martedì 31 marzo 2015

Kiran Desai, “Eredi della sconfitta” ed. 2007

                                                      Voci da mondi diversi. Asia
  il libro ritrovato


Kiran Desai, “Eredi della sconfitta”
Ed. Adelphi, trad. Giuseppina Oneto, pagg. 378, Euro 19,50

     E’ un libro molto amaro, “Eredi della sconfitta” della giovane scrittrice indiana Kiran Desai, figlia della famosa Anita Desai. Un’amarezza che traspare da un titolo che parla dell’eredità di una perdita, come se fosse inevitabile e predestinata, che permea tutte le pagine di questo romanzo che parla di perdenti, anche quelle che hanno dei risvolti buffi o ironici.
Sono gli anni ‘80, Indira Gandhi è stata assassinata da poco, c’è aria di tumulto in quell’area nord occidentale del Bengala che reclama un nome per sé, Gorkhaland, e l’indipendenza in quanto abitata da indiani nepalesi. Lì, quasi ai piedi del Kanchenjunga che svetta tra le nuvole con i suoi 8586 metri di altezza, vive l’anziano giudice Jemubhai Patel con Sai, la nipote sedicenne, e il cuoco che non ha neppure la dignità di un nome. Ce l’ha il figlio, però, l’amatissimo Biju che incarna tutte le speranze del padre e vive in America. L’America che, come appare chiaro in uno dei tanti esilaranti seppur penosi dialoghi del libro, non è la stessa cosa degli Stati Uniti: nell’immaginario degli emigranti è l’America, e non gli Stati Uniti, che è aureolata di dollari verdi, è in America che tutto è possibile, perché c’è posto per tutti e lavoro per tutti. Anche se chi è rimasto a casa non sa quali siano le condizioni di lavoro degli immigrati clandestini, disposti a tollerare qualunque cosa, le sedici ore di lavoro al giorno, il dormire per terra- e pagando lo spazio per stendersi-, il sentirsi disprezzati e ridotti a disprezzare se stessi. Con il sogno della green card. Tutto, pur di non essere rimandati indietro.

      E’ la parte più bella del libro, quella che intesse la storia del cuoco e di suo figlio e che ha il  punto culminante in una telefonata di Biju al padre. La linea è disturbata, uno urla ad una estremità e l’altro risponde gridando dall’altra, Biju in una cabina telefonica a New York e il cuoco all’unico telefono pubblico del paese, circondato da curiosi che partecipano della sua gioia infinita nel sentire la voce del figlio che ha chiamato solo per accertarsi che lui sia ancora vivo, che stia bene, perché ha sentito dei disordini a Kalimpong. E a loro due, perdenti quanto il giudice, o quanto altri personaggi del libro, viene affidato il messaggio finale, quasi una vittoria nella perdita, nell’abbraccio con cui si stringono- Biju che è tornato per ritrovare se stesso, che è stato derubato sulla strada del ritorno, figura miseranda in mutande e un’imprestata camicia da notte a fiori, e suo padre che è stato appena preso a ciabattate dal giudice che ha sfogato su di lui il dolore per la perdita del cane.

    A questa storia di emigrazione e di ritorno fa da contrappunto l’altra, del giudice Jemubhai che, prima dell’indipendenza dell’India, era riuscito ad andare a studiare a Cambridge. In un luogo diverso, mezzo secolo prima di Biju, Jemubhai aveva sperimentato la stessa emarginazione dietro le promesse del Raj. Gli indiani erano ammessi nelle università inglesi, potevano anche farcela ad ottenere un titolo di studio (la legge che stabiliva il numero di indiani nell’Amministrazione pubblica avrebbe permesso a Jemubhai di esercitare in India), ma mai, mai sarebbero stati uguali agli inglesi. Mai gli avrebbero lasciato dimenticare che il colore della loro pelle era diverso, che puzzavano di curry, che il loro era un accento bastardo. Quando Biju scende dall’aereo a Calcutta, sente che anche ogni cosa torna al proprio posto; quando Jemubhai era sbarcato, lo aveva colto il disgusto per le facce, gli odori, la vita che si era lasciato alle spalle e lo riafferrava. Persino per la moglie che aveva solo quattordici anni quando l’aveva sposata e di cui si era dimenticato. Il prezzo di un titolo di studio era stata per Jemubhai la perdita dell’identità.

      E poi c’è la sedicenne Sai, figlia di emigranti che non hanno fatto ritorno perché morti in un incidente, nipote di Jemubhai che, pur avvertendo che Sai è “l’unico miracolo” riservatogli dal destino, le preferisce la cagna Mutt il cui rapimento alla fine lo manda pateticamente e grottescamente fuori di testa. Sai fornisce l’aggancio con il filone storico-politico del romanzo, perché si innamora dell’insegnante di matematica, un nepalese che prende parte alla manifestazione per l’indipendenza, un altro perdente che non ha il coraggio di andare fino in fondo, né nel suo amore per Sai né in quello per il suo paese.

    “Eredi della sconfitta” è un romanzo estremamente maturo, colmo di vividi personaggi minori che contribuiscono a darci il quadro di un paese che non ha ancora smaltito l’influenza della dominazione britannica (dello scrittore non nominato Naipaul, riconoscibile dal titolo di un suo romanzo, si dice che “non si è liberato della nevrosi colonialista”), con un retaggio culturale misto e di difficile amalgama, ora aperto alle suggestioni e influenze di un altro tipo di colonialismo, di un’altra potenza. E il linguaggio della Desai ha una ricchezza senza ostentazioni, in una prosa che ogni tanto, con moderazione, sfiora la poesia. Kiran Desai ci ha regalato un romanzo a cui si continua a pensare, dopo averne terminato la lettura.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos




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