il libro ritrovato
Peter May, “L’uomo di Lewis”
Ed. Einaudi, trad. Chiara Ujka,
pagg. 362, Euro 18,50
Titolo originale: The Lewis Man
Fece scorrere la pagina e guardò
la fotografia della testa di un corpo trovato sessant’anni prima in una
torbiera in Danimarca. Un volto color cioccolato incredibilmente ben definito,
una guancia schiacciata contro il naso dal lato appoggiato per riposare, una
barba di qualche giorno ancora chiaramente visibile sul labbro superiore e sul
mento.
Il titolo italiano del secondo romanzo della
trilogia dello scrittore scozzese Peter May, “L’uomo di Lewis”, fa pensare
semplicemente a Fin Macleod, l’uomo dell’isola Lewis (nell’arcipelago delle
Ebridi, al largo della costa occidentale scozzese) che è il protagonista dei
libri di Peter May, il poliziotto che, ne “L’isola dei cacciatori di uccelli”,
ritornava sull’isola dopo vent’anni di assenza per indagare su un caso. Il
titolo originale, “The Lewis man”, ricorda, invece, ad un lettore inglese, “The
Tollund man”, una delle poesie più belle di Seamus Heaney, il poeta irlandese
che vinse il Nobel nel 1995 e che è scomparso da poco: Un giorno andrò ad Aarhus/ a vedere la sua testa scura come torba/, i
morbidi baccelli delle sue palpebre,/ il suo cappuccio di pelle a punta.
L’uomo di Tollund era stato trovato in Danimarca nel 1950, un corpo sepolto
nella torba la cui acidità l’aveva preservato intatto per duemila anni.
Il romanzo di Peter May inizia proprio
così, con il ritrovamento di un cadavere mentre uomini, donne e bambini stanno
tagliando zolle di torba, il combustibile più economico in tempi di crisi. Si
tratta di un uomo giovane e solo il materiale di una placca inserita nel suo
cranio per un qualche intervento chirurgico può permettere di datarne la morte
verso la fine degli anni ‘50 e non anche mille anni prima. Un altro dettaglio
conferma la data: un tatuaggio di Elvis Presley, con il titolo di una sua
canzone. Amava la musica del re del rock, il ragazzo sconosciuto, morto
sgozzato come per un sacrificio (proprio come l’uomo di Tollund) e sepolto
nella torba! Nel romanzo precedente era stato rilevato il DNA di tutti gli
abitanti del paese di Crobost per individuare il colpevole ed è in base a
quello che si scopre che la vittima deve avere un legame di parentela con
Tormod Macdonald, il padre di Marsaili, il primo amore di Fin Macleod che ora
non è più un poliziotto, ha divorziato e ha lasciato definitivamente Edimburgo
per tornare a restaurare la casa dei suoi genitori sull’isola.
Scrivere una trilogia di romanzi del genere
thriller ambientati su un’isola che ha otto abitanti per chilometro quadrato
non è facile- lo ha detto lo stesso scrittore durante il festival della
letteratura di Mantova di quest’anno. La gente non passa il tempo ad ammazzarsi
(per fortuna). Bravissimo Peter May, dunque, nell’ideare trame affascinanti che
spaziano dal passato al presente, nel tratteggiare personaggi di grande
spessore, nel raffigurare la vita dura e claustrofobica di gente che sa vivere
accontentandosi di poco, reggendo alla sfida di una natura selvaggia,
desiderando allontanarsi da quelle spiagge spazzate dal vento e incapaci però
di restare lontani a lungo dall’aria tesa, dal profumo del mare aperto, dalla
mancanza di confini in un orizzonte che si tuffa nel mare. Se ne “L’isola dei
cacciatori di uccelli” Peter May alternava la narrativa in prima e in terza
persona mantenendo un unico personaggio principale, Fin Mcleod, che ricordava
il passato e cercava un assassino in un presente collegato a quel passato, ne
“L’uomo di Lewis” lo scrittore affida le memorie del passato (narrate in prima
persona) ad un personaggio che suscita in noi compassione, rispetto, una pietà
ancora più grande quando veniamo a conoscere tutta la sua storia che ha
qualcosa di dickensiano nella rievocazione di orfanotrofi e bambini vessati.
L’anziano Tormod è affetto da demenza senile, non è un narratore affidabile,
soprattutto perché- come avviene nei casi come il suo- il tempo ha perso valore
per lui, fatti accaduti più di mezzo secolo prima gli sembrano appartenere
all’ieri, le sue lacrime davanti alla foto dell’uomo di Lewis ci straziano il
cuore. Il racconto in terza persona, invece, porta avanti l’inchiesta, il
riambientarsi di Fin sull’isola, il suo riallacciare il legame con Marsaili e
con il loro figlio- il finale, con tanto di mafia irlandese, è mozzafiato.
Non sarà facile attendere la pubblicazione del terzo libro, perché i
romanzi di Peter May sono di quelli che ti fanno amare i personaggi, ti fanno
desiderare di seguire ancora le loro vite. Sono bellissimi romanzi, prima
ancora di essere ‘thriller’. In più fanno venire la voglia di prendere un aereo
per Glasgow e da lì un volo locale per Stornoway, per ricevere in faccia le
sferzate del vento che viene dall’oceano.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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