mercoledì 11 febbraio 2015

Zeruya Shalev, “Dopo l’abbandono” ed. 2007

                                                  Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                                                                 il libro ritrovato


Zeruya Shalev, “Dopo l’abbandono”
Ed. Frassinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg. 472, Euro 18,00 

Una donna si è appena separata dal marito, è stata lei a volere la separazione, resterà nella loro casa con il figlio di sei anni, nonostante l’evidente sofferenza del marito e del bambino. Il tempo di adattamento sarà lungo, lei cercherà di tornare sui suoi passi, poi incontra uno psichiatra, se ne innamora e va a vivere con lui. Le difficoltà aumentano con la famiglia allargata, difficile evitare le gelosie tra i due figli di lui e quello di lei, arduo trovare del tempo da soli. L’amore non è mai perfetto.


INTERVISTA A ZERUYA SHALEV, autrice di “Dopo l’abbandono”

    E’ una storia tormentata che lascia un segno nel lettore, quella raccontata dalla scrittrice israeliana Zeruya Shalev nel suo nuovo romanzo “Dopo l’abbandono” che completa una sorta di trilogia sull’amore ai nostri giorni, come indicano in maniera allusiva pure i titoli dei libri precedenti, “Una relazione intima” e “Una storia coniugale”. Il primo, “Una relazione intima”, era una rovente storia di passione e sesso tra una ragazza e un uomo dell’età di suo padre; “Una storia coniugale” raccontava della dolorosa separazione di una coppia suggerendo, con l’accostamento dell’articolo “una” al nome e all’aggettivo, che questo sia l’esito banalmente normale di un matrimonio; ancora una separazione seguita da un nuovo innamoramento e dal formarsi di una nuova coppia in “Dopo l’abbandono”. Questa volta però quello che noi lettori avvertiamo come il personaggio principale è un bambino di sei anni, Ghili, anche se la voce narrante, le emozioni e i pensieri esplorati sono quelli della sua mamma, Ella, che ha appena lasciato Amnon, il padre del bambino.
E’ Ella che parla, descrive, riferisce dialoghi e parole dette da lei e da altri, in un flusso continuo non virgolettato che comunica un senso di urgenza e immediatezza, ma è la vocetta del bambino che si distacca dalle altre, ad iniziare dalle parole con cui il libro incomincia, “Sono morto, grida, la voce accaldata, il suo corpicino si dibatte sotto i miei occhi, sono completamente morto, morto per sempre, la bocca aperta scopre i tremuli denti da latte, sospesi sul nulla.”: è il giorno “dopo” la separazione dei genitori, quel terremoto famigliare di un’intensità pari a quello avvenuto quattromila anni prima nell’isola Santorini e avvertito fino in Egitto, come ci viene di continuo rammentato sia da Ella sia da Amnon, entrambi archeologi, in quello che è un contrappunto storico metaforico dell’intera vicenda.
     La paura dell’abbandono che prova Ghili ci fa male e ci porta a riflettere sui diritti degli adulti a modificare la propria vita alla ricerca della felicità- “pensavo che avevi deciso di lasciare me come hai fatto con papà”, dice il bambino dopo che Ella ha tardato ad andare a riprenderlo a casa dell’amico. Ci fanno male il suo disagio, la sua infelicità nel ritrovarsi ad essere un bambino a metà tra due genitori, che non si sente più ricco perché ha due case e due stanze, e neppure più amato perché ha un genitore alla volta tutto per sé. Perché invece ha nostalgia della mamma quando è con il papà e del papà quando è con la mamma. Perché ha solo sei anni e vorrebbe avere il bacio di entrambi prima di andare a letto. Perché affrontare un cambiamento di casa a sei anni, e non con mamma e papà ma per andare a vivere con un uomo che è uno sconosciuto e i due figli di questo, è inesplicabile.
I rapporti umani sono difficili, questo è quanto Zeruya Shalev vuole dirci. Si deve scavare in profondità, come fanno gli archeologi nelle loro ricerche, per capire le motivazioni dei nostri comportamenti- il padre tiranno e dominatore di Ella, quello ammalato di mente dello psichiatra Oded, nuovo compagno di Ella, un blocco della crescita di Ella che si collega, in qualche modo, con il suo infantilismo. Difficili i rapporti tra genitori e figli quanto quelli di coppia- almeno dopo che è passato l’incanto dell’innamoramento-, ancora più difficili all’interno dei nuovi legami quando gli equilibri sono precari: i figli del compagno non potranno mai essere come i propri, ed è così facile invece farsi del male- basta dire ad un bambino “non mi piacciono gli orsi”, quando è un orsetto di peluche che serve da tramite d’affetto, per respingere il bambino insieme al suo orso. Eppure la vita va avanti e bisogna coglierla a piene mani, con il suo bagaglio di felicità e infelicità, conquiste e sconfitte- è questo che sembra dirci il funerale di un’amica in chiusura del libro. Con la domanda colma di stupore di un altro bimbetto issato sulle spalle del padre, “ma non la vedrò più la mamma?”. Stilos ha intervistato Zeruya Shalev, che è nata in un kibbutz nel 1959 e vive a Gerusalemme.


