Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Radhika Jha, “L’elefante e la Maruti”
Ed. Neri Pozza, trad. Gioia
Guerzoni, pagg. 282, Euro 15,50
INTERVISTA
Dopo aver scritto un romanzo, ha scelto di cimentarsi con il genere del
racconto, che viene giudicato più difficile. Perché questa scelta?
Dopo aver finito il mio primo romanzo,
“L’odore del mondo”, non sapevo se volevo essere una scrittrice. Pensavo che se
avessi scritto dei racconti- che sapevo essere più difficile, anche se non
sapevo quanto più difficile dello scrivere un romanzo-, se riuscivo a creare
venti personaggi differenti e storie diverse, ecco questa era una sfida, voleva
dire che avrei potuto scrivere.
La prima novella, “Il matrimonio”, è piena di colore, allegra: perché
ha iniziato proprio con quella?
Perché è buffa, perché è una satira ed è
quella che è più simile ad una novella. Le altre storie sono più dei romanzi
brevi. Questa è come un antipasto che stuzzica l’appetito, che facilita la
lettura. Gli altri racconti sono più intensi.
L’ambientazione di questa prima storia ci ricorda il film “Monsoon
wedding” di Mira Nair: che cosa pensa del cinema indiano?
Alcuni film mi
piacciono, non mi piacciono quelli in puro stile Bollywood. Mi piacciono le
canzoni e non mi piacciono i dialoghi, sono troppo lunghi, e poi i personaggi
sono esagerati e ben poco viene lasciato all’immaginazione dello spettatore.
Delhi cresce, c’è un
forte pendolarismo, la gente si sposta in enormi autobus, non c’è la
metropolitana, Delhi è una città disumana. La città è piena di baraccopoli che
sorgono proprio vicino alla case borghesi. Gli operai che costruiscono le
abitazioni più belle finiscono per vivere nelle baracche provvisorie dove hanno
alloggiato durante i lavori. E, quando queste baracche vengono abbattute, gli
operai si spostano fuori dalla città e vanno avanti e indietro. Sono pochi
quelli che riescono a portare la famiglia con sé.
Nella mia famiglia c’è un
servitore venuto dal Bihar. Era stato assunto da mio nonno e, quando il nonno è
morto, mio padre lo ha ereditato perché noi non licenziamo mai i servitori. E’
un bramino, ma è molto povero. Ha chiesto un prestito a mio padre per costruirsi
una casa e farsi raggiungere dalla sua famiglia. Ha preso un secondo lavoro,
per riuscire a restituire i soldi: di notte lavorava all’ortomercato, e al
mattino veniva da noi. Ci metteva due ore e mezzo per arrivare a casa nostra
dalla casa che si era costruito su un piccolo pezzo di terra, e così sta a casa
nostra e ritorna dalla famiglia al fine settimana. Lui è tra i fortunati,
perché la maggior parte si sposta tutti i giorni. Le giovani coppie riescono a
trovare casa a un’ora e mezzo di distanza da Delhi. Anche io sono fortunata,
perché lavoro come attaché culturale all’Ambasciata Francese di Delhi e ho
trovato un appartamento in affitto in centro, grazie al fatto che sono single e
sono donna, perché la mia padrona di casa è una vecchia signora. Il prezzo
degli affitti? In genere un terzo dello stipendio. Io guadagno un po’ meno del
corrispondente di 600 euro al mese, è un buon stipendio e la vita in India non
è affatto cara.
Interamente privata. Ci sono gli ospedali
pubblici in cui si è ammessi gratuitamente se si è molto ammalati, ma le
medicine sono a pagamento. E, per fortuna, contro i regolamenti della World Trade
Organization, il prezzo dei medicinali è stato mantenuto basso in India.
E la situazione dei posti di lavoro?
La disoccupazione è
altissima. Dopo l’università si è fortunati se si riesce a trovare lavoro in un
call center. Anche io ero disperata prima di riuscire a trovare il mio impiego
attuale. Il meglio che avevo trovato era nella reception di un albergo. D’altra
parte l’emigrazione è illegale, è difficilissimo ottenere un visto, ci possono
volere anche dieci anni. I cuochi riescono ad emigrare più facilmente perché
trovano lavoro.
Nella storia “L’elefante e la Maruti” ha scelto due bei simboli per il
passato e il presente.
