giovedì 19 marzo 2015

Ayana Mathis, “Le dodici tribù di Hattie” ed. 2015

                                           Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                              FRESCO DI LETTURA



Ayana Mathis, “Le dodici tribù di Hattie”
Ed. Einaudi, trad. Giovanna Scocchera, pagg. 282, Euro 21,00
Titolo originale: The Twelve Tribes of Hattie


  La cosa giusta da fare era insultarla o prenderla a schiaffi o sbatterla fuori di casa a notte fonda. Aveva lasciato lui e tutti i loro figli. Teneva in braccio la figlia di un altro uomo. Chiunque avrebbe convenuto che doveva farle qualcosa di terribile, ma era stata via quindici ore, e in quelle quindici ore la vita di August si era sgretolata come una zolla di terra arida.

    Impossibile non sentire il richiamo biblico nel titolo “Le dodici tribù di Hattie”. Impossibile non pensare alle dodici tribù di Israele. La Bibbia dice: Poi Giacobbe chiamò i suoi figli e disse: “Radunatevi perché io vi annunci ciò che vi accadrà nei giorni a venire. Radunatevi e ascoltate, o figli di Giacobbe!” Giacobbe prosegue predicendo quello che accadrà a ciascuno di loro e nel romanzo di Ayana Mathis ogni capitolo cattura uno dei figli di Hattie in un momento della sua vita, in anni diversi e in un diverso contesto storico.
    Il primo di questi capitoli è dedicato ai gemelli Philadelphia e Jubilee, nomi di ‘promessa e di speranza, ‘nomi che guardavano avanti e non indietro’. Avrebbero guardato ben poco avanti, i gemelli, morti di polmonite perché Hattie e suo marito August non avevano i soldi per la penicillina. E’ il 1925, Hattie ha diciassette anni. Con la madre e due sorelle ha passato di nascosto il confine della Georgia tre anni prima.
Erano appena arrivate a Philadelphia quando Hattie aveva visto una scena che le fece dire che mai, mai sarebbe tornata indietro. Una donna di colore (una ‘negra’, ai tempi non esisteva il politically correct) aveva rovesciato dei mazzi di fiori da un carretto. Hattie si aspettava insulti o, peggio, violenza. Non era successo nulla. Questo poteva essere possibile solo a nord della linea Mason Dixon (il confine tra gli Stati del Nord e quelli del Sud). Quasi vent’anni dopo, nel capitolo ‘Ella, 1954’, una scena penosissima accade a sud della linea: la sorella di Hattie e il marito, che stanno viaggiando verso Philadelphia per prendere con sé- loro senza figli- l’ultima nata di Hattie, la figlia della vecchiaia, vengono intimiditi e umiliati da quattro bianchi gradassi e rozzi che li fanno sloggiare dai tronchi dove si sono seduti per fare un picnic. Non c’è nessun cartello, ma qualunque bel posto appartiene di diritto solo ai bianchi.

Uno dopo l’altro i figli di Hattie vengono alla ribalta, ognuno con le sue qualità, ognuno con il suo destino- il musicista, il ragazzino che diventa predicatore a quindici anni (più tardi sua madre dirà che è un donnaiolo corrotto), Alice che ha fatto il salto sociale sposando un dottore (e prende pillole tranquillanti), Billups che sta trovando il suo equilibrio dopo aver subito da ragazzino le attenzioni moleste di un uomo, Franklin che combatte in Vietnam (è il 1969), Cassie che ha dei disturbi mentali e viene portata in ospedale, Ruthie che non è figlia di August e Bell, che incontra Hattie mentre è insieme all’amante non giovane che era già stato amante della madre (e padre di Ruthie).


     La penna geniale di Ayana Mathis riesce nella straordinaria impresa di fare di Hattie l’assoluta protagonista senza però metterla al centro del palcoscenico, tranne che in tre precisi momenti della sua vita di donna- come madre giovanissima che affronta un lutto troppo grande per lei, come amante nel capitolo dedicato a Ruthie, e come nonna nella storia che chiude il libro. Da una parte la vita di Hattie, fatta di miseria e di un figlio dopo l’altro, ci  fa interrogare sull’amore, se ci sia un limite al numero di figli che si riesce ad amare, se si abbia spazio interiore per l’amore quando le priorità sono di nutrire e calzare e vestire i figli, se una donna abbia diritto anche a qualcos’altro oltre ad i figli, dall’altra sorgono altri interrogativi, seguendo la condizione dei negri- dalla totale separazione, perfino nei bagni pubblici, nelle carrozze dei treni (nessun servizio igienico per i negri sui treni, che scendano sull’erba, come animali), sulle panchine dei parchi, e poi, lentamente, molto lentamente, attraverso le rivendicazioni dei Black Panthers e i movimenti guidati da uomini illuminati, ad una maggiore integrazione che non è ancora completata. Speriamo in Obama. ‘Yes, we can’.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


Nessun commento:

Posta un commento