Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Kiran Desai, “Eredi della sconfitta”
Ed. Adelphi, trad. Giuseppina
Oneto, pagg. 378, Euro 19,50
E’ un libro molto amaro, “Eredi della
sconfitta” della giovane scrittrice indiana Kiran Desai, figlia della famosa
Anita Desai. Un’amarezza che traspare da un titolo che parla dell’eredità di
una perdita, come se fosse inevitabile e predestinata, che permea tutte le
pagine di questo romanzo che parla di perdenti, anche quelle che hanno dei
risvolti buffi o ironici.
Sono gli anni ‘80, Indira Gandhi
è stata assassinata da poco, c’è aria di tumulto in quell’area nord occidentale
del Bengala che reclama un nome per sé, Gorkhaland, e l’indipendenza in quanto
abitata da indiani nepalesi. Lì, quasi ai piedi del Kanchenjunga che svetta tra
le nuvole con i suoi 8586
metri di altezza, vive l’anziano giudice Jemubhai Patel
con Sai, la nipote sedicenne, e il cuoco che non ha neppure la dignità di un
nome. Ce l’ha il figlio, però, l’amatissimo Biju che incarna tutte le speranze
del padre e vive in America. L’America che, come appare chiaro in uno dei tanti
esilaranti seppur penosi dialoghi del libro, non è la stessa cosa degli Stati
Uniti: nell’immaginario degli emigranti è l’America, e non gli Stati Uniti, che
è aureolata di dollari verdi, è in America che tutto è possibile, perché c’è
posto per tutti e lavoro per tutti. Anche se chi è rimasto a casa non sa quali
siano le condizioni di lavoro degli immigrati clandestini, disposti a tollerare
qualunque cosa, le sedici ore di lavoro al giorno, il dormire per terra- e
pagando lo spazio per stendersi-, il sentirsi disprezzati e ridotti a
disprezzare se stessi. Con il sogno della green
card. Tutto, pur di non essere rimandati indietro.
E’ la parte più bella del libro, quella
che intesse la storia del cuoco e di suo figlio e che ha il punto culminante in una telefonata di Biju al
padre. La linea è disturbata, uno urla ad una estremità e l’altro risponde
gridando dall’altra, Biju in una cabina telefonica a New York e il cuoco
all’unico telefono pubblico del paese, circondato da curiosi che partecipano
della sua gioia infinita nel sentire la voce del figlio che ha chiamato solo
per accertarsi che lui sia ancora vivo, che stia bene, perché ha sentito dei
disordini a Kalimpong. E a loro due, perdenti quanto il giudice, o quanto altri
personaggi del libro, viene affidato il messaggio finale, quasi una vittoria
nella perdita, nell’abbraccio con cui si stringono- Biju che è tornato per
ritrovare se stesso, che è stato derubato sulla strada del ritorno, figura
miseranda in mutande e un’imprestata camicia da notte a fiori, e suo padre che
è stato appena preso a ciabattate dal giudice che ha sfogato su di lui il dolore
per la perdita del cane.
A questa storia di emigrazione e di ritorno
fa da contrappunto l’altra, del giudice Jemubhai che, prima dell’indipendenza
dell’India, era riuscito ad andare a studiare a Cambridge. In un luogo diverso,
mezzo secolo prima di Biju, Jemubhai aveva sperimentato la stessa emarginazione
dietro le promesse del Raj. Gli indiani erano ammessi nelle università inglesi,
potevano anche farcela ad ottenere un titolo di studio (la legge che stabiliva
il numero di indiani nell’Amministrazione pubblica avrebbe permesso a Jemubhai
di esercitare in India), ma mai, mai sarebbero stati uguali agli inglesi. Mai
gli avrebbero lasciato dimenticare che il colore della loro pelle era diverso,
che puzzavano di curry, che il loro era un accento bastardo. Quando Biju scende
dall’aereo a Calcutta, sente che anche ogni cosa torna al proprio posto; quando
Jemubhai era sbarcato, lo aveva colto il disgusto per le facce, gli odori, la
vita che si era lasciato alle spalle e lo riafferrava. Persino per la moglie
che aveva solo quattordici anni quando l’aveva sposata e di cui si era
dimenticato. Il prezzo di un titolo di studio era stata per Jemubhai la perdita
dell’identità.
E poi c’è la sedicenne Sai, figlia di
emigranti che non hanno fatto ritorno perché morti in un incidente, nipote di
Jemubhai che, pur avvertendo che Sai è “l’unico miracolo” riservatogli dal
destino, le preferisce la cagna Mutt il cui rapimento alla fine lo manda
pateticamente e grottescamente fuori di testa. Sai fornisce l’aggancio con il
filone storico-politico del romanzo, perché si innamora dell’insegnante di
matematica, un nepalese che prende parte alla manifestazione per
l’indipendenza, un altro perdente che non ha il coraggio di andare fino in
fondo, né nel suo amore per Sai né in quello per il suo paese.
“Eredi della sconfitta” è un romanzo
estremamente maturo, colmo di vividi personaggi minori che contribuiscono a
darci il quadro di un paese che non ha ancora smaltito l’influenza della dominazione
britannica (dello scrittore non nominato Naipaul, riconoscibile dal titolo di
un suo romanzo, si dice che “non si è liberato della nevrosi colonialista”),
con un retaggio culturale misto e di difficile amalgama, ora aperto alle
suggestioni e influenze di un altro tipo di colonialismo, di un’altra potenza. E
il linguaggio della Desai ha una ricchezza senza ostentazioni, in una prosa che
ogni tanto, con moderazione, sfiora la poesia. Kiran Desai ci ha regalato un
romanzo a cui si continua a pensare, dopo averne terminato la lettura.
la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos
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