E’ vero, ho pensato a due simboli per il passato e per il presente e mi
sentivo molto coinvolta nella storia che raccontavo. In realtà la fine che
avevo pensato in un primo tempo era diversa, ma poi mi sembrava troppo
pessimista: un ragazzo come Kishore era troppo coraggioso, umano, pieno di luce
e meritava qualcos’altro. Per me l’elefante è anche il simbolo della
sopravvivenza, e questa è una delle lezioni dell’India se si guarda al di là
della povertà. Quello che si può imparare è che la vita ti porta cose buone e
cose cattive e ciò che importa è sopravvivere. Ho passato molto tempo nelle
baraccopoli per poterne scrivere e ho osservato che nelle classi basse ci sono
molta speranza e coraggio. Sia il personaggio del lebbroso sia quello del
guidatore di risciò nella novella “Speranza”
sono veri. Dovevo scrivere per un giornale un articolo sugli immigrati,
poi l’articolo non è stato pubblicato perché non è stato ritenuto abbastanza
significativo, ma io non riuscivo a dimenticare quelle persone, volevo usare la
loro lingua, le loro parole, e così sono finiti nel racconto. Gli unici
personaggi inventati di “Speranza” sono il giornalista e la ragazza che odia
Delhi e, dopotutto, sono entrambi me stessa, il mio passato e il mio presente,
perché anche io sarei potuta essere come la donna viziata che vede brutture
dappertutto.
C’è una storia molto “buia”, quella che parla delle superstizioni in un
villaggio e che finisce in maniera così drammatica.
Anche mio padre pensa che sia una storia
molto buia. Ha una strana origine, questa storia. Viene da un sogno che ho
fatto, in cui c’era il personaggio che poi sarà il burocrate e che sembrava mio
padre, ed era un sogno inquietante che mi ha lasciato scossa. Volevo cercare di
capire che cosa nel sogno mi avesse causato quella sensazione e ho incominciato
a lavorarci sopra e ho pensato al villaggio e a tutta la storia.
L’ultimo racconto si ricollega, per alcuni versi, al suo primo romanzo,
“L’odore del mondo”, perché parla di cibo e di profumi in cucina. Perché questo racconto è ambientato in
Svizzera?
Perché è lo scenario
giusto. Mio nonno era diplomatico e, quando è andato in pensione, è andato a
vivere a Ginevra. Molti dei miei ricordi erano lì, perché, durante l’Emergenza
in India, negli anni 1975-76, mio padre, che faceva il giornalista, è dovuto
emigrare in Svizzera. E io ricordo che uno dei posti preferiti in cui andavamo
a mangiare era sul lago. In realtà è stata l’idea della storia che mi ha fatto
interessare al cibo e non il contrario, perché, soprattutto quando ero più
giovane, ero fissata con le diete. Io non cucino cibo francese e perciò questa
storia è stata una sfida per me: l’ho scritta nove volte, è stata la prima
storia che ho iniziato e l’ultima che ho finito. Per scriverla ho passato molto
tempo nelle cucine e nei ristoranti. Per me la storia era sulla vecchiaia, come
accettare la vecchiaia. Forse perché ho visto mio padre invecchiare, con il
rischio della depressione avvicinandosi ai 60 anni. Sì, sessant’anni non
significa essere vecchio adesso, ma una volta sì, una volta non erano molti a
raggiungere i sessant’anni e per questo si fa festa.
Mi domandavo se ci siano degli scrittori indiani che scrivono in hindi,
oppure se noi conosciamo solo quelli che scrivono in inglese perché è più
facile tradurli.
Non sono molti gli scrittori che scrivono
in hindi e sono pochissimi quelli che vengono pubblicati dalle grandi case
editrici. Io stessa ho tradotto alcune storie dall’hindi, ma le traduzioni non
sono comuni. L’hindi non è una lingua intellettuale, è una lingua di scambio.
L’hindi che si trova sui giornali ha una qualità povera di scrittura, è
provinciale. In India si parlano talmente tante lingue che l’inglese si è trasformato da lingua dell’oppressore a
lingua franca in cui esprimersi. Mio padre e mia madre parlavano due lingue
diverse: lui il maithili e lei il malayalam, anche se lui sapeva parlare un
poco anche l’hindi. Tra di loro parlavano in inglese e io ho iniziato a
“insegnarmi” l’inglese quando avevo tre anni, per non sentirmi esclusa. Quando
la mamma è morta, mio padre ed io abbiamo continuato a parlare in inglese,
perché era una maniera per ricordarla. Mio padre avrebbe voluto che
frequentassi una scuola hindi a Delhi, ma non ho trovato posto e perciò sono
andata alla scuola inglese. Quando ho scritto il mio primo romanzo, l’ho
ambientato in Francia perché mi sembrava strano parlare dell’India in inglese.
Sono “ritornata” in India con questo secondo libro di racconti.
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