sabato 21 marzo 2015

Anita Nair, “Padrona e amante” ed. 2006

                                                           Voci da mondi diversi. Asia
         il libro ritrovato



Anita Nair, “Padrona e amante”
Ed. Neri Pozza, trad. Francesca Diano, pagg. 537, Euro 18,00
  
      Chris Stewart, scrittore di libri di viaggio, arriva in un villaggio turistico del Kerala, in India, per intervistare un famoso interprete della danza kathakali. Mentre l’anziano Koman racconta la storia della sua vita interamente dedicata all’arte, Chris vive una breve e intensa relazione amorosa con la bella Radha, nipote di Koman e moglie insoddisfatta di Shyam. Finzione nella vita reale e finzione sul palcoscenico, passione sessuale e passione per l’arte in una reinterpretazione dei miti indiani.


INTERVISTA A ANITA NAIR, autrice di “Padrona e amante”

   “Nell’arte, vedi, l’individuo non esiste”, recita l’epigrafe di Oscar Wilde in apertura del romanzo “Padrona e amante” della scrittrice indiana Anita Nair. E “l’arte è un’amante gelosa” è la citazione da Waldo Emerson da cui deriva il titolo originale del libro, Mistress. Perché “Padrona e amante” è una storia d’amore per l’arte- amore assoluto e totale che richiede impegno e dedizione e annullamento di sé, che non lascia spazio ad altre forme d’amore, che modella il suo adepto secondo le sue necessità.
     Il kathakali di cui si parla nel libro della Nair è uno stile di danza tipico dell’India del Sud in cui vengono rappresentate gesta di dei e di eroi, leggende e miti narrati nei maggiori poemi epici indiani, il Ramayana e il Mahabharata, che offrono (come i poemi epici del mondo occidentale) gli archetipi di tutti i comportamenti umani. Il fascino del romanzo di Anita Nair è in parte dovuto all’esotismo dell’ambientazione e alla novità di una forma d’arte di cui non sapevamo nulla, ma soprattutto all’architettura del romanzo stesso, racchiuso in una doppia cornice che delimita ed esalta le storie raccontate.

    Seguendo lo schema di un dramma, un prologo introduce i quattro personaggi principali, Chris e Koman, Radha e il marito Shyam, seguono tre libri, come fossero tre atti, chiusi da un epilogo che tuttavia non è una conclusione, con Rhada che, seduta su una sedia a dondolo, riflette che ha abbastanza tempo per pensare a quello che vuole fare della sua vita. Dentro questa prima cornice se ne apre una seconda: ognuno dei tre libri contiene tre capitoli dedicati alle nove navarasa, le nove emozioni che il volto deve esprimere nella danza, “i nove volti del cuore”, l’intera gamma dei sentimenti umani- amore, disprezzo, dolore, ira, coraggio, paura, disgusto, meraviglia e infine la pace che porta alla serenità e al distacco dalle cure materiali, quella che Rhada prova alla fine.
    Di tutte le storie raccontate che seguono la falsariga delle navarasa, la più banale è quella del triangolo amoroso- lo straniero che si innamora dell’indiana insoddisfatta suscitando la gelosia del marito-, la più complessa e ricca di suggestioni è quella della famiglia di Koman e di Koman stesso che ci introduce al kathakali, la danza in cui il veshakaaran non è un semplice attore che ricopre un ruolo ma è il dio o l’eroe di cui simula le sembianze, la più colorata e fantastica, cangiante e multiforme, è data dall’insieme delle leggende e dei miti che rivivono sul palcoscenico.
E, tra i personaggi, quello per cui finiamo per provare più simpatia è proprio Shyam, il marito cornuto che ha sempre sofferto di un complesso di inferiorità, che, con il suo senso pratico e l’occhio attento ai desideri dei turisti, si sente rozzo e inadeguato di fronte alla moglie e allo zio danzatore, frustrato nella consapevolezza della sua sterilità. E tuttavia così umano e generoso e “amante” nella sua fallibilità. Al paragone appare scialbo lo straniero Chris che aveva anche un altro motivo per venire a conoscere Koman, e leggermente irritante l’irrequieta Radha che ha qualcosa di Emma Bovary e qualcosa di Candida e qualcosa della Nora di Ibsen. Stilos ha parlato con Anita Nair.


