mercoledì 12 marzo 2014

Eshkol Nevo, "Nostalgia"

                                                     Voci da mondi diversi. Medio Oriente


Eshkol Nevo, “Nostalgia”
Ed. Mondadori, trad. Elena Loewenthal, pagg. 348, Euro 17,50

Due giovani, Noa e Amir, vanno a convivere a Castel, tra Gerusalemme e Tel Aviv, già enclave araba. Fanno amicizia con la coppia che gli affitta la casa e con la famiglia che ha appena perso un figlio nella guerra in Libano, un muratore arabo (la cui famiglia possedeva quella casa prima dell’arrivo degli israeliani) ritrova un gioiello della nonna proprio dove questa lo aveva lasciato. Lo arrestano, mentre un grave lutto si abbatte su Israele: Rabin viene assassinato il 5 novembre 1995.

Recensione e
INTERVISTA A ESHKOL NEVO, autore di “Nostalgia”- 2007

     Chissà che forse non sia la nostalgia la condizione perenne in cui vive l’uomo dopo la caduta- nostalgia come desiderio continuo per qualcosa che non c’è più e che apprezziamo ora più che mai, senso della mancanza di una persona, o di un luogo, o di un sentimento o di una situazione di vita. Prima o poi tutti i personaggi del romanzo “Nostalgia” dello scrittore israeliano Eshkol Nevo rimpiangono una perdita, del figlio o del fratello morto, della serenità familiare, dell’incanto dell’innamoramento, della casa espropriata, della patria lontana, della pace. E prima o poi tutti i personaggi ricuciono gli strappi della nostalgia, si adattano, cambiano, recuperano una parte di quello che hanno perso. 

     “Nostalgia” è un romanzo a tante voci che si passano la parola, alternandosi- una coppia di studenti, Amir e Noa, la loro vicina di casa, il bambino Yotam che ha perso il fratello nella guerra del Libano, l’amico di Amir che scrive lettere dal Sudamerica e infine il muratore arabo Saddiq. Ogni tanto, solo ogni tanto, la narrativa procede in terza persona, come se la cinepresa si allontanasse dal set di questo villaggio, Castel, che si trova a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv e che proprio per questo è stato scelto come dimora da Amir e Noa, lui studente di psicologia a Tel Aviv e lei di fotografia a Gerusalemme, per provare se “funzionano” come coppia. E quello che è chiaro, prima della fine del romanzo, è che ogni coppia funziona a suo modo, che la vita è difficile quando si vive insieme, che c’è molto da imparare sul dare e sul cedere, e che è importante distinguere quello che ha più valore, di cui non si potrebbe fare a meno. E se a Noa sembra mancare l’ispirazione nella vicinanza continua di Amir, se lui rimpiange degli spazi vuoti in cui poter studiare, se la casalinga Sami si concede qualche fantasia sullo studente vicino di casa, se la coppia che ha perso un figlio quasi non si parla più, dopo un periodo più o meno lungo di crisi i pezzi si ricompongono, come se fosse necessario avvicinarsi al bordo di un precipizio e guardare giù nel buio prima di girarsi e rivedere i colori.
    Non c’è un solo protagonista a dominare la scena in “Nostalgia”. A tratti sembrerebbe essere la coppia di studenti quella che più ci coinvolge, perché lei è così estrosa, ha un passato buio ed è bella, e lui è così sensibile che si lascia ferire da tutti i mali di chi dovrebbe curare, è così bravo nell’instaurare un rapporto con Yotam, il bambino “orfano di fratello”, e, quando si separano per prova, noi speriamo che tornino insieme. Ma anche la voce di Yotam, che si sente abbandonato dai genitori in lutto oltre che dal fratello, ci cattura parlandoci di una casa piena di lumini come un santuario e di giorni di scuola e compiti non fatti e di ricordi dell’amato fratello. O quella della casalinga Sami che sa che è meglio stringersi al marito piuttosto che rubare un bacio ad Amir.

    Ci resta da parlare dell’arabo Saddiq, il personaggio più tragico del romanzo, quello che non ci soddisfa appieno perché resta in sospeso, come è eternamente in sospeso la Storia degli arabi e degli israeliani. Perché Saddiq, che abitava in quella casa prima del 1948 e che ritrova, nascosta dove sua madre gli ha indicato, la catenina d’oro lasciata in eredità da donna a donna della sua famiglia, viene arrestato. La sua voce tace dietro le mura della prigione, eppure è a lui che continuiamo a pensare, come a Ghidi morto ventenne in Libano e a Rabin assassinato- il dramma di Israele che si intravede nella descrizione iniziale dei due dossi con i due villaggi “gemelli”, quello ebraico e quello che una volta apparteneva agli arabi. Stilos ha intervistato Eshkol Nevo, nipote di Eshkol Levi che fu primo ministro di Israele dal 1963 al 1969.

