venerdì 15 maggio 2015

Susan Abulhawa, “Nel blu tra il cielo e il mare” ed. 2015

                                                    Voci da mondi diversi. Medio Oriente
             FRESCO DI LETTURA


Susan Abulhawa, “Nel blu tra il cielo e il mare”
Ed. Feltrinelli, trad. Silvia Rota Sperti, pagg. 300, Euro 16,00
Titolo originale: The Blue Between Sky and Waters

     In quegli attimi tutto sembrò possibile. Le incertezze e le precarietà della vecchiaia, la malattia in remissione dentro il corpo di una madre, padri e fratelli senza lavoro, un figlio che tornava dopo una vita dietro le sbarre, un bebé dentro il grembo di una donna non sposata, le potenzialità di una bambina. Tutte queste cose- rinchiuse e sbarrate dal mare e dalle navi da guerra a ovest, dai reticolati elettrici e dai cecchini a est, da formidabili eserciti alle due estremità, nord e sud- potevano essere superate.


     Khaled, amico immaginario della piccola Mariam. Khaled, figlio di Alwan, imprigionato nella sindrome ‘locked-in’ dopo un attacco israeliano alla striscia di Gaza. E’ la voce muta di Khaled, del primo leggendario Khaled che si è come riincarnato nel secondo, figlio tanto atteso che ora giace su un letto sbattendo le palpebre una volta per un ‘sì’ e due volte per un ‘no’, che introduce ogni capitolo del nuovo romanzo della scrittrice americano-palestinese Susan Abulhawa, “Nel blu tra il cielo e il mare”, intessendo il canovaccio su cui si disegnano le storie della famiglia Baraka.
    E’ il 1948, quando tutto incomincia. L’anno glorioso per Israele, funereo per la Palestina. L’anno della nakba- per gli arabi la tragedia che corrisponde alla Shoah per gli ebrei. L’anno in cui la famiglia Baraka abbandona la casa di Beit Daras, sospinta dalla violenza di un tornado umano verso la striscia di Gaza, quella che diventerà una prigione a cielo aperto. Muore la piccola Mariam, a Nazmiyeh capita quello che capita alle donne su cui si sfoga l’animalesca brutalità dei soldati, Mamduh resterà zoppo. Eppure, nonostante la precarietà della vita, nonostante lo spazio limitato, la sporcizia, le malattie, i posti di blocco, i tunnel attraverso cui è giocoforza far transitare alimenti e medicine, i raid israeliani che si traducono in arresti e ferimenti e morti, c’è una forza vitale che si sprigiona da un lembo di terra di 360 chilometri quadrati con 4570 abitanti per chilometro quadrato, uguale a quella di Khaled, prigioniero nel suo corpo, senza possibilità di muoversi tranne che per quel battito di palpebre, come ali di una farfalla.

Il romanzo di Susan Abulhawa, una storia di quattro generazioni di donne di cui l’ultima, che ha il bel nome di Nur, Luce, è nata in America, può sembrare troppo lieve, troppo incredibilmente ottimista nel buio della situazione storica reale, eppure, forse, è proprio quello il suo intento- farci ricordare che, al di là di tutto, non c’è solo la morte a Gaza, non ci sono solo rabbia e ribellione. A Gaza si cerca di vivere in una qualche maniera, si organizzano matrimoni, si parla di amore e di sesso, nascono bambini (quanti per Nazmiyeh? una dozzina prima che nasca la femmina desiderata a cui dare il nome di Alwan), si organizzano feste sulla spiaggia, nel blu tra il cielo e il mare, si va a pesca sfidando la sorveglianza israeliana che spara ingiustamente accusando di aver superato il limite di acque territoriali. “Nel blu tra il cielo e il mare” ci parla soprattutto di donne. In una società in cui la donna perde la sua identità alla nascita del primo figlio maschio, dimenticando il suo nome e diventando ‘Umma’, Madre, Umma Khaled, Umma Mahmuz o qualunque sia il nome di chi porterà avanti la stirpe, è tuttavia la donna il pilastro della famiglia, quella che consola e che nutre e che comprende. La sposa americana di Mahmuz, che è andato a vivere negli Stati Uniti, non è ‘dei loro’ e non sarà mai una madre vera per la piccola Nur. E Nur, la luce della vita del nonno, tornerà in Palestina perché ha letto del caso di Khaled senza sapere che il destino romanzesco ha in serbo per lei il ritrovamento della sua famiglia.

     Il personaggio di Nur è importante, tanto quanto quello del narratore muto. Nur è la donna che arriva da un’altra cultura e da un altro stile di vita e che pensa di potersi comportare in Palestina come si comporterebbe in America. Paga il prezzo per questo e però trova, nelle donne di famiglia, un calore, un sostegno, una ricchezza affettiva che sono andati persi lontano da lì, nei paesi in cui la pace è la norma.

     Il romanzo di Susan Abulhawa non è straordinario, merita però di essere letto perché, in maniera garbata, con un pizzico di realismo magico in adattamento arabo, riporta la nostra attenzione su un problema spinoso, doloroso e di difficile soluzione.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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