Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Anita Nair, “Padrona
e amante”
Ed. Neri Pozza, trad. Francesca Diano, pagg. 537, Euro 18,00
Chris Stewart, scrittore di libri di
viaggio, arriva in un villaggio turistico del Kerala, in India, per
intervistare un famoso interprete della danza kathakali. Mentre l’anziano Koman
racconta la storia della sua vita interamente dedicata all’arte, Chris vive una
breve e intensa relazione amorosa con la bella Radha, nipote di Koman e moglie
insoddisfatta di Shyam. Finzione nella vita reale e finzione sul palcoscenico,
passione sessuale e passione per l’arte in una reinterpretazione dei miti
indiani.
INTERVISTA A ANITA NAIR, autrice di “Padrona e amante”
“Nell’arte, vedi, l’individuo non
esiste”, recita l’epigrafe di Oscar Wilde in apertura del romanzo “Padrona e
amante” della scrittrice indiana Anita Nair. E “l’arte è un’amante gelosa” è la
citazione da Waldo Emerson da cui deriva il titolo originale del libro, Mistress. Perché “Padrona e amante” è
una storia d’amore per l’arte- amore assoluto e totale che richiede impegno e
dedizione e annullamento di sé, che non lascia spazio ad altre forme d’amore,
che modella il suo adepto secondo le sue necessità.
Il kathakali di cui si parla nel libro
della Nair è uno stile di danza tipico dell’India del Sud in cui vengono
rappresentate gesta di dei e di eroi, leggende e miti narrati nei maggiori
poemi epici indiani, il Ramayana e il
Mahabharata, che offrono (come i
poemi epici del mondo occidentale) gli archetipi di tutti i comportamenti
umani. Il fascino del romanzo di Anita Nair è in parte dovuto all’esotismo
dell’ambientazione e alla novità di una forma d’arte di cui non sapevamo nulla,
ma soprattutto all’architettura del romanzo stesso, racchiuso in una doppia
cornice che delimita ed esalta le storie raccontate.
Seguendo lo schema di un dramma, un prologo
introduce i quattro personaggi principali, Chris e Koman, Radha e il marito
Shyam, seguono tre libri, come fossero tre atti, chiusi da un epilogo che
tuttavia non è una conclusione, con Rhada che, seduta su una sedia a dondolo,
riflette che ha abbastanza tempo per pensare a quello che vuole fare della sua
vita. Dentro questa prima cornice se ne apre una seconda: ognuno dei tre libri
contiene tre capitoli dedicati alle nove navarasa,
le nove emozioni che il volto deve esprimere nella danza, “i nove volti del
cuore”, l’intera gamma dei sentimenti umani- amore, disprezzo, dolore, ira,
coraggio, paura, disgusto, meraviglia e infine la pace che porta alla serenità
e al distacco dalle cure materiali, quella che Rhada prova alla fine.
Di tutte le storie raccontate che seguono
la falsariga delle navarasa, la più
banale è quella del triangolo amoroso- lo straniero che si innamora
dell’indiana insoddisfatta suscitando la gelosia del marito-, la più complessa e
ricca di suggestioni è quella della famiglia di Koman e di Koman stesso che ci
introduce al kathakali, la danza in cui il veshakaaran
non è un semplice attore che ricopre un ruolo ma è il dio o l’eroe di cui simula le sembianze, la più colorata e
fantastica, cangiante e multiforme, è data dall’insieme delle leggende e dei
miti che rivivono sul palcoscenico.
E, tra i personaggi, quello per cui finiamo
per provare più simpatia è proprio Shyam, il marito cornuto che ha sempre
sofferto di un complesso di inferiorità, che, con il suo senso pratico e
l’occhio attento ai desideri dei turisti, si sente rozzo e inadeguato di fronte
alla moglie e allo zio danzatore, frustrato nella consapevolezza della sua
sterilità. E tuttavia così umano e generoso e “amante” nella sua fallibilità.
Al paragone appare scialbo lo straniero Chris che aveva anche un altro motivo
per venire a conoscere Koman, e leggermente irritante l’irrequieta Radha che ha
qualcosa di Emma Bovary e qualcosa di Candida e qualcosa della Nora di Ibsen.
Stilos ha parlato con Anita Nair.
