venerdì 8 maggio 2015

Catherine Dunne, “Un mondo ignorato” ed. 2007

                                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
              il libro ritrovato


Catherine Dunne, “Un mondo ignorato”
Ed. Guanda, trad. Liuba Scudieri, pagg. 242, Euro 15,00

Dieci interviste a irlandesi che emigrarono negli anni ‘50, gente ignorata. Dimenticata la loro sofferenza, il loro sforzo, il denaro spedito puntualmente in patria che è alla base del successo odierno dell’economia irlandese. Partivano con un cartello sul cappotto che indicava il cantiere che li aveva assunti, facevano i muratori, le cameriere, le infermiere. Tutti si fermavano a vivere a Londra, anche se il loro cuore non era mai partito dall’Irlanda. Catherine Dunne ha ascoltato le loro voci, raccogliendo la loro testimonianza.


INTERVISTA A CATHERINE DUNNE, autrice di “Un mondo ignorato”

      Sei milioni di irlandesi erano emigrati dopo la Carestia, tra il 1845 e il 1925. Mezzo milione lasciò l’Irlanda negli anni ‘50. Quelli erano diretti per lo più in America, partivano sulle famigerate ‘navi-bara’ che attraversavano l’Atlantico, non avevano neppure la certezza di arrivare ma intanto lasciavano il nulla dietro di sé. “Gli irlandesi dell’ultima emigrazione”, come vengono definiti quelli partiti negli anni ‘50 nel sottotitolo del libro di Catherine Dunne, andavano più vicino, in Inghilterra, e, pure se erano spinti da piccoli o grandi drammi personali, non si lasciavano alle spalle la tragedia della Carestia che aveva trasformato l’Irlanda in un enorme cimitero.

   Adesso che è diventato normale viaggiare in aereo, che le compagnie low-cost hanno reso volare accessibile a tutti, che le distanze si sono accorciate e il mondo è diventato più piccolo, occorre un leggero sforzo per immaginare il peso di quel viaggio mezzo secolo fa. E’ qualcosa di cui parlano tutte le persone intervistate dalla scrittrice irlandese: la maggior parte di loro proveniva dalle contee occidentali e aveva perciò attraversato l’Irlanda (e la rete ferroviaria in Irlanda si è sviluppata con lentezza, per via del terreno in cui era difficile la posa delle rotaie), si era imbarcata a Dun Laoghaire, vicino a Dublino, la prima tappa era Holyhead, sull’isola al largo della costa del Galles, e da lì il treno. Un viaggio lunghissimo per quei giovani divisi tra l’eccitazione per la novità e la paura dell’ignoto. Arrivavano tutti alla stazione di Euston, a Londra; i più fortunati trovavano qualcuno ad attenderli, un fratello o una sorella, più raramente un amico, che già avevano fatto il viaggio, già si erano più o meno abituati. Poi la ricerca del lavoro, di un alloggio (“Niente cani, niente neri, niente irlandesi”, era il cartello affisso quasi ovunque). Lo sforzo per ambientarsi in una città lontana anni luce dai villaggi di provenienza. La lotta contro la nostalgia, sapere che non si poteva tornare indietro. E che i soldi che si riusciva a mandare a casa alleggerivano la vita di chi era rimasto.

    La scrittrice Catherine Dunne, diventata famosa con il romanzo “La metà di niente”, ha raccolto in questo libro la testimonianza di dieci irlandesi che lasciarono l’isola di smeraldo negli anni ‘50. Le domande che la scrittrice rivolge loro sono più o meno le stesse, tese ad esplorare gli stessi nodi focali- i motivi della partenza, i problemi della nuova vita in Inghilterra, il sostegno offerto dai club irlandesi, il lavoro, il matrimonio e i figli, il ritorno in patria. Eppure non c’è ripetitività nel libro della Dunne, anche se le esperienze sono simili- è il merito della scrittrice l’aver fatto di ogni testimone un personaggio con la sua storia unica, la sua umanità, quel fondo di nostalgia che non viene cancellata dalla consapevolezza che non c’era altra soluzione che partire, quel sentirsi divisi per sempre non tra due patrie ma tra due “case”, il non appartenere più a nessun luogo. Perché questo è forse il dramma più grande, una sorta di schizofrenia della memoria: si è fuggiti da “casa” perché era impossibile restarci, perché non c’era nulla, e si resta delusi quando si ritorna, mezzo secolo dopo, e quel nulla è stato riempito, niente è più come era e quello che è diventato non ci piace. Stilos ha incontrato Catherine Dunne per parlare con lei del suo libro.


