Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Zeruya Shalev, “Dopo l’abbandono”
Ed. Frassinelli, trad. Elena
Loewenthal, pagg. 472, Euro 18,00
Una donna si è appena separata
dal marito, è stata lei a volere la separazione, resterà nella loro casa con il
figlio di sei anni, nonostante l’evidente sofferenza del marito e del bambino.
Il tempo di adattamento sarà lungo, lei cercherà di tornare sui suoi passi, poi
incontra uno psichiatra, se ne innamora e va a vivere con lui. Le difficoltà
aumentano con la famiglia allargata, difficile evitare le gelosie tra i due
figli di lui e quello di lei, arduo trovare del tempo da soli. L’amore non è
mai perfetto.
INTERVISTA A ZERUYA SHALEV, autrice di “Dopo l’abbandono”
E’ una storia tormentata che lascia un
segno nel lettore, quella raccontata dalla scrittrice israeliana Zeruya Shalev
nel suo nuovo romanzo “Dopo l’abbandono” che completa una sorta di trilogia
sull’amore ai nostri giorni, come indicano in maniera allusiva pure i titoli
dei libri precedenti, “Una relazione intima” e “Una storia coniugale”. Il primo,
“Una relazione intima”, era una rovente storia di passione e sesso tra una
ragazza e un uomo dell’età di suo padre; “Una storia coniugale” raccontava
della dolorosa separazione di una coppia suggerendo, con l’accostamento
dell’articolo “una” al nome e all’aggettivo, che questo sia l’esito banalmente normale
di un matrimonio; ancora una separazione seguita da un nuovo innamoramento e
dal formarsi di una nuova coppia in “Dopo l’abbandono”. Questa volta però quello
che noi lettori avvertiamo come il personaggio principale è un bambino di sei
anni, Ghili, anche se la voce narrante, le emozioni e i pensieri esplorati sono
quelli della sua mamma, Ella, che ha appena lasciato Amnon, il padre del
bambino.
E’ Ella che parla, descrive, riferisce dialoghi e parole dette da lei
e da altri, in un flusso continuo non virgolettato che comunica un senso di
urgenza e immediatezza, ma è la vocetta del bambino che si distacca dalle
altre, ad iniziare dalle parole con cui il libro incomincia, “Sono morto,
grida, la voce accaldata, il suo corpicino si dibatte sotto i miei occhi, sono
completamente morto, morto per sempre, la bocca aperta scopre i tremuli denti da
latte, sospesi sul nulla.”: è il giorno “dopo” la separazione dei genitori,
quel terremoto famigliare di un’intensità pari a quello avvenuto quattromila
anni prima nell’isola Santorini e avvertito fino in Egitto, come ci viene di
continuo rammentato sia da Ella sia da Amnon, entrambi archeologi, in quello
che è un contrappunto storico metaforico dell’intera vicenda.
La paura dell’abbandono che prova Ghili ci
fa male e ci porta a riflettere sui diritti degli adulti a modificare la
propria vita alla ricerca della felicità- “pensavo che avevi deciso di lasciare
me come hai fatto con papà”, dice il bambino dopo che Ella ha tardato ad andare
a riprenderlo a casa dell’amico. Ci fanno male il suo disagio, la sua
infelicità nel ritrovarsi ad essere un bambino a metà tra due genitori, che non
si sente più ricco perché ha due case e due stanze, e neppure più amato perché ha
un genitore alla volta tutto per sé. Perché invece ha nostalgia della mamma
quando è con il papà e del papà quando è con la mamma. Perché ha solo sei anni
e vorrebbe avere il bacio di entrambi prima di andare a letto. Perché
affrontare un cambiamento di casa a sei anni, e non con mamma e papà ma per
andare a vivere con un uomo che è uno sconosciuto e i due figli di questo, è
inesplicabile.