“Padrona e amante” è un romanzo molto ricco, è come se contenesse un
secondo romanzo. Qual è stata la prima idea quando ha iniziato a scrivere?
Voleva scrivere un romanzo sulla devozione all’arte o sapeva già che avrebbe
scritto di un danzatore di kathakali? o voleva raccontare i miti e le leggende
della cultura indiana?
Quale storia volevo raccontare? Forse è
meglio che spieghi come è nato questo romanzo. Nel 2001 lavoravo per un’agenzia
di pubblicità e, arrivando al lavoro una mattina, ho visto nella sala di
ingresso un danzatore di kathakali che si muoveva facendo i gesti della danza,
vestito con un costume sontuoso. I miei colleghi lo guardavano ridacchiando, lo
vedevano come qualcuno di ridicolo, una parodia. Quando il danzatore andò via,
sfiorando i montanti delle scale con l’ampio abito, mi hanno detto che era
stato convocato per girare una pubblicità: ecco, questo era lo sminuimento
dell’arte, e ne restai molto turbata.
Ho iniziato a pensare che cosa dovesse fare
un artista, quali e quanti compromessi dovesse accettare. L’arte deve dare
soddisfazione, ma l’artista deve anche vivere. Non si può incolpare l’artista
per scendere a compromessi, è la società che deve essere incolpata. Il pensiero
mi tormentava: che cosa può fare un artista per salvare la sua anima? Non
sapevo niente del kathakali, prima di scriverne dovevo fare delle ricerche. E
fare delle ricerche acquistò per me il significato di tutelare, in qualche
maniera, l’arte. Diventava valido anche per me quello che è vero per l’artista
serio: tutto passa in secondo piano per dedicarsi all’arte. Avrei dovuto
lasciare la famiglia per qualche mese per fare le ricerche, ma io volevo
scrivere che cosa fa l’arte ad un artista, che cosa vuol dire dedicarsi a
qualcosa con tutto se stesso e quel qualcosa diventa la cosa più importante. E
poi, siccome sono una narratrice di storie, si sono aggiunte le altre storie
contenute nel libro.
Quanto è apprezzata la danza kathakali oggi? E’ un’arte ancora
praticata? Ha un vasto pubblico?
Sì, si danza ancora il kathakali ma è
un’arte che è raramente apprezzata, il pubblico è sempre più ristretto, almeno
per quello che riguarda il kathakali di qualità. C’è poi un kathakali per
turisti che sono in cerca di colore e di ricordi da portare a casa. E’ un’arte
difficile, molto esigente non solo nei confronti del danzatore, richiede uno
sforzo di comprensione anche da parte del pubblico- si può paragonare
all’opera, in opposizione al musical.
La donna con cui Koman ha una relazione, Angela, è una danzatrice, ma
viene detto che è un’eccezione: c’è una norma che proibisce la danza alle
donne?
Infatti, il kathakali non è permesso alle
donne. L’Istituto per le Ricerche ha accettato alcune studentesse straniere,
proprio perché si sa che frequenteranno per un breve periodo ed è impossibile
che acquisiscano l’arte, ci vogliono almeno otto anni per diventare un
danzatore di kathakali. Tutte le studentesse fanno qualcos’altro e frequentano
il corso per aggiungere qualcosa al loro repertorio- ricordo ad esempio una
ragazza messicana che studiava teatro. Io sono stata la prima donna indiana
nella storia dell’organizzazione ad essere ammessa a frequentare un corso
breve, con un permesso speciale.
D’altra parte il kathakali è una danza molto
rigorosa, ci vuole una certa forza fisica per recitare, perché la forma e la
misura stessa dei vestiti esigono uno sforzo nella gestualità. Inoltre il
kathakali viene eseguito nei templi e alle donne non è permesso entrare nei
templi nei giorni del ciclo. E ancora: le rappresentazioni si fanno di notte,
durano fino alle 4 del mattino ed è un orario che non si addice alle donne.
Possono andare ad assistere perché sono accompagnate dalla famiglia, oppure, se
appartengono a famiglie ricche, le rappresentazioni hanno luogo dentro le loro
case.
Il padre di Koman ha una visione dell’arte e dell’artista diversa dal
figlio. Secondo Sethu, essere un artista significa non poter essere se stesso.
C’è qualcosa di vero in questo.
