia. E mi colpiscono i due titoli che hanno qualcosa di simile, aria e acqua, il vento del deserto e il fiume di Roma che travolgono il destino dei personaggi. Al posto della scansione temporale di date che c’era in “Ghibli”, tre colori distinguono tempi diversi- significativi, memorabili. Giallo, bianco, nero. Oppure nell’ordine inverso, con il bianco sempre nel mezzo, il bianco che è tutti i colori per rappresentare la breve vita felice di coppia di Clara e il marito, il bianco come le lenzuola dei letti d’ospedale, come il camice di dottori e infermiere per l’entrare e uscire di Clara da ospedali e case di cura, dopo i diversi tentativi di suicidio (uno addirittura con la bimba appena nata in braccio), per curare la depressione con la terapia tremenda dell’elettroshock, più devastante ancora della malattia.
Giallo è il colore dell’enigma, del filone di indagine e di ricerca della donna scomparsa, della trama con il commissario di polizia che si intestardisce nel voler capire che ne sia stato di Clara, perché sia arrivata al punto di disperazione da voler abbandonare tutto, soprattutto quei figli che tanto amava e che la ricambiavano con uguale affetto. Nero è il passato, la giovinezza di Clara a Novara. Nero perché segnato da una tragedia- la morte di una sorella, nero perché offuscato dalla grave e debilitante depressione della madre, e poi nero perché erano gli anni del fascio e il padre di Clara era un fascista convinto, orgoglioso di indossare la camicia nera. E Clara si era iscritta al partito, era diventata un’ausiliaria. E sui giornali dell’epoca c’è la traccia da seguire, di quello che è successo e di cui Clara non ha mai parlato a nessuno dopo essere arrivata a Roma, lasciandosi tutto alle spalle, la madre inferma, la sorella minore che l’ha accusata di essere una spia, il padre condannato per crimini di guerra. E lei, Clara, che cosa era successo a Clara?
    E’ un libro forte e crudele, “Tevere”. Un libro che fa soffrire. E’ un’esplorazione dell’animo femminile, un viaggio nel buio della depressione- non quella causata da uno scompenso chimico ma da un male profondo. Quella lasciata da cicatrici che il tempo non può guarire. Anzi, il tempo le manda in suppurazione, ne aggiunge altre dovute all’incomprensione, alle cure sbagliate che aggiungono violenza a violenza già subita. Perché di questo si tratta, in fin dei conti. Violenza, anche se solo psicologica, del padre su una figlia. Violenza carnale quando la donna è una prigioniera di guerra e a lei, solo a lei e non a qualunque uomo che possa aver combattuto schierato al suo fianco, viene inflitto un oltraggio privato solo perché donna. E’ abbastanza per far ritrarre una donna da tutti gli uomini, anche se amati.

  Per principio mi rifiuto di festeggiare le ricorrenze che ci sono state imposte- festa della mamma, della donna, del papà, degli innamorati, dei nonni e chi più ne ha più ne metta-, ma avrei parlato volentieri di questo libro, della storia di Clara, nel giorno delle donne. Come forma di protesta, per ricordare che sarebbe meglio denunciare ogni forma di violenza invece di spogliare gli alberi di mimosa.

   
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

la scrittrice Luciana Capretti           

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