domenica 1 marzo 2015

Radhika Jha, “L’elefante e la Maruti” ed. 2004

                                                    Voci da mondi diversi. Asia
                                                              il libro ritrovato


Radhika Jha, “L’elefante e la Maruti”
Ed. Neri Pozza, trad. Gioia Guerzoni, pagg. 282, Euro 15,50


 Flash sull’India, un paese tra tradizione e modernità, nel libro di racconti “L’elefante e la Maruti” della scrittrice Radhika Jha. Sei storie, come filmini che riprendono la vita in luoghi e tempi diversi, per formare un unico quadro. Un’atmosfera da “Monsoon wedding” nella prima novella, lampioni e ghirlande di fiori, sari fruscianti di seta e braccialetti tintinnanti, cinquecento invitati per il matrimonio di Barrabundla, sposa dal corpo generoso (in tutti i sensi) che mette a tacere il futuro marito che osa lamentarsi del suo ritardo.
Un altro mondo in “Insonnia”, un villaggio sperduto ai confini del Kerala dove un funzionario  convinto del potere illuminante di uno stato razionale si scontra con la superstizione degli abitanti; due adolescenti come tante, una bellissima e una che crede di non esserlo, nel racconto “Bellezza”; uno chef che sta perdendo il gusto e l’olfatto nell’unica novella che non è ambientata in India, e poi due storie che sono, invece, una dichiarazione d’amore per Delhi, la città dove Radhika Jha è nata e abita. Delhi dai mille contrasti, Delhi con le montagne di immondizie, con gli storpi e i lebbrosi che chiedono l’elemosina ad ogni semaforo, con gli sfruttatori e gli sfruttati, i molto ricchi e i molto poveri, Delhi per le cui strade può avanzare maestoso un elefante e, in un incidente, “stirare” la macchinina più diffusa in India, la Maruti.
Ma Delhi è anche la città del possibile, una devi, una divinità per il misero guidatore di risciò che le è grato perché ha dato un futuro ai suoi figli: Delhi è la speranza dell’India. Dopo il suo primo romanzo, “L’odore del mondo”, Radhika Jha ha cambiato genere, scegliendo quello difficile del racconto, per raccontarci la sua India. Il risultato piacerà anche a chi preferisce le vicende che si dipanano nell’arco di tempo più lungo del romanzo, perché  ogni racconto della Jha è una storia perfettamente compiuta, sospesa tra la prosa di una realtà guardata con disincanto ma con affetto, e la poesia di un mondo lontano. Stilos ha incontrato Radhika Jha a Napoli, dove la scrittrice è stata invitata a presentare il suo libro alla quindicesima edizione di Galassia Gutenberg, la Fiera del Libro del Sud. Sorridente, occhi nerissimi che sembrano cogliere ogni sfumatura anche di una lingua che non è la sua, un sari verde e blu con un cappottino nero contro il gelo improvviso, Radhika Jha dice di essere felice di trovarsi in una città che ha sempre voluto visitare e che no, il traffico caotico di Napoli non la colpisce, perché a Delhi è ancora peggio: a Napoli almeno non ci sono anche gli elefanti e i risciò.


INTERVISTA      



Dopo aver scritto un romanzo, ha scelto di cimentarsi con il genere del racconto, che viene giudicato più difficile. Perché questa scelta?
      Dopo aver finito il mio primo romanzo, “L’odore del mondo”, non sapevo se volevo essere una scrittrice. Pensavo che se avessi scritto dei racconti- che sapevo essere più difficile, anche se non sapevo quanto più difficile dello scrivere un romanzo-, se riuscivo a creare venti personaggi differenti e storie diverse, ecco questa era una sfida, voleva dire che avrei potuto scrivere.

 La prima novella, “Il matrimonio”, è piena di colore, allegra: perché ha iniziato proprio con quella?
     Perché è buffa, perché è una satira ed è quella che è più simile ad una novella. Le altre storie sono più dei romanzi brevi. Questa è come un antipasto che stuzzica l’appetito, che facilita la lettura. Gli altri racconti sono più intensi.