Il suo libro è dedicato a due persone: una di queste, Phyllis Izzard, è anche una delle persone intervistate. L’incontro con Phyllis Izzard sembra aver messo “in moto” il libro nella sua mente: ci vuole raccontare di questo incontro?
   Ho incontrato Phyllis Izzard molti anni fa, ero in vacanza nella ex-Jugoslavia, avevo preso il battello per una gita a Venezia. Ero con mio figlio che era piccolo, questa donna mi ha sorriso, mi ha chiesto se avevo bisogno di aiuto e ha iniziato a parlare- aveva lasciato l’Irlanda negli anni ‘50 e abbiamo avuto questa straordinaria conversazione: dopo 30 anni che se ne era andata il suo attaccamento all’Irlanda era ancora fortissimo e tuttavia mi parlava di un paese che non conoscevo. Io non posso avere dei ricordi dell’epoca in cui era partita perché sono nata in quegli anni, ma nel mito che lei costruiva intorno all’Irlanda c’era un paese che non conoscevo. E che forse non esisteva. E allora mi sono chiesta se ci fossero delle altre persone che abitavano nel paese in cui vivo anche io ma che non riconosco nelle loro parole.

Perché questo libro adesso? E’ per la necessità di ricordare, ora che l’Irlanda è diventata una terra di immigrazione invece che di emigrazione?
      Ci sono molti motivi diversi che mi hanno spinto a scrivere questo libro adesso: prima di tutto sono conscia che molti di quella generazione sono ormai vecchi e le loro voci non sono documentate. Penso che la storia orale sia particolarmente importante, una sorta di istantanea di come era la vita una volta: puoi avere la Storia nei libri di testo, ma senza l’aroma della vita quotidiana che affiora nella conversazione. Un secondo motivo è che ho scritto il libro quando già l’Irlanda era diventata ricca e, mentre facevo le ricerche, mi sono resa conto che quella prosperità era anche dovuta alle rimesse degli emigranti. La loro parte in questa affluenza non era mai stata riconosciuta. E infine c’è il motivo che non siamo bendisposti verso gli immigranti ed è ora che guardiamo la loro storia e cerchiamo di vedere il presente attraverso la comprensione storica.

Come ha trovato le persone disposte a raccontarle le loro esperienze? Ha iniziato con una e poi sono seguite le altre, come in una catena?
     Sì, volevo proprio che la struttura del libro rappresentasse una emigrazione a catena che è quello che avvenne in Irlanda: partiva un membro di una famiglia e mandava indietro i soldi, così un altro partiva ed era il suo turno di mandare soldi a casa e così via. Le interviste procedettero in questa maniera: uno mi diceva, ‘dovrebbe parlare a…’. Ho intervistato molte più persone di quelle che appaiono nel libro. Seguivo le loro indicazioni per contattare quelli che secondo loro erano importanti per la loro testimonianza.

Erano reticenti o erano desiderosi di parlare?
     Erano tutti desiderosi di parlare, manifestavano una gratitudine commovente perché sentivano che le loro esperienze venivano considerate da qualcuno. Il titolo originale ha una sfumatura diversa da quello in italiano: “An unconsidered people”, non erano dimenticati, non erano deliberatamente ignorati, ma non venivano considerati importanti. Poter dire la loro storia significava considerare il contributo dato al loro paese e ogni storia simboleggiava quella di tante altre persone. Ho incontrato gente che mi ha detto, sorpresa, ‘Ma come ha fatto a sapere che quella era la mia storia!’ Ogni storia è unica ma rappresenta anche quella di altri.

