venerdì 27 febbraio 2015

Roberto Riccardi, “La firma del puparo” ed. 2015

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
                                                                  cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA



Roberto Riccardi, “La firma del puparo”
Ed. e/o, pagg. 199, Euro 16,00

    “Dottore, prima di farmi altre domande sappia che pongo due condizioni. La prima è che proteggiate la mia famiglia”.
   “Come è composta?” s’informò il magistrato.
   “I miei figli, mia moglie e una sua cugina che vive con noi”.
  Gli occhi di Cordero divennero fessure. “E la seconda?”.
  “Chiedo che le indagini e la tutela dei miei cari siano affidate al tenente Rocco Liguori”.

      
   Un altro Rocco, oltre a Rocco Schiavone, sulla scena del romanzo poliziesco/noir/criminale italiano. I due Rocco sono talmente diversi che è impossibile confonderli. Il Rocco Schiavone di Antonio Manzini è il più antipatico simpatico vicequestore che indaga sui delitti commessi ad Aosta infradiciandosi le Clarks che si intestardisce a voler indossare come se vivesse ancora a Roma. Il Rocco Liguori di Roberto Riccardi è un tenente dei Carabinieri così rifulgente nella sua immaginaria armatura, così integerrimo e al di sopra di ogni sospetto, da farci rivalutare l’Arma (lo stesso Roberto Riccardi riveste il grado di colonnello dei Carabinieri, oltre ad essere scrittore e giornalista). Nel romanzo precedente, “Venga pure la fine”, Rocco Liguori veniva chiamato in Olanda, dove un criminale di guerra bosniaco, con cui Rocco aveva intrattenuto una corrispondenza, aveva cercato di suicidarsi. Nel nuovo libro, “La firma del puparo”, un altro carcerato che Rocco conosce molto bene chiede di parlare con lui. Di più. Nino Calabrò è un pentito della ‘ndrangheta e accetta di parlare soltanto se sarà Rocco Liguori personalmente a farsi carico della protezione della sua famiglia che si troverebbe in una condizione di altissimo rischio, non appena Nino incominciasse a parlare, a fare nomi, a sollevare il coperchio del vaso di Pandora.

    Siamo a Palermo, bellissima Palermo, Palermo dannata, con quell’anima scura di mafia, incrocio delle vie di smercio della polvere bianca, ricordi che pesano come piombo di delitti ed agguati, di una lotta senza fine contro l’omertà, di una distorta concezione dell’onore, di una violenza disumana che nulla rispetta, neppure i bambini. Ecco, i bambini. Se Nino parla, se incomincia a rivelare che cosa ci sia dietro la sparizione- avvenuta molti anni prima- del giornalista Michele Sanfilippo il cui corpo non è mai stato ritrovato, se Nino si disonora, le sue colpe ricadranno sui suoi figli. Che cosa questo significhi nel linguaggio della ‘ndrangheta o della ‘ndrina, lo sanno tutti. E Nino tiene moglie e tre figli, l’ultimo è un maschietto, ha pochi mesi, è il suo erede. Bisogna farli andare via dal paese, si dirà in giro che si sono spostati in una città più vicina a quella dove si trova il carcere di Nino, nessuno deve sapere nulla. Perché deve occuparsene Rocco? Perché ai bambini di adesso, la cui vita è in pericolo, si contrappongono i vividi flash sui bambini di un tempo, Rocco e Nino, amichetti improbabili in un paese dell’Aspromonte dove il padre di Rocco era maresciallo dei Carabinieri, compagni di gioco finché i giochi di Nino si erano discostati troppo da quelli dell’infanzia. Ed ora Nino si fida solo di Rocco.

    Rocco e il serio e pacato sostituto procuratore Cordero, l’uditore giudiziario Francesca Mucci che ha appena avuto una delusione d’amore e Vera, il commissario della Omicidi che Rocco ha già incontrato in “Undercover” (e, per chi non lo avesse letto, dei brevi flashback illuminano la loro storia non ancora ‘decollata’), i boss di due famiglie nemiche che si combattono senza esclusione di colpi con crudeltà barbarica, due grandi assenti, il giornalista Sanfilippo e il figlio di uno dei boss, scomparsi quasi contemporaneamente- sono questi i personaggi protagonisti de “La firma del puparo” in una vicenda che si svolge in parte in Sicilia e in parte a Mantova, dove la famiglia Calabrò vive confinata in casa, in grande segretezza. Segretezza non rispettata da una cugina senza cervello che ama troppo flirtare con gli uomini…

    Serratissimo e appassionante, con un personaggio che amiamo e rispettiamo per il suo profondo senso etico, il nuovo libro di Roberto Riccardi si legge velocemente. Anzi, troppo velocemente: capita sovente di pensare che un centinaio di pagine in meno avrebbero giovato ad un romanzo. In questo caso pensiamo il contrario: un centinaio di pagine in più avrebbero dato più spessore al libro che, a tratti, ci pare un poco affrettato.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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