Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Lavanya Sankaran, “Il tappeto rosso”
Ed. Marcos y Marcos, trad. Gioia
Guerzoni, pagg. 219, Euro 14,00
Otto storie, otto frammenti di
vita a Bangalore, crocevia di passato e presente, di cultura tradizionale e
contemporanea. Ramu, non più giovanissimo, decide di affidare alla madre il
compito di trovargli una moglie; il signor D’Costa si preoccupa quando vede un
cambiamento nella vita quotidiana della giovane coppia che abita vicino a lui;
Sita, esperta analista finanziaria, si vede rubare un progetto prestigioso (da
Ramu); due amici, che hanno studiato insieme e insieme hanno fatto l’esperienza
americana per poi tornare in India, prendono strade diverse…
INTERVISTA A LAVANYA SANKARAN, autrice de “Il tappeto rosso”
Si permetta il gioco di parole- entra su
un tappeto rosso nel mondo della letteratura, la scrittrice indiana Lavanya
Sankaran, con la sua prima opera narrativa, “Il tappeto rosso”. Storie di Bangalore, dice il
sottotitolo, perché il libro non è un romanzo, ma una raccolta di otto storie. Sono
storie, non racconti, quelle che compongono “Il tappeto rosso”, come brevi
filmati con la cinepresa che riprende la vita di questo o di quello, e poi
unisce gli spezzoni a formare il quadro di una città, Bangalore, nel sud
dell’India. E Lavanya Sankaran riesce ad aggirare l’ostacolo che rende i
racconti- o le storie brevi- un genere non molto amato dai lettori, perché i
protagonisti delle vicende cambiano, ma alcuni di loro si riaffacciano in altre
scene, fanno capolino o passano veloci sullo sfondo di altre storie, con un
ruolo che non è più di primo piano ma che contribuisce a dare pienezza al suo
carattere. A farci pensare, ‘oh, eccolo di nuovo, questo lo conosciamo già,
vediamo come si comporta adesso.’ Ed è come un sottile filo d’Arianna che ci
guida, ci stuzzica, ci incuriosisce.
“Questa è l’India…un paese che divide, un
miscuglio esasperante di antichi valori e cultura pop moderna, di profonda
saggezza e ignoranza totale”- è la riflessione di Priya, la ragazza che torna
in India per scoprire le sue origini. E’ americana, Priya, perché è nata e
cresciuta a Chicago? O è indiana perché i suoi genitori sono indiani? Ci sono
delle sigle per indicare quelli come Priya o suo padre e sua madre. Questi
ultimi sono FOB, fresh off the boat,
appena sbarcati in America, stranieri anche se sono passati trent’anni dal loro
arrivo. Priya, invece, è una ABCD, American
Born Confused Desi, una dei tanti indiani disorientati nati in America. Che
ritornano in India per capire se stessi, a quale luogo appartengano. E tutto è
talmente cambiato dal tempo in cui la generazione precedente viveva lì e
sentiva di non avere altra scelta che andarsene. Ecco, la parola “scelta”,
insieme a “modernità”, è la chiave per comprendere la svolta dell’India. Tutto
quello che un tempo era impensabile poter fare, le mete che era impossibile
raggiungere- carriera, innovazione, successo, libertà personale- adesso è lì, a
portata di mano. O di mente, senza dover compiere scelte. Si può avere questo e
quello, la tradizione e la modernità. Il sari e i jeans attillati. Il risciò
che per fortuna riesce a portare a tempo la donna che sta per partorire in
ospedale e l’auto sportiva.