I rapporti umani sono difficili, questo è quanto Zeruya Shalev
vuole dirci. Si deve scavare in profondità, come fanno gli archeologi nelle
loro ricerche, per capire le motivazioni dei nostri comportamenti- il padre
tiranno e dominatore di Ella, quello ammalato di mente dello psichiatra Oded,
nuovo compagno di Ella, un blocco della crescita di Ella che si collega, in qualche
modo, con il suo infantilismo. Difficili i rapporti tra genitori e figli quanto
quelli di coppia- almeno dopo che è passato l’incanto dell’innamoramento-,
ancora più difficili all’interno dei nuovi legami quando gli equilibri sono
precari: i figli del compagno non potranno mai essere come i propri, ed è così
facile invece farsi del male- basta dire ad un bambino “non mi piacciono gli
orsi”, quando è un orsetto di peluche che serve da tramite d’affetto, per
respingere il bambino insieme al suo orso. Eppure la vita va avanti e bisogna
coglierla a piene mani, con il suo bagaglio di felicità e infelicità, conquiste
e sconfitte- è questo che sembra dirci il funerale di un’amica in chiusura del
libro. Con la domanda colma di stupore di un altro bimbetto issato sulle spalle
del padre, “ma non la vedrò più la mamma?”. Stilos ha intervistato Zeruya
Shalev, che è nata in un kibbutz nel 1959 e vive a Gerusalemme.
“Dopo l’abbandono” chiude una trilogia di romanzi che parlano di donne
e tuttavia sono diversi dalla tradizionale letteratura femminile: quale era il
suo piano quando ha iniziato a scrivere il primo, “Una relazione intima”?
Non avevo progettato di scrivere una
trilogia, non mi piace progettare, credo nell’ispirazione- scrivo poesia e
scrivo anche la prosa come fosse poesia. Naturalmente devo conoscere i miei
personaggi e in che direzione andrà il libro, ma mi piace sorprendermi e
trovarmi in un’avventura: scrivere è un’avventura per me. D’altra parte non
penso sia una vera trilogia, i libri sono indipendenti l’uno dall’altro, solo
quando ho scritto quest’ultimo mi sono resa conto che tutti e tre insieme
creano una sorta di trilogia e non tanto perché al centro c’è un personaggio
femminile, perché penso che gli uomini conoscano le stesse emozioni e io scrivo
della condizione umana e non solo di quella femminile. Descrivo la complessità
dei rapporti ma, prima di tutto, dei rapporti tra l’individuo e se stesso,
scrivo dell’amore per noi stessi e non solo per un altro. Al centro dei tre
libri ci sono le emozioni basilari, la relazione con i genitori, con il marito
o il compagno, con i figli. I libri sono una trilogia nel senso che sono una
ricerca sull’amore moderno e sulla famiglia moderna. E poi hanno in comune la
voce, lo stile, che è molto intenso in tutti e tre, inquieto. Per me è
importante perché sento che questa è la mia voce e la voce crea il dramma più
della trama. E in tutti e tre ho colto tre donne diverse in un momento di crisi
famigliare e ho cercato di vedere come si comportano in queste crisi.
Il titolo originale di “Dopo l’abbandono” è “Thera”, uno dei nomi
dell’isola di Santorini. Il tema dell’eruzione del vulcano, così come quello
dell’archeologia, sono la spina dorsale del romanzo, le due grandi metafore per
quello che sta succedendo?
Sì, ho pensato molto alla
scelta di una professione per la mia protagonista e mi sono resa conto che fare
l’archeologa era l’unica cosa possibile per lei, perché è sempre occupata con il passato e ha la tendenza a scavare e a
trovare prove per quello che vuole, a fare ricerche sulla sua vita: Ella è come
un archeologo dell’anima. Mi è capitato di leggere di questa eruzione a Thera e
ho pensato che fosse la metafora giusta perché mostra visivamente la maniera in
cui lei tratta il divorzio: è lei che prende l’iniziativa ma poi se ne pente,
il suo comportamento è estremo come un’eruzione. La sua famiglia è l’isola e
l’eruzione del vulcano viene da dentro di lei. Questo misto di passato e del
potere di distruzione ma anche dell’opportunità di una nuova vita mi è parso la
metafora più giusta per la sua storia.
