Voci da mondi diversi. Medio Oriente
FRESCO DI LETTURA
Susan
Abulhawa, “Nel blu tra il cielo e il mare”
Ed. Feltrinelli, trad. Silvia
Rota Sperti, pagg. 300, Euro 16,00
Titolo
originale: The Blue Between Sky and
Waters
In quegli attimi tutto sembrò possibile. Le
incertezze e le precarietà della vecchiaia, la malattia in remissione dentro il
corpo di una madre, padri e fratelli senza lavoro, un figlio che tornava dopo
una vita dietro le sbarre, un bebé dentro il grembo di una donna non sposata,
le potenzialità di una bambina. Tutte queste cose- rinchiuse e sbarrate dal
mare e dalle navi da guerra a ovest, dai reticolati elettrici e dai cecchini a
est, da formidabili eserciti alle due estremità, nord e sud- potevano essere
superate.
Khaled, amico immaginario della piccola
Mariam. Khaled, figlio di Alwan, imprigionato nella sindrome ‘locked-in’ dopo
un attacco israeliano alla striscia di Gaza. E’ la voce muta di Khaled, del
primo leggendario Khaled che si è come riincarnato nel secondo, figlio tanto
atteso che ora giace su un letto sbattendo le palpebre una volta per un ‘sì’ e
due volte per un ‘no’, che introduce ogni capitolo del nuovo romanzo della
scrittrice americano-palestinese Susan Abulhawa, “Nel blu tra il cielo e il
mare”, intessendo il canovaccio su cui si disegnano le storie della famiglia
Baraka.
E’ il 1948, quando tutto incomincia. L’anno
glorioso per Israele, funereo per la Palestina. L’anno della nakba- per gli arabi la tragedia che
corrisponde alla Shoah per gli ebrei. L’anno in cui la famiglia Baraka
abbandona la casa di Beit Daras, sospinta dalla violenza di un tornado umano
verso la striscia di Gaza, quella che diventerà una prigione a cielo aperto. Muore
la piccola Mariam, a Nazmiyeh capita quello che capita alle donne su cui si
sfoga l’animalesca brutalità dei soldati, Mamduh resterà zoppo. Eppure,
nonostante la precarietà della vita, nonostante lo spazio limitato, la
sporcizia, le malattie, i posti di blocco, i tunnel attraverso cui è giocoforza
far transitare alimenti e medicine, i raid israeliani che si traducono in
arresti e ferimenti e morti, c’è una forza vitale che si sprigiona da un lembo
di terra di 360 chilometri quadrati con 4570 abitanti per chilometro quadrato,
uguale a quella di Khaled, prigioniero nel suo corpo, senza possibilità di
muoversi tranne che per quel battito di palpebre, come ali di una farfalla.
Il romanzo di Susan Abulhawa, una
storia di quattro generazioni di donne di cui l’ultima, che ha il bel nome di
Nur, Luce, è nata in America, può sembrare troppo lieve, troppo incredibilmente
ottimista nel buio della situazione storica reale, eppure, forse, è proprio
quello il suo intento- farci ricordare che, al di là di tutto, non c’è solo la
morte a Gaza, non ci sono solo rabbia e ribellione. A Gaza si cerca di vivere
in una qualche maniera, si organizzano matrimoni, si parla di amore e di sesso,
nascono bambini (quanti per Nazmiyeh? una dozzina prima che nasca la femmina
desiderata a cui dare il nome di Alwan), si organizzano feste sulla spiaggia,
nel blu tra il cielo e il mare, si va a pesca sfidando la sorveglianza
israeliana che spara ingiustamente accusando di aver superato il limite di
acque territoriali. “Nel blu tra il cielo e il mare” ci parla soprattutto di
donne. In una società in cui la donna perde la sua identità alla nascita del
primo figlio maschio, dimenticando il suo nome e diventando ‘Umma’, Madre, Umma Khaled, Umma Mahmuz o
qualunque sia il nome di chi porterà avanti la stirpe, è tuttavia la donna il
pilastro della famiglia, quella che consola e che nutre e che comprende. La
sposa americana di Mahmuz, che è andato a vivere negli Stati Uniti, non è ‘dei
loro’ e non sarà mai una madre vera per la piccola Nur. E Nur, la luce della
vita del nonno, tornerà in Palestina perché ha letto del caso di Khaled senza sapere
che il destino romanzesco ha in serbo per lei il ritrovamento della sua
famiglia.
Il personaggio di Nur è importante, tanto
quanto quello del narratore muto. Nur è la donna che arriva da un’altra cultura
e da un altro stile di vita e che pensa di potersi comportare in Palestina come
si comporterebbe in America. Paga il prezzo per questo e però trova, nelle
donne di famiglia, un calore, un sostegno, una ricchezza affettiva che sono
andati persi lontano da lì, nei paesi in cui la pace è la norma.
Il romanzo di Susan Abulhawa non è
straordinario, merita però di essere letto perché, in maniera garbata, con un
pizzico di realismo magico in adattamento arabo, riporta la nostra attenzione
su un problema spinoso, doloroso e di difficile soluzione.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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