E se, nella scuola elitaria frequentata da Tara, il
modello era quello inglese e sembrava che le studentesse studiassero per
parlare con accento perfetto e inchinarsi con grazia davanti alla regina
d’Inghilterra, ora si guarda all’America e la cultura non è più quella dei
classici inglesi- o, almeno, non solo quella, perché è accostata dalla
conoscenza necessaria di informatica e nuove tecnologie. Le donne sono quelle
che, nella nuova India piena di contrasti, portano alla luce i cambiamenti
maggiori. Guardate dagli uomini con lieve perplessità, uno sguardo incerto tra
l’ammirazione e il rimpianto per l’immagine femminile della tradizione, con gli
occhi bassi, i capelli lucidi di olio e il corpo nascosto nei drappeggi della
seta. Come l’autista Rangappa, che stenderebbe un tappeto rosso sotto i piedi
della signora che venera e di cui è a servizio, ma che si preoccupa quando la
vede assumere atteggiamenti troppo modernamente sfacciati o indossare abiti
troppo provocanti. D’altra parte Tara stessa, che avevamo visto studentessa
irriverente e ribelle che stupiva le amiche con i discorsi sul sesso nella
storia “Due quattro sei otto”, ritorna con un PhD americano in “Cip-cip
gnam-gnam”, ventisettenne decisa a fare della carriera la sua priorità, per poi
guardare incantata il suo riflesso nello specchio: si è provata il rosso sari
nuziale della madre,
Sapeva il lettore che Bangalore ospita il
primo Istituto del Fumetto esistito in India, che vanta pure il primo
rivenditore online in India, il primo oxygen bar e il più grande negozio di
vini e formaggi? Lo scoprirà mentre segue le tracce dei personaggi della
Sankaran in questa città che ha il complesso di essere lontana dai centri
famosi come Bombay e Delhi e che finisce per essere la vera protagonista del
libro. Abbiamo parlato con Lavanya Sankaran del suo libro e della nuova India.
Tutti sanno che i racconti, o le short stories, sono il genere più
difficile, difficile da scrivere e difficile da essere apprezzato dai lettori.
Ha scelto una maniera splendida per restare a metà strada tra il romanzo e il
racconto, facendo riapparire alcuni personaggi. Perché ha scelto di non
scrivere un romanzo e di collegare le storie in questo modo?
Perché scrivendo racconti volevo catturare
il paesaggio, il mondo intorno a me. I racconti mi permettevano di guardare il
mondo da angoli diversi. Ci sono otto storie nel libro e sono otto diversi
approcci. Sono collegati tra di loro perché in questo modo riuscivo a dare la
sensazione che quello che raccontavo stesse accadendo nello stesso tempo:
volevo che il libro catturasse un certo luogo in un certo tempo.
Nel libro Bangalore è rappresentata spesso in contrasto con Bombay e
con Delhi: ogni città è diversa dalle altre, ma in quale maniera Bangalore è
differente da Bombay e Delhi?
Sono città molto diverse. Prendendo come metro di paragone delle città
americane, direi che Bombay è come New York con un poco di Hollywood; Delhi è
come Washington e Bangalore è come San Francisco. Bangalore è nello stesso
tempo una città di successo- perché sta lasciando un segno nel mondo per le
tecnologie dell’informazione e le altre industrie che stanno fiorendo- e una
città rilassata, dove la vita è più semplice: non si costruisce così in grande
come a Bombay, la gente non si compra auto così potenti, anche se ne ha i
mezzi. Se c’è una parola per definire la vita a Bangalore, è ‘semplicità’.
Bombay |
Sì, penso di sì. Adesso se scegli di vivere
altrove e restare lontano dall’India è perché preferisci proprio vivere in un
altro posto. Ma se hai una buona istruzione, adesso puoi scegliere di vivere in
India.
Le è stato difficile riadattarsi alla vita in India, tornando
dall’America?
Un poco: erano gli anni ‘90,
allora nessuno ritornava in India. In America gli amici mi chiedevano se fossi
pazza, ma io avevo sempre pensato che sarei tornata. Mi era piaciuta la vita
negli Stati Uniti, gli anni all’università sono stati straordinari, ma
avvertivo forte la spinta di tornare a casa. E sì, sapevo di correre un rischio
nel tornare, ma mi ero anche ripromessa che, se non funzionava, sarei tornata
in America. Sono ancora in India: vuol dire che ha funzionato.
E come ha trovato la città, quando è tornata a Bangalore?
Bangalore è sempre stata
una città tranquilla; sono stata via per sei anni: sono partita che ero poco
più che una bambina e sono tornata che ero un’adulta. L’ho lasciata che era una
città affascinante ma senza un futuro, l’ho ritrovata che stava già cambiando.
Ed è stato tutto così rapido; all’improvviso c’era molta gente che tornava dopo
aver studiato all’estero, c’era una grande offerta di lavori di qualità
internazionali.
