venerdì 28 marzo 2014

Luciana Capretti, "Ghibli" ed. 2004

                                                                        il libro ritrovato

Luciana Capretti, “Ghibli”
Ed. Rizzoli, pagg. 205, Euro 14,50


Il 2 luglio 1970 due leggi decretavano l’espulsione dei 20.000 italiani residenti in Libia; tre mesi dopo il colonnello Gheddafi annunciava trionfalmente che 12.770 italiani erano partiti, in più erano stati confiscati 37.000 ettari di terra e 80 milioni di sterline libiche erano stati congelati sui conti bancari. Erano rimaste 1500 persone, tutti tecnici o esperti che “servivano” al regime. Su quei mesi drammatici è costruito il libro di Luciana Capretti, “Ghibli”, che mescola la storia della sua famiglia a invenzione narrativa. Sono sette capitoli che coprono un arco temporale di undici mesi, anche se non sono in ordine cronologico: il primo e l’ultimo portano la data “agosto 1970”, quando tutto è compiuto, e le prime parole, “Mahmud c’era riuscito”, stabiliscono già chi sono i vincitori e chi i vinti. Un nome arabo, Mahmud: è riuscito a farsi attribuire il negozio di oreficeria di Santo Attardi, a Tripoli. Lo stesso Santo Attardi che vediamo, nella pagina seguente, arrivare a Ostia, in costume da bagno e canottiera, così come era fuggito su un’imbarcazione. Indietro nel tempo, ad aprile, e poi maggio e giugno e luglio, con un balzo all’anno precedente, il 1969 quando Gheddafi aveva preso il potere, segnando la fine di re Idris e della convivenza pacifica. Mesi di timori e di speranze, in cui si prepara la fuga, in cui basta un pretesto per venire arrestati, in cui si sceglie e si scarta, quello che si può portare via e quello che si deve lasciare, quello che si può nascondere in sottofondi di armadi, cucire negli abiti, infilare in tubetti di medicine- i soliti espedienti di tutti i disperati costretti a far fagotto abbandonando i frutti del lavoro di una vita. Non c’è sentimentalismo nel racconto di Luciana Capretti, non si nasconde la realtà del fatto che gli italiani erano arrivati da conquistatori nel 1938, alla ricerca di un posto al sole.
Erano dei poveracci in realtà, reclutati nelle campagne, i più fedeli al fascio. Gli avevano detto che avrebbero avuto da lavorare, ma che la loro era una missione. Appena sbarcati erano stati ricevuti da Balbo, salutati dalle fanfare. Avevano avuto quello che gli era stato promesso, i poderi, i sussidi, i quintali di farina per far subito il pane. Che poi i poderi appartenessero ai libici e che questi fossero stati deportati nel deserto, che fossero stati uccisi, non importava a nessuno. Mors tua, vita mea. I ricordi di Santo Attardi si mescolano a quelli di altri personaggi, la povertà in Sicilia, la vita in una patria che non offriva speranze e  il capitolo nuovo che si era aperto a Tripoli. Era stata dura, ma ne era valsa la pena. Non viene espresso un giudizio in queste pagine, ma il quadro è ben chiaro: la vita era dolce per gli italiani a Tripoli, è vero che avevano dato e insegnato tanto ai libici, ma restavano pur sempre i conquistatori, quelli che, per la maggior parte, non avevano neppure imparato l’arabo. E poi la fuga- chi a nuoto fino ad una nave, chi  nascosto nella custodia di un violoncello, chi su un motoscafo, perdendo la bussola, restando a secco di benzina, scampando per miracolo. E il libro si chiude con un’ultima beffa, una sorpresa per quel Mahmud che pensava di avercela fatta, mentre soffia il ghibli, indorando l’aria, spazzando via il passato, seccando le lacrime, riempiendo la bocca di sabbia, soffocando le parole per il rimpianto.


la recensione è stata pubblicata sulla rivista "Stilos"

la scrittrice Luciana Capretti     

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