Nella nota biografica sul quarto di copertina leggiamo che lei ha passato l’infanzia tra Israele e Stati Uniti: conosce bene il sentimento della nostalgia, allora? Le parole finale di Modi “Voglio tornare casa”, sarebbero potute essere le sue parole?
     Conosco bene la nostalgia, e non tanto per il mio soggiorno negli Stati Uniti, quanto per il fatto che, fino ai 18 anni, ci siamo trasferiti così spesso che avrò cambiato una dozzina di case: ogni due o tre anni dovevo salutare le persone e impegnarmi a conoscere una nuova casa. Da adulto, poi, spostarsi di continuo è diventata una specie di dipendenza, è quello che nel romanzo ho chiamato “mover’s high”, lo sballo del vagabondo. Poi, finalmente, ho trovato la stabilità. Il libro è nato da questo, volevo scrivere della nostalgia e della ricerca di casa. Ho iniziato a scrivere e ho visto che, attraverso il concetto della nostalgia, potevo trattare altri problemi della società israeliana, potevo affrontare questioni ideologiche attraverso la nostalgia e il desiderio di qualcosa che manca.

C’è una descrizione del luogo, all’inizio del romanzo, con i villaggi gemelli uno di fronte all’altro: sono una metafora della situazione in Israele?
     Quello che è buffo è che il luogo è vero, è un posto in Israele ma è molto piccolo e molti lettori pensavano che fosse inventato, come Macondo, perché non ne avevano mai sentito parlare. Ci sono due colline e due villaggi, ma una è la parte ricca e l’altra è povera, una è abitata da ashkenazi che vengono dall’Europa e l’altra da ebrei del Kurdistan. La metafora è che hanno costruito un centro commerciale nel mezzo, un luogo d’incontro tra due luoghi diversi. Come a dire che il capitalismo è il terreno comune e non importa da dove vieni. La ragione per scegliere questo luogo è che non è molto noto e così potevo scrivere quello che volevo perché non c’è nessun romanzo già ambientato lì. Il secondo motivo è che io stesso ci ho abitato, avevo nostalgia del posto e volevo tornarci. Infine ho scoperto che il luogo giocava un ruolo importante nella narrativa israeliana e palestinese. Qui è stata combattuta una battaglia importante nella guerra del 1948: i due villaggi erano abitati da palestinesi e adesso non ne era rimasto nessuno. Ho fatto delle ricerche e mi sono reso conto che il romanzo non poteva essere ambientato in nessun altro posto.

Scegliere di scrivere un romanzo con più voci può essere nello stesso tempo una scelta facile e difficile: perché ha scelto questa maniera di scrivere?
     Anche nel mio primo libro c’erano diverse voci narranti e, dopo averlo finito, avevo giurato a me stesso che non lo avrei fatto mai più. E’ difficile trovare dentro di sé cinque o sei voci diverse, essere diverso ogni volta. All’inizio, in questo libro c’era solo un narratore in terza persona ma, dopo una trentina di pagine, i personaggi si sono ribellati. Non avrei proprio voluto che succedesse. I vantaggi sono che ti svegli al mattino e decidi, ‘parto per il Sud America’ e scrivi con quella voce, oppure ‘sono una fotografa’…Ma ho dovuto fare molte ricerche- ad esempio, come parla ebraico un arabo? Mi sono munito di registratore e ho registrato arabi che parlavano per capire come costruissero le frasi . In un senso più profondo queste voci mi permettono di mostrare al lettore- e a me stesso- più di una verità: lo stesso evento si può vedere in molte maniere, come nel film “Rashomon” di Kurosawa.

Ha parlato della difficoltà nel dare una voce all’arabo Saddiq, quali sono stati i problemi nel rendere le altre voci? C’è una voce in cui può più facilmente riconoscere se stesso?
    Stranamente è stato facile essere il bambino Yotam, anche se io non ho perso un fratello e sono il più grande in famiglia. Eppure era come se avessi un fratellino dentro di me. La voce di Sima, la casalinga, è stata facile: di nuovo, forse avevo questa donna in me. Noa sarebbe dovuta essere facile, perché è un’artista e io insegno alla Academy of Arts, e invece per mesi non riuscivo a scrivere nei suoi panni. Ci sono persone diverse dentro di te e tu non lo sai. In ognuno c’è qualcosa di me. In Saddiq mi trovo per la casa che ha perso, in Amir perché anche io sono stato studente di psicologia e in Modi il viaggiatore perché ho viaggiato molto. Ma non penso che ci sia un personaggio solo che sia me: questo è parte del divertimento dello scrivere. Il libro cresce da una ferita che hai dentro.

