Voci da mondi diversi. Area germanica
FRESCO DI LETTURA
Katja Petrowskaja,
“Forse Esther”
Ed. Adelphi, trad. Ada Vigliani, pagg. 237, Euro 18,00
Titolo originale: Vielleicht
Esther
Una delle grandi sinagoghe di Kiev ospitò
nel dopoguerra un teatro delle marionette, di proprietà statale. Una delle
marionettiste era Dina Proniševa,
che il 29 settembre 1941 era riuscita a salvarsi dalla forra e,
successivamente, si presentò come testimone in molti processi. L’ultimo
capitolo di questa metamorfosi è, ai miei occhi, un teatro di marionette in una
sinagoga dove lavora una sopravvissuta di Babij Jar.
Katja Petrowskaja: un cognome decisamente
russo che ha cancellato lo Stern che
denunciava la matrice ebraica della famiglia, quando il bisnonno aveva lasciato
la Polonia per Kiev. Stern come ‘stella’, e la mente corre alla stella gialla
che i nazisti obbligarono gli ebrei a cucirsi bene in vista, sulla giacca o
sulla manica. Stern come si chiamava il fratello del bisnonno di cui la
scrittrice seguirà le tracce, il Judas Stern che aveva attentato alla vita
dell’ambasciatore tedesco nel 1932 a Mosca. Si chiamava poi Judas o Jehuda? E’
tutto avvolto nella nebbia dell’incertezza il ricordo del passato di cui Katja
Petrowskaja cerca di rimettere insieme i pezzi: era proprio Esther il nome
della bisnonna a cui i tedeschi avevano sparato prima che lei riuscisse ad
arrivare a Babij Jar dove a tutti gli ebrei era stato ordinato di andare?
In
casa ci si rivolgeva sempre a lei come a babuška,
chissà. Che scena penosa e simbolica di sottomissione, quella della fine di
‘forse Esther’, come la raccontava un vicino che aveva visto dalla finestra. Il
portinaio non ne avrebbe denunciato la presenza nello stabile- era così
vecchia, non riusciva neppure a camminare. Ma no, agli ordini si obbedisce, ‘forse
Esther’ era scesa lentamente in strada, non sapeva la direzione, si era rivolta
gentilmente a due ufficiali tedeschi per avere indicazioni. Che seccatura, che
voleva quella vecchia? Uno sparo indifferente l’aveva tolta di mezzo. Va
annoverata ugualmente tra le 33.771 vittime del 29 e 30 settembre 1941? Altre
centomila se ne aggiunsero nei due anni seguenti. Si calcola che il totale
arrivi ai 200.000, se si calcolano anche i 300 prigionieri di guerra a cui
furono fatti riesumare i corpi per bruciarli e che poi, testimoni scomodi,
furono messi a tacere per sempre.
Se
Babij Jar- con il percorso davanti ai dieci memoriali da poco eretti, con i
versi di Evtušenko che
reclamano la non alterità di quei morti, Ogni
vecchio ucciso qui/ io. Ogni bambino ucciso qui/ io- è il centro focale
delle memorie di Katja Petrowskaja, nata a Kiev e da sempre consapevole di
quanto avvenuto nelle forre nei pressi della sua città, le altre tessere del
puzzle ricompongono la storia della sua famiglia, singolare perché erano stati
tutti insegnanti in scuole speciali per sordomuti, come se la propensione
all’insegnamento- e di un tipo così speciale- facesse parte del patrimonio
genetico famigliare. Non è facile per la scrittrice seguire le tracce dei suoi
parenti a quasi settant’anni dalla fine della guerra. Si possono consultare
tutti gli archivi, adesso, ma ugualmente, tante carte sono andate perse, dei
nomi sono cambiati negli spostamenti tra Polonia, Russia, Germania, Austria,
nei ghetti, nei campi, nei gulag. Poi, inaspettatamente, Katja Petrowskaja
ritrova una parente in Tennessee, ha perfino scritto un libro, la sua memoria è
ottima, la donna la mette sulle tracce di altri cugini di cui lei non sapeva
nulla. E’ come l’affiorare di nuove isole dopo un’eruzione sottomarina che ha
sconvolto il paesaggio conosciuto.
C’è poi da affrontare il mistero del nonno
che si pensava morto e che è ricomparso quarant’anni dopo la fine della guerra.
Perché? Perché era tornato a Kiev ma non si era fatto vedere dalla nonna Rosa?
Bisogna andare a Mauthausen per cercare di capire. Vedere le ombre spettrali
che avanzano nella marcia della morte. Come aveva potuto sopravvivere il nonno?
Che cosa gli era successo?
Sembra che il baule della memoria
trabocchi, nel libro “Forse Esther” di Katja Petrowskaja. Sembra che si debba
pigiare i ricordi che ci sono dentro, per farcene stare degli altri, per
trovare spazio per fotografie ingiallite di volti e di strade. E poi, malgrado
gli sforzi, o forse, per fortuna nonostante gli sforzi, le ombre di chi non c’è
più escono fuori, parlano, prendono vita, non vogliono essere dimenticate. Come
la signora biancovestita, bianco calzata, con i capelli bianchi quasi contornati
da un’aureola di luce, che appare a Katja Petrowskaja di fronte alla casa che
doveva essere stata della sua famiglia. Forse Esther.
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