Le persone con cui ha parlato- erano turbate nel ricordare il passato, o erano commosse, oppure distaccate? Dopo tutto, tanto tempo è passato…
      Erano tutti molto commossi nell’evocare i ricordi ed è questo che mi ha portato alla decisione del tipo di libro da scrivere. Quando mi è capitato di incontrare persone con esperienze molto negative, o non le nomino neppure o non le ho affatto intervistate di persona- ho solo parlato con chi le conosceva, perché ho pensato che non fosse etico riaprire delle ferite e poi andarmene. E, per tutte le interviste che ho fatto, ho anche permesso agli interessati di leggerle prima: se qualcosa che avevo scritto non era gradito, ne discutevamo e poi a volte il testo restava uguale e a volte invece eliminavo il passaggio in questione. Mi è capitato anche di togliere del tutto alcune interviste per non causare infelicità.

Qual è l’atteggiamento di questi emigrati verso i nuovi immigranti? Si rendono conto che vengono sempre ripetuti certi modelli, di raccogliersi insieme per nazionalità e pure di discriminazione verso gli estranei?
      Gli irlandesi intervistati facevano parte di una comunità molto omogenea: non tendevano a mescolarsi in Gran Bretagna, restarono sempre degli irlandesi consapevoli della loro estraneità, decisi a mantenere la loro cultura. Accettarono di essere diversi perché erano sostenuti da altri che si sentivano come loro. C’era poi il fatto, come ha detto uno di loro, che potevano passare per inglesi finché non aprivano bocca. Ed è straordinario che molti di loro erano critici nei confronti di altre ondate di immigranti: era come se loro avessero il diritto di entrare in Gran Bretagna e gli altri no. Un uomo ha detto una frase buffa al proposito, ‘gli irlandesi hanno tirato su la scala dopo essere entrati’: una volta che  si sono stabiliti e hanno ottenuto quello che volevano, hanno tolto l’opportunità agli altri, non riconoscono agli altri lo stesso diritto che hanno avuto loro.

Nel libro viene indicato un particolare interessante: l’alto numero di donne che emigrarono negli anni ‘50 e non al seguito degli uomini. Erano favorite dalla possibilità di trovare lavoro come infermiere, come accade oggi alle donne che arrivano disposte a fare le badanti in Italia?

     Una cosa straordinaria è che l’Irlanda è l’unico paese in cui c’è stato un forte numero di donne che sono emigrate senza gli uomini. C’erano molti motivi dietro ciò: maggiori opportunità, libertà, una vita indipendente che era impossibile nell’Irlanda degli anni ‘50. E la Gran Bretagna aveva fame di infermiere. Trovavano lavoro, formazione professionale, possibilità di uguaglianza impossibili in Irlanda. L’emigrazione verso la Gran Bretagna aveva un modello diverso da quello dell’emigrazione verso gli Stati Uniti. La Gran Bretagna è così vicina, prima di tutto, molti avevano qualcuno della famiglia che già viveva lì, era facile dire che si andava per una settimana dalla zia e poi non si tornava. E poi la lingua era la stessa: la Gran Bretagna è sempre stata terra di immigrazione per gli irlandesi. Dopo la carestia di metà ‘800 molti lasciarono l’Irlanda diretti in Scozia. E avvenne una cosa strana che avrebbe avuto un grosso peso nella Storia: dall’Ovest, per andare in Scozia, si dirigevano nel Nord dell’Irlanda e lì si rendevano conto che c’erano possibilità di lavoro nei linifici o nei cantieri navali di Belfast. E  si fermarono senza proseguire per la Scozia. Ma, così facendo, cambiarono l’equilibrio numerico degli abitanti di religione protestante.

Le donne che parlano nel suo libro toccano un argomento che ritroviamo, per coincidenza, nel romanzo di John Banville “Dove è sempre notte”: la duplice tragedia delle gravidanze non volute, una tragedia sia per le madri sia per i bambini, e le tremende istituzioni dei Magdalen Asylums. Eppure le donne che Lei ha intervistato non sono risentite verso la Chiesa: è un lascito della vecchia sottomissione?