La voce più accattivante è quella del piccolo Yotam che piange il fratello e nello stesso tempo vorrebbe attirare l’attenzione dei genitori. E’ anche un libro sulla perdita oltre ad essere un romanzo sulla nostalgia?              


    La storia di Yotam è una storia di perdita, la sua nostalgia è più per i genitori così consumati dal dolore. Il problema principale in casa sua è del bambino che chiede attenzione. E’ un libro su una società in cui la morte o la perdita sono una costante che trovi ovunque- nel libro Rabin viene ucciso, questo è significativo. La morte è sempre parte cruciale della vita ed in particolare nel tempo in cui si svolge il romanzo. Alla fine la famiglia di Yotam dice di non sopportare più un luogo così pieno di morte e parte per l’Australia che, nel mio immaginario, è l’opposto di Israele. Certamente il libro è su una società che vive nell’ombra della morte.

In apparenza il romanzo è una storia d’amore, ma la morte del fratello di Yotam e l’arabo Saddiq che è gettato in prigione ne fanno anche un romanzo sulla guerra senza fine che dura da mezzo secolo. Mi pare che, in paragone ad altri romanzi israeliani, la novità sia nel riconoscere i diritti dei palestinesi defraudati delle loro abitazioni da parte degli israeliani. E’ un riconoscimento avvenuto in tempi recenti?
     “Nostalgia” è forse il primo libro in cui il problema si presenta in maniera centrale e per voce di un arabo, altri romanzi ne parlano come di una questione secondaria. Per questo “Nostalgia” è ancora provocatorio in Israele. La storia ufficiale non riconosce ancora la Naqba, la “catastrofe” dell’espulsione dei palestinesi nel 1948, perché si teme che i palestinesi avanzino richieste. 

“Nostalgia” è diventato uno dei libri obbligatori per l’esame finale del liceo, in Israele. Quello che è ironico è che nell’ora di storia gli studenti non imparano della Naqba e poi passano all’ora di letteratura e trovano questa versione della Storia. Israele dovrebbe riconoscere quello che è successo e il prezzo emozionale ed economico pagato dai palestinesi. I palestinesi vogliono un riconoscimento, non vogliono tornare “a casa”, sarebbe un altro trauma per quelli che non ricordano di avere avuto altra casa. Si può parlare però di un risarcimento economico.

Leggiamo il romanzo in traduzione e ci resta la curiosità di sapere come suoni in lingua originale, che cosa perdiamo leggendolo in italiano: l’ebraico offre un’ampia possibilità di sfumature per rendere diverse le varie voci?
     L’ebraico è una lingua ricchissima, c’è uno strato biblico della lingua e poi c’è il livello di strada che combina anche parole arabe e l’influenza americana. Sì, è vero che quella è presente anche nelle altre lingue europee, ma la posizione europea verso l’America è ambivalente, mentre gli israeliani adorano la cultura americana- tutti, tranne gli intellettuali. Nell’originale si capisce subito chi stia parlando. E, anche se nella traduzione si perde, questo è il prezzo da pagare per avere lettori in paesi diversi, ognuno con la sua nostalgia.

La letteratura israeliana è al momento fra le più vivaci. Eppure ci sono state critiche rivolte da giovani scrittori ai “grandi e vetusti” scrittori più famosi, Yehoshua, Oz, Grossman. Pensa che, in qualche modo, questi “mostri sacri” possano essere un ostacolo agli scrittori giovani?
     Devo dire subito che di questo confronto ho sentito molto parlare in Italia, perché in Israele i tre scrittori citati non sono dei miti, in Israele c’è una scena letteraria molto democratica, ci sono molte voci. Non mi sono mai sentito messo in ombra, ho molto rispetto per Yehoshua, Oz e Grossman, ognuno di loro ha scritto almeno un libro che giudico un capolavoro, un libro che mi ha fatto pensare, ‘non scriverò mai così’. E poi li ammiro perché sono coraggiosi nel modo in cui si comportano da intellettuali, dicendo le loro opinioni, da farmi pensare ‘è così che voglio esprimere la mia voce’. Hanno un ruolo importante, non sono sempre d’accordo con loro, ma li ammiro. In Israele si scrive che quelli della mia generazione non sono interessati a parlare della realtà nei loro libri: a me interessa parlare della realtà israeliana e non fare finta di non esserci. Yehoshua, Oz e Grossman appartengono ad una generazione diversa, la loro lingua è diversa, il modo in cui scrivono dei rapporti intimi di una coppia, ad esempio, è diverso- è una cosa che fa parte della loro generazione. Ma c’è posto per tutti in letteratura, anche per nuove voci.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"

lo scrittore Eshkol Nevo  


                                                                                                    


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