L’ambientazione di questa prima storia ci ricorda il film “Monsoon wedding” di Mira Nair: che cosa pensa del cinema indiano?

     Alcuni film mi piacciono, non mi piacciono quelli in puro stile Bollywood. Mi piacciono le canzoni e non mi piacciono i dialoghi, sono troppo lunghi, e poi i personaggi sono esagerati e ben poco viene lasciato all’immaginazione dello spettatore.

 Nelle storie seguenti si oscura il quadro dell’India ed è chiaro che in India, come altrove, il fenomeno dell’inurbazione ha causato molti problemi. Com’è la situazione degli alloggi a Delhi?
    Delhi cresce, c’è un forte pendolarismo, la gente si sposta in enormi autobus, non c’è la metropolitana, Delhi è una città disumana. La città è piena di baraccopoli che sorgono proprio vicino alla case borghesi. Gli operai che costruiscono le abitazioni più belle finiscono per vivere nelle baracche provvisorie dove hanno alloggiato durante i lavori. E, quando queste baracche vengono abbattute, gli operai si spostano fuori dalla città e vanno avanti e indietro. Sono pochi quelli che riescono a portare la famiglia con sé.
Nella mia famiglia c’è un servitore venuto dal Bihar. Era stato assunto da mio nonno e, quando il nonno è morto, mio padre lo ha ereditato perché noi non licenziamo mai i servitori. E’ un bramino, ma è molto povero. Ha chiesto un prestito a mio padre per costruirsi una casa e farsi raggiungere dalla sua famiglia. Ha preso un secondo lavoro, per riuscire a restituire i soldi: di notte lavorava all’ortomercato, e al mattino veniva da noi. Ci metteva due ore e mezzo per arrivare a casa nostra dalla casa che si era costruito su un piccolo pezzo di terra, e così sta a casa nostra e ritorna dalla famiglia al fine settimana. Lui è tra i fortunati, perché la maggior parte si sposta tutti i giorni. Le giovani coppie riescono a trovare casa a un’ora e mezzo di distanza da Delhi. Anche io sono fortunata, perché lavoro come attaché culturale all’Ambasciata Francese di Delhi e ho trovato un appartamento in affitto in centro, grazie al fatto che sono single e sono donna, perché la mia padrona di casa è una vecchia signora. Il prezzo degli affitti? In genere un terzo dello stipendio. Io guadagno un po’ meno del corrispondente di 600 euro al mese, è un buon stipendio e la vita in India non è affatto cara.

 E com’è l’assistenza sanitaria?
     Interamente privata. Ci sono gli ospedali pubblici in cui si è ammessi gratuitamente se si è molto ammalati, ma le medicine sono a pagamento. E, per fortuna, contro i regolamenti della World Trade Organization, il prezzo dei medicinali è stato mantenuto basso in India.

E la situazione dei posti di lavoro?
    La disoccupazione è altissima. Dopo l’università si è fortunati se si riesce a trovare lavoro in un call center. Anche io ero disperata prima di riuscire a trovare il mio impiego attuale. Il meglio che avevo trovato era nella reception di un albergo. D’altra parte l’emigrazione è illegale, è difficilissimo ottenere un visto, ci possono volere anche dieci anni. I cuochi riescono ad emigrare più facilmente perché trovano lavoro.

Nella storia “L’elefante e la Maruti” ha scelto due bei simboli per il passato e il presente.

   E’ vero, ho pensato a due simboli per il passato e per il presente e mi sentivo molto coinvolta nella storia che raccontavo. In realtà la fine che avevo pensato in un primo tempo era diversa, ma poi mi sembrava troppo pessimista: un ragazzo come Kishore era troppo coraggioso, umano, pieno di luce e meritava qualcos’altro. Per me l’elefante è anche il simbolo della sopravvivenza, e questa è una delle lezioni dell’India se si guarda al di là della povertà. Quello che si può imparare è che la vita ti porta cose buone e cose cattive e ciò che importa è sopravvivere. Ho passato molto tempo nelle baraccopoli per poterne scrivere e ho osservato che nelle classi basse ci sono molta speranza e coraggio. Sia il personaggio del lebbroso sia quello del guidatore di risciò nella novella “Speranza”  sono veri. Dovevo scrivere per un giornale un articolo sugli immigrati, poi l’articolo non è stato pubblicato perché non è stato ritenuto abbastanza significativo, ma io non riuscivo a dimenticare quelle persone, volevo usare la loro lingua, le loro parole, e così sono finiti nel racconto. Gli unici personaggi inventati di “Speranza” sono il giornalista e la ragazza che odia Delhi e, dopotutto, sono entrambi me stessa, il mio passato e il mio presente, perché anche io sarei potuta essere come la donna viziata che vede brutture dappertutto.