Quando Amnon incontra Ella per la prima volta, le dice che l’ha già
vista, che assomiglia ad un dipinto in Thera conosciuto con il nome di “la
parigina”: i comportamenti umani sono sempre uguali nei secoli e millennii?
Non ci avevo pensato, ma è un’idea nuova e
interessante. In realtà volevo fare in modo che per lui non fosse un incontro
nuovo, nel momento in cui vede la somiglianza di lei con “la parigina” è come
se lui l’avesse già incontrata: è una metafora del destino e avevo bisogno di
questo legame con il tema dell’eruzione del vulcano a Thera.
C’è un altro tema storico a cui si accenna spesso, la fuga degli ebrei
dall’Egitto. E’ collegata in qualche maniera con la storia privata che stiamo
leggendo?
Cerco sempre di trovare dei legami tra la
storia nazionale e quella famigliare. Se credi nella storia dell’Esodo- e molti
storici dicono che non è vera, ma a me non interessa la verità storica- puoi
trovare un legame tra la distruzione dell’isola di Thera e l’Esodo, perché le
conseguenze di questa eruzione sono simili alle piaghe d’Egitto descritte nel
Vecchio Testamento. E’ una maniera privata per Ella di interpretare il disastro
che la libertà può provocare, perché è vero che gli ebrei sono diventati liberi
una volta usciti dall’Egitto ma hanno sofferto per la loro libertà, forse
ancora di più che durante la cattività: in questo modo Ella cerca la maniera di
spiegare a se stessa la storia della sua famiglia. Ella si chiede se proprio
doveva distruggere la famiglia, perché mai lo ha fatto. Si pone molte domande
ma ci sono poche risposte; Ella cerca risposte nella storia antica, cerca di
convincersi che ha fatto la cosa giusta, perché la lezione del passato è che
dal disastro può nascere la libertà.
Ella non è un personaggio simpatico. All’inizio stiamo dalla sua parte
ma, proseguendo la lettura, non più. Perché? Perché ha fatto di una donna
egoista e infantile il personaggio principale del libro?
L’ho fatto di proposito. E’ facile creare
un personaggio con cui identificarsi ma
io non voglio che i lettori amino Ella, voglio mostrare una personalità umana.
Chiedo al lettore di non giudicarla ma di seguirla, con le sue debolezze- siamo
tutti umani e lei cerca di affrontare un momento difficile. Ella è egoista
perché è infelice, è infantile ma se fosse matura non ci sarebbe nessuna
storia. Cerco dei personaggi umani con molte debolezze, così posso
accompagnarli a diventare più maturi, voglio che impari; altrimenti, se Ella
sapesse tutto, non potrei scrivere di lei.
Stranamente il carattere più “forte” tra i personaggi è quello di
Amnon, il marito abbandonato che si rivela essere il migliore, anche se
all’inizio sembrava “il cattivo” della situazione…
Ha ragione, penso sia una delle mie maniere
di mostrare la complessità della situazione. E’ facile lasciare un marito
debole o stupido che non si apprezza, ma volevo che Ella lasciasse un uomo da
rimpiangere se no non ci sarebbe problema. Volevo mostrare come lui cambi; per
lui la separazione è l’opportunità di svilupparsi come uomo e come padre e lui
è capace di cogliere questa opportunità. Amnon mostra anche a Ella e a Oded
come superare le difficoltà e penso che abbia ragione quando dice che è il più
forte. Ecco perché è difficile per Ella; quando si rende conto che Amnon vale
più di quanto pensasse, capisce anche che ha perso molto. E’ buffo, ma pare che
in Israele molte lettrici ci abbiano ripensato e non abbiano divorziato, dopo
aver letto il romanzo.
Le voci dei bambini sono tenere, a volte buffe e a volte strazianti.