Ha fatto studi di Economia: che cosa l’ha portata a diventare una
scrittrice?
Sì, ho studiato Economia
e Scienze Politiche, ma la realtà è che ho sempre scritto. Sono stata una
lettrice vorace e ho scritto fin da quando ho memoria. Era una scrittura
privata, per me stessa; questo è il primo libro che viene pubblicato.
Sono cambiati in maniera uguale, gli uomini e le donne in India? Perché
nel suo libro sembra che siano le donne quelle che hanno fatto un cambiamento
maggiore.
Le circostanze stesse
della vita femminile hanno fatto sì che il cambiamento sia maggiore. In realtà
è successo che c’è stata una vera e propria esplosione delle opportunità di
lavoro: tutti quelli che hanno un’istruzione trovano lavoro. Una volta non era
raro che un laureato facesse il cameriere, ma adesso c’è un’enorme richiesta di
laureati, uomini e donne, senza distinzione. Certo, per le donne si tratta di
combinare le nuove opportunità con la tradizione: una donna indiana non
trascurerebbe mai la famiglia.
Tradizione e modernità, è sempre difficile mantenere un equilibrio tra
di loro. Vede il pericolo che vada smarrito tutto quello che è affascinante
della tradizione indiana sotto l’influenza americana che si diffonde ovunque?
Gli indiani sono
ossessionati dalla spiritualità. E stranamente, con il migliorare delle
condizioni economiche, anche le classi medie e medio-alte ritornano alle radici
spirituali che sono l’essenza della tradizione indiana. La spiritualità è il
cuore dell’India: non è pura religione ma una ricerca del senso di chi tu sia.
La spiritualità della nostra tradizione è un viaggio spirituale- e no, non temo
che vada persa.
Nel libro non troviamo quasi riferimento al sistema di caste: è
scomparso ovunque?
No, non è scomparso
ovunque, ma nel contesto moderno è meno importante. Ritorna ad essere di
qualche rilievo per i matrimoni: ci si sposa nella propria comunità, anche se
sta diventando sempre più comune sposarsi tra caste diverse e diverse
religioni.
A proposito di religione: è fonte di contrasti in India?
In India il 70% delle
persone sono di religione indù, il 20% sono musulmani e l’8 o il 9% sono
cristiani. Sono 5000 anni che la religione indù viene praticata in India, il
cristianesimo c’è da 2000 anni e l’Islam da 1400: hanno avuto molto tempo per
integrarsi. A Bangalore si trova di tutto: indù, cristiani, musulmani, atei…C’è
posto per tutti, anche per i non religiosi. E no, non c’è niente di
paragonabile al Pakistan, dove i dissidi religiosi vengono molto politicizzati.
E la lingua? A volte, leggendo scrittori indiani, ci dimentichiamo che
l’India non è un paese di lingua inglese. In una delle storie, quella dell’autista,
si dice che i servitori storpiano la pronuncia di “Madam”, dicendo “May-dum”.
Che lingua parlano i personaggi del libro? Che lingua si insegna nelle scuole?
In India ci sono 22
lingue ufficiali e 500 lingue in tutto, incluso i dialetti. L’inglese è la
lingua del commercio, la lingua delle persone istruite che la parlano anche nei
rapporti personali. La maggior parte degli indiani conosce tre lingue e spesso
le usa mischiandole, mentre parla. Anche la pubblicità mescola le lingue: si
può vedere in strada la pubblicità in un misto di inglese, kannada – che è la
lingua che si parla a Bangalore- e hindi. Le scuole governative insegnano la
lingua che si parla localmente come prima lingua e l’inglese come seconda,
mentre le scuole private insegnano l’inglese come prima lingua. E i miei
personaggi parlano in inglese, o mischiando l’inglese con il kannada.
Ci può dire qualcosa sul nuovo libro che sta scrivendo? Almeno se è un
romanzo, quando è ambientato e dove?
Non vorrei dire nulla.
Dirò solo che sì, è un romanzo, ambientato a Bangalore nei tempi moderni
M. Piccone
recensione e intervista sono stati pubblicati su "Il Sottoscritto"
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