“Dopo l’abbandono” chiude una trilogia di romanzi che parlano di donne e tuttavia sono diversi dalla tradizionale letteratura femminile: quale era il suo piano quando ha iniziato a scrivere il primo, “Una relazione intima”?
       Non avevo progettato di scrivere una trilogia, non mi piace progettare, credo nell’ispirazione- scrivo poesia e scrivo anche la prosa come fosse poesia. Naturalmente devo conoscere i miei personaggi e in che direzione andrà il libro, ma mi piace sorprendermi e trovarmi in un’avventura: scrivere è un’avventura per me. D’altra parte non penso sia una vera trilogia, i libri sono indipendenti l’uno dall’altro, solo quando ho scritto quest’ultimo mi sono resa conto che tutti e tre insieme creano una sorta di trilogia e non tanto perché al centro c’è un personaggio femminile, perché penso che gli uomini conoscano le stesse emozioni e io scrivo della condizione umana e non solo di quella femminile. Descrivo la complessità dei rapporti ma, prima di tutto, dei rapporti tra l’individuo e se stesso, scrivo dell’amore per noi stessi e non solo per un altro. Al centro dei tre libri ci sono le emozioni basilari, la relazione con i genitori, con il marito o il compagno, con i figli. I libri sono una trilogia nel senso che sono una ricerca sull’amore moderno e sulla famiglia moderna. E poi hanno in comune la voce, lo stile, che è molto intenso in tutti e tre, inquieto. Per me è importante perché sento che questa è la mia voce e la voce crea il dramma più della trama. E in tutti e tre ho colto tre donne diverse in un momento di crisi famigliare e ho cercato di vedere come si comportano in queste crisi.

Il titolo originale di “Dopo l’abbandono” è “Thera”, uno dei nomi dell’isola di Santorini. Il tema dell’eruzione del vulcano, così come quello dell’archeologia, sono la spina dorsale del romanzo, le due grandi metafore per quello che sta succedendo?

     Sì, ho pensato molto alla scelta di una professione per la mia protagonista e mi sono resa conto che fare l’archeologa era l’unica cosa possibile per lei, perché è sempre occupata  con il passato e ha la tendenza a scavare e a trovare prove per quello che vuole, a fare ricerche sulla sua vita: Ella è come un archeologo dell’anima. Mi è capitato di leggere di questa eruzione a Thera e ho pensato che fosse la metafora giusta perché mostra visivamente la maniera in cui lei tratta il divorzio: è lei che prende l’iniziativa ma poi se ne pente, il suo comportamento è estremo come un’eruzione. La sua famiglia è l’isola e l’eruzione del vulcano viene da dentro di lei. Questo misto di passato e del potere di distruzione ma anche dell’opportunità di una nuova vita mi è parso la metafora più giusta per la sua storia.

Quando Amnon incontra Ella per la prima volta, le dice che l’ha già vista, che assomiglia ad un dipinto in Thera conosciuto con il nome di “la parigina”: i comportamenti umani sono sempre uguali nei secoli e millennii?
     Non ci avevo pensato, ma è un’idea nuova e interessante. In realtà volevo fare in modo che per lui non fosse un incontro nuovo, nel momento in cui vede la somiglianza di lei con “la parigina” è come se lui l’avesse già incontrata: è una metafora del destino e avevo bisogno di questo legame con il tema dell’eruzione del vulcano a Thera.

C’è un altro tema storico a cui si accenna spesso, la fuga degli ebrei dall’Egitto. E’ collegata in qualche maniera con la storia privata che stiamo leggendo?
     Cerco sempre di trovare dei legami tra la storia nazionale e quella famigliare. Se credi nella storia dell’Esodo- e molti storici dicono che non è vera, ma a me non interessa la verità storica- puoi trovare un legame tra la distruzione dell’isola di Thera e l’Esodo, perché le conseguenze di questa eruzione sono simili alle piaghe d’Egitto descritte nel Vecchio Testamento. E’ una maniera privata per Ella di interpretare il disastro che la libertà può provocare, perché è vero che gli ebrei sono diventati liberi una volta usciti dall’Egitto ma hanno sofferto per la loro libertà, forse ancora di più che durante la cattività: in questo modo Ella cerca la maniera di spiegare a se stessa la storia della sua famiglia. Ella si chiede se proprio doveva distruggere la famiglia, perché mai lo ha fatto. Si pone molte domande ma ci sono poche risposte; Ella cerca risposte nella storia antica, cerca di convincersi che ha fatto la cosa giusta, perché la lezione del passato è che dal disastro può nascere la libertà.

Ella non è un personaggio simpatico. All’inizio stiamo dalla sua parte ma, proseguendo la lettura, non più. Perché? Perché ha fatto di una donna egoista e infantile il personaggio principale del libro?
    L’ho fatto di proposito. E’ facile creare un personaggio con cui identificarsi  ma io non voglio che i lettori amino Ella, voglio mostrare una personalità umana. Chiedo al lettore di non giudicarla ma di seguirla, con le sue debolezze- siamo tutti umani e lei cerca di affrontare un momento difficile. Ella è egoista perché è infelice, è infantile ma se fosse matura non ci sarebbe nessuna storia. Cerco dei personaggi umani con molte debolezze, così posso accompagnarli a diventare più maturi, voglio che impari; altrimenti, se Ella sapesse tutto, non potrei scrivere di lei.