Penso che lei debba avere dei figli per rendere le loro voci così convincenti.
Anche Lei è passata attraverso una separazione: come hanno reagito i suoi figli
alla sua separazione?
Sono contenta di essere riuscita a rendere bene
la voce dei bambini- sono molto vicina ai miei figli e ho cercato di imitare la
voce di mio figlio in quella di Ghili. Passo molto tempo con loro e cerco di
identificarmi con loro, è come se sentissi le loro voci dentro di me. La mia
storia però è diversa: quando mi sono separata da mio marito mia figlia aveva
solo 4 anni ed era diversa da Ghili, era troppo piccola. Non ho attraversato
questo processo penoso, però conosco alcune delle emozioni di Ella e ho usato
dei ricordi di quel tempo- conosco i tragici sentimenti di una famiglia
spezzata.
Una morte chiude il libro: la brevità della vita è qualcosa che
dovremmo tenere sempre presente nelle difficoltà quotidiane?
In un certo senso sì, volevo finire con
un’esperienza che tutti e quattro i personaggi principali condividessero: erano
così impegnati con la loro vita e alla fine si trovano insieme con una
esperienza che non è la loro. Volevo che uscissero da sé davanti ad un dolore
universale. La morte di una donna giovane è la morte delle illusioni, perché
questa donna è simbolo della madre e della moglie perfetta. Ella l’ha invidiata
a lungo, ricorda la festa a cui la donna aveva invitato tutti e adesso quella
festa è diventata il funerale e mostra l’illusione della perfezione. Ella deve
separarsi dall’illusione per essere matura e meno egoista, deve abbandonare
l’illusione dell’amore romantico, deve lottare per dei momenti di felicità.
Alla fine Ella sa che non sarà molto felice ma non è più così egoista, deve
prendersi la responsabilità degli altri, di suo figlio, dei figli di Oded, di
Oded stesso. Capisce che questa avventura della vita non ha anche fare con la
felicità ma con il significato- la sua vita sarà più ricca di significato.
Parlando di morte: sappiamo che Lei è stata ferita in un attentato
terroristico, qualche anno fa. Nel romanzo Oded dice che non c’è luogo
all’aperto che sia sicuro per portarci i bambini. Le è rimasta questa paura,
del pericolo di andare ovunque? Come si convive con questa paura?
Vivevo nella paura anche prima di restare
ferita nell’attentato- sono tanti anni ormai che in Israele viviamo con la
paura, dalla seconda Intifada, nel 2000. Ci sono stati dei periodi in cui avevo
paura persino a mandare i bambini a scuola. Tre anni fa camminavo sul
marciapiede- andavo sempre a piedi perché avevo paura di prendere un autobus-
ed è esploso l’autobus che mi passava accanto: quando è destino…Mia figlia
tuttora corre via quando sente un autobus che si avvicina. E tuttavia si impara
a convivere con la paura, a calcolare quale strada sia meglio fare…
Eppure non c’è quasi nessun riferimento nei suoi romanzi alla eterna
guerra in Israele…
E’ vero, ci sono pochissimi cenni nascosti
alla situazione della vita in Israele; Oded ad un certo punto parla del trauma
di un paziente- è un accenno piccolissimo autobiografico alla mia paura e a
quello che mi è successo. Ho bisogno di questa separazione dalla realtà
israeliana nella mia scrittura. Il pericolo è nello sfondo ma non voglio
scriverne perché cerco nuove risposte nella mia scrittura. La letteratura è
diversa dal giornalismo e, se scrivo della realtà, è troppo immediato e non mi
interessa descrivere la realtà quotidiana in Israele. Cerco la profondità
dell’animo, non so come fare letteratura dal terrore- è troppo tragico. Cerco
piuttosto le tragedie nascoste nella situazione quotidiana della vita di
coppia, della maternità. Non voglio scrivere del tragico conflitto o della
tragedia palestinese.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"
Nessun commento:
Posta un commento