    In tutti i paesi cattolici sono le donne che tengono accesa la fiamma della fede. La Chiesa non era solo un rifugio spirituale ma anche sociale: nell’ambito della Chiesa le donne si incontravano per il catechismo dei figli, le prime Comunioni, i matrimoni…Anche se l’istituzione era dura e pesava sulla vita delle donne, c’erano però tanti preti gentili e caritatevoli. Se le donne fossero rimaste in Irlanda e il loro matrimonio fosse fallito, mai avrebbero potuto divorziare. In Inghilterra era il prete stesso a incoraggiarle a lasciare il marito, se questo era violento.

La maggior parte delle persone intervistate attribuisce alla solitudine la dedizione all’alcol degli irlandesi in Inghilterra: non è però uno dei tratti tipici degli irlandesi pure in patria, quello di essere forti bevitori a causa della povertà e della mancanza di prospettive?
    E’ vero che gli irlandesi amano bere, però tutte le ricerche mediche del tempo mostrano che i giovani non avevano dipendenza dall’alcol quando arrivavano in Inghilterra. Ma il pub era anche il punto di incontro per la comunità e poi c’era questo sciagurato sistema di pagamento con un assegno. Gli irlandesi non aprivano un conto in banca, non volevano essere tassati e l’assegno con cui erano pagati si poteva incassare solo al pub. Al venerdì sera andavano al pub, bevevano, pagavano con l’assegno e prendevano il resto in contanti. Il pub era allo stesso tempo famiglia, comunità e prigione.


Ha parlato anche con degli irlandesi della seconda generazione? Come si definiscono? irlandesi o inglesi?
     Sì, ho fatto lunghe conversazioni con irlandesi della seconda generazione. Uno di questi, un giornalista, mi ha riassunto così la situazione: “non sai dove è ‘casa’”. In alcune famiglie i figli si sentono interamente irlandesi, in altre del tutto inglesi, in altre ancora metà dei figli si sente irlandese e l’altra metà dice di essere inglese…Certamente tutti hanno dei problemi di identità: vengono considerati degli irlandesi in Inghilterra e inglesi in Irlanda. Se ‘Paddy’ è il soprannome del tipico irlandese, loro vengono chiamati i ‘Paddy di plastica’, perché oltretutto hanno l’accento inglese.

Perciò la lingua, che era la loro base di forza per l’emigrazione, si ritorce contro di loro e li tradisce sempre, in ogni caso?
    Proprio così, li tradiva quando aprivano bocca appena arrivati in Inghilterra e li tradisce ora al contrario, quando tornano in Irlanda.

Gli intervistati sono tutti delusi del ritorno in patria: come potevano desiderare di non trovare alcun cambiamento in quello che avevano lasciato, dal momento che la vita era così disperatamente povera?
     Il ricordo costruisce un mito, ricordi solo le cose buone. Dopotutto erano stati obbligati a partire: la situazione economica era disastrosa, ma avevano lasciato famiglie e amici. Più a lungo stavano via e più ricordavano solo quelle cose. Ecco perché si sopravvive, perché si dimentica il male. Poi tornano e trovano il materialismo, la gente meno amichevole, risentimento verso loro che se ne sono andati via, e si rendono conto di aver vissuto con una fiaba.

La maggior parte dei suoi intervistati viene dall’area occidentale dell’Irlanda: in cifre, la maggioranza degli emigranti veniva da quella che allora era la parte più povera del paese?

    Assolutamente sì. La contea di Mayo e la regione di Galway erano molto povere. Inoltre io ho considerato solo i motivi economici che spingevano alla partenza, ma c’erano altre persone che andavano via: i gay, le donne incinte, chi aveva commesso piccoli crimini- per questi il giudice poneva l’alternativa: o sei mesi di prigione o prendere il traghetto e andarsene.

Nella lettura che Lei ha fatto nel corso del Festival delle letterature della Basilica di Massenzio, ha parlato del valore della fuga della mente nel viaggio attraverso i libri. C’è sempre del positivo in qualunque viaggio, allora, anche in quello degli emigranti che fuggivano dalla miseria?
     Certamente sì: erano in condizioni disperate quando avevano avuto bisogno di fuggire, dopo però avevano avuto una vita più soddisfacente di quella che avrebbero avuto a casa. Il viaggio- ogni tipo di viaggio- è sempre positivo.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                               

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