Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
FRESCO DI LETTURA
Ayana Mathis, “Le dodici tribù di Hattie”
Ed. Einaudi, trad. Giovanna
Scocchera, pagg. 282, Euro 21,00
Titolo originale: The Twelve Tribes of Hattie
La
cosa giusta da fare era insultarla o prenderla a schiaffi o sbatterla fuori di
casa a notte fonda. Aveva lasciato lui e tutti i loro figli. Teneva in braccio
la figlia di un altro uomo. Chiunque avrebbe convenuto che doveva farle
qualcosa di terribile, ma era stata via quindici ore, e in quelle quindici ore
la vita di August si era sgretolata come una zolla di terra arida.
Impossibile non sentire il richiamo biblico
nel titolo “Le dodici tribù di Hattie”. Impossibile non pensare alle dodici
tribù di Israele. La Bibbia dice: Poi
Giacobbe chiamò i suoi figli e disse: “Radunatevi perché io vi annunci ciò che
vi accadrà nei giorni a venire. Radunatevi e ascoltate, o figli di Giacobbe!”
Giacobbe prosegue predicendo quello che accadrà a ciascuno di loro e nel
romanzo di Ayana Mathis ogni capitolo cattura uno dei figli di Hattie in un
momento della sua vita, in anni diversi e in un diverso contesto storico.
Il primo di questi capitoli è dedicato ai
gemelli Philadelphia e Jubilee, nomi di ‘promessa e di speranza, ‘nomi che
guardavano avanti e non indietro’. Avrebbero guardato ben poco avanti, i
gemelli, morti di polmonite perché Hattie e suo marito August non avevano i
soldi per la penicillina. E’ il 1925, Hattie ha diciassette anni. Con la madre
e due sorelle ha passato di nascosto il confine della Georgia tre anni prima.
Erano appena arrivate a Philadelphia quando Hattie aveva visto una scena che le
fece dire che mai, mai sarebbe tornata indietro. Una donna di colore (una
‘negra’, ai tempi non esisteva il politically correct) aveva rovesciato dei
mazzi di fiori da un carretto. Hattie si aspettava insulti o, peggio, violenza.
Non era successo nulla. Questo poteva essere possibile solo a nord della linea
Mason Dixon (il confine tra gli Stati del Nord e quelli del Sud). Quasi
vent’anni dopo, nel capitolo ‘Ella, 1954’, una scena penosissima accade a sud
della linea: la sorella di Hattie e il marito, che stanno viaggiando verso
Philadelphia per prendere con sé- loro senza figli- l’ultima nata di Hattie, la
figlia della vecchiaia, vengono intimiditi e umiliati da quattro bianchi
gradassi e rozzi che li fanno sloggiare dai tronchi dove si sono seduti per
fare un picnic. Non c’è nessun cartello, ma qualunque bel posto appartiene di
diritto solo ai bianchi.
Uno dopo l’altro i figli di
Hattie vengono alla ribalta, ognuno con le sue qualità, ognuno con il suo
destino- il musicista, il ragazzino che diventa predicatore a quindici anni
(più tardi sua madre dirà che è un donnaiolo corrotto), Alice che ha fatto il
salto sociale sposando un dottore (e prende pillole tranquillanti), Billups che
sta trovando il suo equilibrio dopo aver subito da ragazzino le attenzioni
moleste di un uomo, Franklin che combatte in Vietnam (è il 1969), Cassie che ha
dei disturbi mentali e viene portata in ospedale, Ruthie che non è figlia di
August e Bell, che incontra Hattie mentre è insieme all’amante non giovane che
era già stato amante della madre (e padre di Ruthie).
La penna geniale di Ayana Mathis riesce
nella straordinaria impresa di fare di Hattie l’assoluta protagonista senza
però metterla al centro del palcoscenico, tranne che in tre precisi momenti
della sua vita di donna- come madre giovanissima che affronta un lutto troppo
grande per lei, come amante nel capitolo dedicato a Ruthie, e come nonna nella
storia che chiude il libro. Da una parte la vita di Hattie, fatta di miseria e di
un figlio dopo l’altro, ci fa
interrogare sull’amore, se ci sia un limite al numero di figli che si riesce ad
amare, se si abbia spazio interiore per l’amore quando le priorità sono di
nutrire e calzare e vestire i figli, se una donna abbia diritto anche a
qualcos’altro oltre ad i figli, dall’altra sorgono altri interrogativi,
seguendo la condizione dei negri- dalla totale separazione, perfino nei bagni
pubblici, nelle carrozze dei treni (nessun servizio igienico per i negri sui
treni, che scendano sull’erba, come animali), sulle panchine dei parchi, e poi,
lentamente, molto lentamente, attraverso le rivendicazioni dei Black Panthers e
i movimenti guidati da uomini illuminati, ad una maggiore integrazione che non
è ancora completata. Speriamo in Obama. ‘Yes, we can’.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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