domenica 22 marzo 2015

Katja Petrowskaja, “Forse Esther” ed. 2014

                                                      Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                                        FRESCO DI LETTURA

Katja Petrowskaja, “Forse Esther”
Ed. Adelphi, trad. Ada Vigliani, pagg. 237, Euro 18,00
Titolo originale: Vielleicht Esther


    Una delle grandi sinagoghe di Kiev ospitò nel dopoguerra un teatro delle marionette, di proprietà statale. Una delle marionettiste era Dina Proniševa, che il 29 settembre 1941 era riuscita a salvarsi dalla forra e, successivamente, si presentò come testimone in molti processi. L’ultimo capitolo di questa metamorfosi è, ai miei occhi, un teatro di marionette in una sinagoga dove lavora una sopravvissuta di Babij Jar.


    Katja Petrowskaja: un cognome decisamente russo che ha cancellato  lo Stern che denunciava la matrice ebraica della famiglia, quando il bisnonno aveva lasciato la Polonia per Kiev. Stern come ‘stella’, e la mente corre alla stella gialla che i nazisti obbligarono gli ebrei a cucirsi bene in vista, sulla giacca o sulla manica. Stern come si chiamava il fratello del bisnonno di cui la scrittrice seguirà le tracce, il Judas Stern che aveva attentato alla vita dell’ambasciatore tedesco nel 1932 a Mosca. Si chiamava poi Judas o Jehuda? E’ tutto avvolto nella nebbia dell’incertezza il ricordo del passato di cui Katja Petrowskaja cerca di rimettere insieme i pezzi: era proprio Esther il nome della bisnonna a cui i tedeschi avevano sparato prima che lei riuscisse ad arrivare a Babij Jar dove a tutti gli ebrei era stato ordinato di andare?
In casa ci si rivolgeva sempre a lei come a babuška, chissà. Che scena penosa e simbolica di sottomissione, quella della fine di ‘forse Esther’, come la raccontava un vicino che aveva visto dalla finestra. Il portinaio non ne avrebbe denunciato la presenza nello stabile- era così vecchia, non riusciva neppure a camminare. Ma no, agli ordini si obbedisce, ‘forse Esther’ era scesa lentamente in strada, non sapeva la direzione, si era rivolta gentilmente a due ufficiali tedeschi per avere indicazioni. Che seccatura, che voleva quella vecchia? Uno sparo indifferente l’aveva tolta di mezzo. Va annoverata ugualmente tra le 33.771 vittime del 29 e 30 settembre 1941? Altre centomila se ne aggiunsero nei due anni seguenti. Si calcola che il totale arrivi ai 200.000, se si calcolano anche i 300 prigionieri di guerra a cui furono fatti riesumare i corpi per bruciarli e che poi, testimoni scomodi, furono messi a tacere per sempre.

     Se Babij Jar- con il percorso davanti ai dieci memoriali da poco eretti, con i versi di Evtušenko che reclamano la non alterità di quei morti, Ogni vecchio ucciso qui/ io. Ogni bambino ucciso qui/ io- è il centro focale delle memorie di Katja Petrowskaja, nata a Kiev e da sempre consapevole di quanto avvenuto nelle forre nei pressi della sua città, le altre tessere del puzzle ricompongono la storia della sua famiglia, singolare perché erano stati tutti insegnanti in scuole speciali per sordomuti, come se la propensione all’insegnamento- e di un tipo così speciale- facesse parte del patrimonio genetico famigliare. Non è facile per la scrittrice seguire le tracce dei suoi parenti a quasi settant’anni dalla fine della guerra. Si possono consultare tutti gli archivi, adesso, ma ugualmente, tante carte sono andate perse, dei nomi sono cambiati negli spostamenti tra Polonia, Russia, Germania, Austria, nei ghetti, nei campi, nei gulag. Poi, inaspettatamente, Katja Petrowskaja ritrova una parente in Tennessee, ha perfino scritto un libro, la sua memoria è ottima, la donna la mette sulle tracce di altri cugini di cui lei non sapeva nulla. E’ come l’affiorare di nuove isole dopo un’eruzione sottomarina che ha sconvolto il paesaggio conosciuto.
    C’è poi da affrontare il mistero del nonno che si pensava morto e che è ricomparso quarant’anni dopo la fine della guerra. Perché? Perché era tornato a Kiev ma non si era fatto vedere dalla nonna Rosa? Bisogna andare a Mauthausen per cercare di capire. Vedere le ombre spettrali che avanzano nella marcia della morte. Come aveva potuto sopravvivere il nonno? Che cosa gli era successo?


    Sembra che il baule della memoria trabocchi, nel libro “Forse Esther” di Katja Petrowskaja. Sembra che si debba pigiare i ricordi che ci sono dentro, per farcene stare degli altri, per trovare spazio per fotografie ingiallite di volti e di strade. E poi, malgrado gli sforzi, o forse, per fortuna nonostante gli sforzi, le ombre di chi non c’è più escono fuori, parlano, prendono vita, non vogliono essere dimenticate. Come la signora biancovestita, bianco calzata, con i capelli bianchi quasi contornati da un’aureola di luce, che appare a Katja Petrowskaja di fronte alla casa che doveva essere stata della sua famiglia. Forse Esther. 


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