Stranamente il carattere più “forte” tra i personaggi è quello di Amnon, il marito abbandonato che si rivela essere il migliore, anche se all’inizio sembrava “il cattivo” della situazione…
    Ha ragione, penso sia una delle mie maniere di mostrare la complessità della situazione. E’ facile lasciare un marito debole o stupido che non si apprezza, ma volevo che Ella lasciasse un uomo da rimpiangere se no non ci sarebbe problema. Volevo mostrare come lui cambi; per lui la separazione è l’opportunità di svilupparsi come uomo e come padre e lui è capace di cogliere questa opportunità. Amnon mostra anche a Ella e a Oded come superare le difficoltà e penso che abbia ragione quando dice che è il più forte. Ecco perché è difficile per Ella; quando si rende conto che Amnon vale più di quanto pensasse, capisce anche che ha perso molto. E’ buffo, ma pare che in Israele molte lettrici ci abbiano ripensato e non abbiano divorziato, dopo aver letto il romanzo.

Le voci dei bambini sono tenere, a volte buffe e a volte strazianti. Penso che lei debba avere dei figli per rendere le loro voci così convincenti. Anche Lei è passata attraverso una separazione: come hanno reagito i suoi figli alla sua separazione?
    Sono contenta di essere riuscita a rendere bene la voce dei bambini- sono molto vicina ai miei figli e ho cercato di imitare la voce di mio figlio in quella di Ghili. Passo molto tempo con loro e cerco di identificarmi con loro, è come se sentissi le loro voci dentro di me. La mia storia però è diversa: quando mi sono separata da mio marito mia figlia aveva solo 4 anni ed era diversa da Ghili, era troppo piccola. Non ho attraversato questo processo penoso, però conosco alcune delle emozioni di Ella e ho usato dei ricordi di quel tempo- conosco i tragici sentimenti di una famiglia spezzata.

Una morte chiude il libro: la brevità della vita è qualcosa che dovremmo tenere sempre presente nelle difficoltà quotidiane?
    In un certo senso sì, volevo finire con un’esperienza che tutti e quattro i personaggi principali condividessero: erano così impegnati con la loro vita e alla fine si trovano insieme con una esperienza che non è la loro. Volevo che uscissero da sé davanti ad un dolore universale. La morte di una donna giovane è la morte delle illusioni, perché questa donna è simbolo della madre e della moglie perfetta. Ella l’ha invidiata a lungo, ricorda la festa a cui la donna aveva invitato tutti e adesso quella festa è diventata il funerale e mostra l’illusione della perfezione. Ella deve separarsi dall’illusione per essere matura e meno egoista, deve abbandonare l’illusione dell’amore romantico, deve lottare per dei momenti di felicità. Alla fine Ella sa che non sarà molto felice ma non è più così egoista, deve prendersi la responsabilità degli altri, di suo figlio, dei figli di Oded, di Oded stesso. Capisce che questa avventura della vita non ha anche fare con la felicità ma con il significato- la sua vita sarà più ricca di significato.

Parlando di morte: sappiamo che Lei è stata ferita in un attentato terroristico, qualche anno fa. Nel romanzo Oded dice che non c’è luogo all’aperto che sia sicuro per portarci i bambini. Le è rimasta questa paura, del pericolo di andare ovunque? Come si convive con questa paura?

    Vivevo nella paura anche prima di restare ferita nell’attentato- sono tanti anni ormai che in Israele viviamo con la paura, dalla seconda Intifada, nel 2000. Ci sono stati dei periodi in cui avevo paura persino a mandare i bambini a scuola. Tre anni fa camminavo sul marciapiede- andavo sempre a piedi perché avevo paura di prendere un autobus- ed è esploso l’autobus che mi passava accanto: quando è destino…Mia figlia tuttora corre via quando sente un autobus che si avvicina. E tuttavia si impara a convivere con la paura, a calcolare quale strada sia meglio fare…

Eppure non c’è quasi nessun riferimento nei suoi romanzi alla eterna guerra in Israele…
    E’ vero, ci sono pochissimi cenni nascosti alla situazione della vita in Israele; Oded ad un certo punto parla del trauma di un paziente- è un accenno piccolissimo autobiografico alla mia paura e a quello che mi è successo. Ho bisogno di questa separazione dalla realtà israeliana nella mia scrittura. Il pericolo è nello sfondo ma non voglio scriverne perché cerco nuove risposte nella mia scrittura. La letteratura è diversa dal giornalismo e, se scrivo della realtà, è troppo immediato e non mi interessa descrivere la realtà quotidiana in Israele. Cerco la profondità dell’animo, non so come fare letteratura dal terrore- è troppo tragico. Cerco piuttosto le tragedie nascoste nella situazione quotidiana della vita di coppia, della maternità. Non voglio scrivere del tragico conflitto o della tragedia palestinese.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"



                                                          

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