 “Padrona e amante” è un romanzo molto ricco, è come se contenesse un secondo romanzo. Qual è stata la prima idea quando ha iniziato a scrivere? Voleva scrivere un romanzo sulla devozione all’arte o sapeva già che avrebbe scritto di un danzatore di kathakali? o voleva raccontare i miti e le leggende della cultura indiana?
    Quale storia volevo raccontare? Forse è meglio che spieghi come è nato questo romanzo. Nel 2001 lavoravo per un’agenzia di pubblicità e, arrivando al lavoro una mattina, ho visto nella sala di ingresso un danzatore di kathakali che si muoveva facendo i gesti della danza, vestito con un costume sontuoso. I miei colleghi lo guardavano ridacchiando, lo vedevano come qualcuno di ridicolo, una parodia. Quando il danzatore andò via, sfiorando i montanti delle scale con l’ampio abito, mi hanno detto che era stato convocato per girare una pubblicità: ecco, questo era lo sminuimento dell’arte, e ne restai molto turbata.
Ho iniziato a pensare che cosa dovesse fare un artista, quali e quanti compromessi dovesse accettare. L’arte deve dare soddisfazione, ma l’artista deve anche vivere. Non si può incolpare l’artista per scendere a compromessi, è la società che deve essere incolpata. Il pensiero mi tormentava: che cosa può fare un artista per salvare la sua anima? Non sapevo niente del kathakali, prima di scriverne dovevo fare delle ricerche. E fare delle ricerche acquistò per me il significato di tutelare, in qualche maniera, l’arte. Diventava valido anche per me quello che è vero per l’artista serio: tutto passa in secondo piano per dedicarsi all’arte. Avrei dovuto lasciare la famiglia per qualche mese per fare le ricerche, ma io volevo scrivere che cosa fa l’arte ad un artista, che cosa vuol dire dedicarsi a qualcosa con tutto se stesso e quel qualcosa diventa la cosa più importante. E poi, siccome sono una narratrice di storie, si sono aggiunte le altre storie contenute nel libro.

Quanto è apprezzata la danza kathakali oggi? E’ un’arte ancora praticata? Ha un vasto pubblico?
    Sì, si danza ancora il kathakali ma è un’arte che è raramente apprezzata, il pubblico è sempre più ristretto, almeno per quello che riguarda il kathakali di qualità. C’è poi un kathakali per turisti che sono in cerca di colore e di ricordi da portare a casa. E’ un’arte difficile, molto esigente non solo nei confronti del danzatore, richiede uno sforzo di comprensione anche da parte del pubblico- si può paragonare all’opera, in opposizione al musical.

La donna con cui Koman ha una relazione, Angela, è una danzatrice, ma viene detto che è un’eccezione: c’è una norma che proibisce la danza alle donne?
    Infatti, il kathakali non è permesso alle donne. L’Istituto per le Ricerche ha accettato alcune studentesse straniere, proprio perché si sa che frequenteranno per un breve periodo ed è impossibile che acquisiscano l’arte, ci vogliono almeno otto anni per diventare un danzatore di kathakali. Tutte le studentesse fanno qualcos’altro e frequentano il corso per aggiungere qualcosa al loro repertorio- ricordo ad esempio una ragazza messicana che studiava teatro. Io sono stata la prima donna indiana nella storia dell’organizzazione ad essere ammessa a frequentare un corso breve, con un permesso speciale.
D’altra parte il kathakali è una danza molto rigorosa, ci vuole una certa forza fisica per recitare, perché la forma e la misura stessa dei vestiti esigono uno sforzo nella gestualità. Inoltre il kathakali viene eseguito nei templi e alle donne non è permesso entrare nei templi nei giorni del ciclo. E ancora: le rappresentazioni si fanno di notte, durano fino alle 4 del mattino ed è un orario che non si addice alle donne. Possono andare ad assistere perché sono accompagnate dalla famiglia, oppure, se appartengono a famiglie ricche, le rappresentazioni hanno luogo dentro le loro case.