C’è una storia molto “buia”, quella che parla delle superstizioni in un villaggio e che finisce in maniera così drammatica.
    Anche mio padre pensa che sia una storia molto buia. Ha una strana origine, questa storia. Viene da un sogno che ho fatto, in cui c’era il personaggio che poi sarà il burocrate e che sembrava mio padre, ed era un sogno inquietante che mi ha lasciato scossa. Volevo cercare di capire che cosa nel sogno mi avesse causato quella sensazione e ho incominciato a lavorarci sopra e ho pensato al villaggio e a tutta la storia.

L’ultimo racconto si ricollega, per alcuni versi, al suo primo romanzo, “L’odore del mondo”, perché parla di cibo e di profumi in cucina. Perché questo racconto è ambientato in Svizzera?
    Perché è lo scenario giusto. Mio nonno era diplomatico e, quando è andato in pensione, è andato a vivere a Ginevra. Molti dei miei ricordi erano lì, perché, durante l’Emergenza in India, negli anni 1975-76, mio padre, che faceva il giornalista, è dovuto emigrare in Svizzera. E io ricordo che uno dei posti preferiti in cui andavamo a mangiare era sul lago. In realtà è stata l’idea della storia che mi ha fatto interessare al cibo e non il contrario, perché, soprattutto quando ero più giovane, ero fissata con le diete. Io non cucino cibo francese e perciò questa storia è stata una sfida per me: l’ho scritta nove volte, è stata la prima storia che ho iniziato e l’ultima che ho finito. Per scriverla ho passato molto tempo nelle cucine e nei ristoranti. Per me la storia era sulla vecchiaia, come accettare la vecchiaia. Forse perché ho visto mio padre invecchiare, con il rischio della depressione avvicinandosi ai 60 anni. Sì, sessant’anni non significa essere vecchio adesso, ma una volta sì, una volta non erano molti a raggiungere i sessant’anni e per questo si fa festa.

Mi domandavo se ci siano degli scrittori indiani che scrivono in hindi, oppure se noi conosciamo solo quelli che scrivono in inglese perché è più facile tradurli.
     Non sono molti gli scrittori che scrivono in hindi e sono pochissimi quelli che vengono pubblicati dalle grandi case editrici. Io stessa ho tradotto alcune storie dall’hindi, ma le traduzioni non sono comuni. L’hindi non è una lingua intellettuale, è una lingua di scambio. L’hindi che si trova sui giornali ha una qualità povera di scrittura, è provinciale. In India si parlano talmente tante lingue che l’inglese  si è trasformato da lingua dell’oppressore a lingua franca in cui esprimersi. Mio padre e mia madre parlavano due lingue diverse: lui il maithili e lei il malayalam, anche se lui sapeva parlare un poco anche l’hindi. Tra di loro parlavano in inglese e io ho iniziato a “insegnarmi” l’inglese quando avevo tre anni, per non sentirmi esclusa. Quando la mamma è morta, mio padre ed io abbiamo continuato a parlare in inglese, perché era una maniera per ricordarla. Mio padre avrebbe voluto che frequentassi una scuola hindi a Delhi, ma non ho trovato posto e perciò sono andata alla scuola inglese. Quando ho scritto il mio primo romanzo, l’ho ambientato in Francia perché mi sembrava strano parlare dell’India in inglese. Sono “ritornata” in India con questo secondo libro di racconti.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos


                                                                                              


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