E’ vero che si rinuncia ad essere se stessi
perché si recita sempre, e questa è l’incompletezza dell’artista come uomo,
incapace di godere di un’emozione senza domandarsi come usarla sul
palcoscenico. In un certo senso gli artisti sono degli esseri umani incompleti.
E’ il prezzo da pagare per l’arte. Come avviene ad un pittore. Se vede volare
un martin pescatore, un pittore ne ammira il blu del piumaggio, il volo, pensa
a come rappresentarlo e non gode il momento.
E d’altra parte c’è qualcosa di grandioso nella vocazione di Koman: la
dedizione all’arte è come un sacerdozio?
E’ proprio come un sacerdozio: nella vita
dell’artista c’è posto solo per una persona, che è l’arte. E questa è anche una
colpa con cui deve convivere: vorresti una famiglia, moglie e figli, ma sai che
non ti farebbero sentire realizzato. Questo è quello che prova un artista
serio, se invece accetta il compromesso, la sua arte ne risente.
Una delle storie d’amore è una storia di amanti dal destino avverso,
come Giulietta e Romeo, perché Sethu è indù e Sadiya è musulmana: rappresentano la complessità
dell’India?
La storia d’amore di Sethu e Sadiya è lo strumento per spiegare come è
Koman: se Koman avesse avuto un’infanzia normale, non sarebbe così imperativo
per lui trovare se stesso. E lui è se stesso solo mentre recita. C’è poi un
secondo motivo: volevo raccontare la storia di Sethu e Sadiya in modo che si
capisse che cosa va male nei matrimoni misti. Dapprima è tutto molto romantico
e bello, poi hai bisogno della famiglia e non è più vicino a te: le donne,
forse soprattutto in India, sentono la mancanza della famiglia che le sostenga.
Essere senza famiglia è come essere orfani. Volevo che fosse Koman a raccontare
la storia a Radha che sta vivendo la sua storia d’amore con lo straniero, per
metterla sull’avviso, come a dirle, ‘sei preparata alle difficoltà che ti si
presenteranno? Sai come affrontarle?’ La storia di Koman è come una morality
tale.
La storia del triangolo amoroso ci pare a volte superflua: perché ne
aveva bisogno per la trama?
Il triangolo amoroso mi serviva per dare un
pretesto a Koman per raccontare. Avevo bisogno di un estraneo che arrivasse sul
posto per sapere del kathakali e volevo parlare di questa forma d’arte perché
non ha più spazio nella nostra società. Una volta le grandi famiglie proteggevano
l’arte, adesso ci sono gli sponsor che usano l’arte a fini pubblicitari. Avevo
bisogno di un contesto moderno, con Shyam che è la voce del popolo per cui la
danza è uno spettacolo, un intrattenimento serale e non una forma d’arte. Non
avevo intenzione di scrivere una storia d’amore, poi ho scoperto che mi
piaceva: mi piaceva cercare di immaginare che cosa volesse dire innamorarsi a
sedici anni, come avviene a Sethu e Sadiya, o averne trentadue come Radha, ed
essere infelicemente sposata.
C’è un personaggio che preferisce? Noi lettori finiamo per provare
molta simpatia per Shyam alla fine, mentre sentiamo una certa avversione per
Chris…
Shyam è certamente anche il mio personaggio preferito: all’inizio è così
pieno di sé, ma è l’unico che non deve redimersi. Shyam è quello che è e ha una
capacità di perdono maggiore di quella degli altri. E sì, Chris è egoista, non
aveva intenzione di rompere un matrimonio, ma sa bene che non c’è futuro nella
sua storia con Rhada e non ha mai neppure pensato ad un futuro: Chris vive solo
nel presente.
E abbiamo anche sentimenti ambigui nei confronti di Rhada: che tipo di
donna è Radha?
Rhada è la tipica donna indiana: vorrebbe
avere più forza, ma tutti i suoi desideri sono soffocati dal marito. E’ presa
fra due estremi: da una parte è una donna libera che ha un’avventura
extraconiugale, dall’altra è ancora come sua madre che si lascia dettare la sua
vita dalla società. L’avventura è una maniera per dare una sferzata alla sua
vita, per uscire dal grigiore, per sentirsi viva e poter poi tornare a quel
grigiore con una nuova vitalità.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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