Il padre di Koman ha una visione dell’arte e dell’artista diversa dal figlio. Secondo Sethu, essere un artista significa non poter essere se stesso. C’è qualcosa di vero in questo.
    E’ vero che si rinuncia ad essere se stessi perché si recita sempre, e questa è l’incompletezza dell’artista come uomo, incapace di godere di un’emozione senza domandarsi come usarla sul palcoscenico. In un certo senso gli artisti sono degli esseri umani incompleti. E’ il prezzo da pagare per l’arte. Come avviene ad un pittore. Se vede volare un martin pescatore, un pittore ne ammira il blu del piumaggio, il volo, pensa a come rappresentarlo e non gode il momento.

E d’altra parte c’è qualcosa di grandioso nella vocazione di Koman: la dedizione all’arte è come un sacerdozio?
    E’ proprio come un sacerdozio: nella vita dell’artista c’è posto solo per una persona, che è l’arte. E questa è anche una colpa con cui deve convivere: vorresti una famiglia, moglie e figli, ma sai che non ti farebbero sentire realizzato. Questo è quello che prova un artista serio, se invece accetta il compromesso, la sua arte ne risente.


Una delle storie d’amore è una storia di amanti dal destino avverso, come Giulietta e Romeo, perché Sethu è indù e Sadiya  è musulmana: rappresentano la complessità dell’India?
   La storia d’amore di Sethu e Sadiya è lo strumento per spiegare come è Koman: se Koman avesse avuto un’infanzia normale, non sarebbe così imperativo per lui trovare se stesso. E lui è se stesso solo mentre recita. C’è poi un secondo motivo: volevo raccontare la storia di Sethu e Sadiya in modo che si capisse che cosa va male nei matrimoni misti. Dapprima è tutto molto romantico e bello, poi hai bisogno della famiglia e non è più vicino a te: le donne, forse soprattutto in India, sentono la mancanza della famiglia che le sostenga. Essere senza famiglia è come essere orfani. Volevo che fosse Koman a raccontare la storia a Radha che sta vivendo la sua storia d’amore con lo straniero, per metterla sull’avviso, come a dirle, ‘sei preparata alle difficoltà che ti si presenteranno? Sai come affrontarle?’ La storia di Koman è come una morality  tale.

La storia del triangolo amoroso ci pare a volte superflua: perché ne aveva bisogno per la trama?
    Il triangolo amoroso mi serviva per dare un pretesto a Koman per raccontare. Avevo bisogno di un estraneo che arrivasse sul posto per sapere del kathakali e volevo parlare di questa forma d’arte perché non ha più spazio nella nostra società. Una volta le grandi famiglie proteggevano l’arte, adesso ci sono gli sponsor che usano l’arte a fini pubblicitari. Avevo bisogno di un contesto moderno, con Shyam che è la voce del popolo per cui la danza è uno spettacolo, un intrattenimento serale e non una forma d’arte. Non avevo intenzione di scrivere una storia d’amore, poi ho scoperto che mi piaceva: mi piaceva cercare di immaginare che cosa volesse dire innamorarsi a sedici anni, come avviene a Sethu e Sadiya, o averne trentadue come Radha, ed essere infelicemente sposata.

C’è un personaggio che preferisce? Noi lettori finiamo per provare molta simpatia per Shyam alla fine, mentre sentiamo una certa avversione per Chris…
   Shyam è certamente anche il mio personaggio preferito: all’inizio è così pieno di sé, ma è l’unico che non deve redimersi. Shyam è quello che è e ha una capacità di perdono maggiore di quella degli altri. E sì, Chris è egoista, non aveva intenzione di rompere un matrimonio, ma sa bene che non c’è futuro nella sua storia con Rhada e non ha mai neppure pensato ad un futuro: Chris vive solo nel presente.

E abbiamo anche sentimenti ambigui nei confronti di Rhada: che tipo di donna è Radha?
    Rhada è la tipica donna indiana: vorrebbe avere più forza, ma tutti i suoi desideri sono soffocati dal marito. E’ presa fra due estremi: da una parte è una donna libera che ha un’avventura extraconiugale, dall’altra è ancora come sua madre che si lascia dettare la sua vita dalla società. L’avventura è una maniera per dare una sferzata alla sua vita, per uscire dal grigiore, per sentirsi viva e poter poi tornare a quel grigiore con una nuova vitalità.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                     

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