vento del Nord
FRESCO DI LETTURA
Jón Kalman Stefánsson. “I pesci non
hanno gambe”
Ed.
Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 440, Euro 19,00
Titolo originale: Fiskarnir
hafa enga fætur
No,
voglio diventare vecchio sotto la luna e le stelle e amare ancora mia moglie
con tanta passione da doverla abbracciare, e non desiderare nient’altro che
vivere altri cent’anni con lei, amare ancora le sue labbra e i suoi occhi, ecco
come voglio diventare, vecchio e felice nel chiaro di luna.
Keflavík, di faccia all’Atlantico, nel
sud-ovest dell’Islanda. “Sono felice di essere venuto nel posto più nero del
paese”, aveva detto il presidente islandese nel 1944, quando vi si era recato
in visita subito dopo la costituzione della repubblica. “Il posto più nero-
com’era possibile vivere qui prima dell’arrivo dell’esercito americano, prima
dell’epoca della meccanizzazione?”, si chiede- o fa chiedere al suo
personaggio- Jón Kalman Stefánsson nel suo nuovo romanzo “I pesci non hanno
gambe”. Keflavík
che non esiste, perché “andare a Keflavík somiglia sempre un po’ ad allontanarsi dal resto del
mondo per raggiungere un luogo che non esiste”. Sembra impossibile che ci siano
delle case in questo posto dove ci sono “tre punti cardinali; il vento, il mare
e l’eterno.” Perché, se l’Islanda è una terra impietosa e difficile, Keflavík è di certo la zona “meno abitabile
del paese”.
Come si fa a vivere a Keflavík, dunque? Gli uomini escono in mare e, se la fortuna
assiste, se il vento non fa scatenare una tempesta, rientrano con le barche
piene di pesci che vengono puliti e messi ad essiccare sui tralicci. Quando poi
gli americani costruirono l’aeroporto, quando la vita incominciò a cambiare,
quando si aspettavano frotte di turisti, era arrivato anche l’ordine di
smantellare i tralicci, di spostarli in modo che non fossero così visibili- ma
come, non erano forse una delle caratteristiche principali di quel paesaggio
scabro con le rocce di basalto? Gli uomini in mare (senza saper nuotare) e le
donne a casa, a tirar su i figli, in giorni uguali uno dopo l’altro. Oppure
anche le donne, insieme ai ragazzi, a lavorare nell’industria del pesce- una
puzza che restava attaccata agli abiti, alla pelle, ai capelli. Gli americani
portarono cose mai viste, jeans, musica, Coca-cola, scatolette di cibi
sconosciuti: i ragazzini si organizzavano per assalire i camion carichi di
tutto quel ben di Dio destinato a chi era lì per lavoro. L’esercito americano era
diventato il quarto punto cardinale di Keflavík. Una presenza essenziale eppure odiata. Vantaggiosa ma
pur sempre una forza di occupazione del territorio.
Tutti i personaggi di questa saga famigliare risentono dell’ambivalenza
del paesaggio e della vita che si può condurre a Keflavík. Il bello e il terribile. La luce e
il buio. La vita che canta e la morte che attrae, come una sirena, verso il
mare. La storia (o tutte le storie) inizia con Ari, poeta ed editore, che
abbandona moglie e figli e va in Danimarca. Tornerà quando riceve una lettera
del padre che sta morendo. O forse sarebbe tornato ugualmente, come è tornata
dal Canada la nonna Margrét per sposare il suo primo amore, lo straordinario
Oddur, il miglior pescatore di Keflavík, l’unico che prendesse misure di sicurezza per i suoi
uomini sulla barca. Anche Ari ha sposato il suo unico amore. Come era stato
possibile che un amore speciale si trasformasse ‘in un ordinario martedì’? che
lui avesse avuto una brevissima avventura con un’altra, che avesse detto alla
moglie di smettere di far tanto rumore mentre masticava?
E suo padre, come aveva fatto a
risposarsi dopo la morte della dolcissima madre di Ari?
Keflavík
ha pochi abitanti, ma si affollano tutti nelle pagine di “I pesci non hanno
gambe”. La nonna Margrét e le sue crisi di depressione, il mitico nonno Oddur, i
genitori di Ari, Ari stesso e la voce narrante che sembrerebbe il suo doppio,
il cugino poliziotto che lo ispeziona ‘ a fondo’ all’aeroporto, la ragazzina
che Ari aveva sbagliato a giudicare e che aveva cercato di suicidarsi in mare
dopo uno stupro, il fratello della nonna che voleva nuotare fino alla luna (era
quasi morto). E altri, e altri ancora.
E il mare, che dà e prende. Il mare che rende uomini, perché quando sei
in mare sai che puoi fare affidamento solo su te stesso. Il mare che ‘è più
vasto della quotidianità’, che ‘tranquillizza, consola, e sminuisce i problemi
della vita.’ Forse è per il mare che si torna a Keflavík, è il mare che è il collante di
tutte le storie di questo romanzo che celebra l’amore- felice, tormentato, sofferente,
riinventato, invecchiato- e che termina con la riflessione, ‘la cosa più
dolorosa deve essere non avere amato abbastanza.’
Un libro bellissimo.
la recensione sarà pubblicata su www.wuz.it
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