cento sfumature di giallo
FRESCO DI LETTURA
Derek B. Miller, “Uno strano luogo per morire”
Ed. Neri Pozza, trad. Massimo
Gardella, pagg. 313, Euro 18,00, e-book Euro 8,99
Titolo originale: Norwegian by Night
Hanno fatto la stessa cosa
anche a noi, pensa sbirciando dallo
spioncino. La compassione svanisce ed è sostituita dall’indignazione latente
appena sotto la superficie delle sue abitudini quotidiane e risposte per le
rime.
Gli europei. Quasi tutti loro, in epoche diverse. Osservavano dallo
spioncino- i loro occhi sottili e loschi incollati alle lenti convesse per
guardare la fuga di qualcun altro- mentre i vicini di casa stringevano al petto
i propri figli e bruti armati li stanavano da un edificio all’altro come se
tutta l’umanità dovesse essere sterminata. Dietro lo spioncino alcuni erano spaventati,
altri provavano pietà, altri ancora gioivano della mattanza.
Che cosa ci fa un ottantaduenne ebreo americano, ex marine che ha
combattuto in Corea, a Oslo? Come ha fatto a finire lì, circondato dai volti
imperscrutabili di persone che parlano una lingua di cui non capisce una
parola? A dire il vero, non sa neppure lui perché si sia lasciato convincere a
sradicarsi dalla casa in cui ha vissuto con la moglie e il figlio, dalla strada
in cui c’era il suo negozio di orologiaio. Oppure lo sa benissimo: perché sua
nipote Rhea ha sposato un norvegese ed ora è incinta. C’è un bambino in arrivo.
Non potrà mai sostituire il figlio Saul che è morto in Vietnam, ma è ugualmente
una promessa per il futuro. E Rhea era preoccupata per lui, che avesse un inizio
di demenza senile, come sosteneva la nonna. Perché da un po’ di tempo Sheldon si
era messo a raccontare di essere stato un cecchino nella guerra di Corea, di
aver ucciso una dozzina di coreani, di aver ricevuto delle medaglie (com’è che prima
aveva detto solo di essere stato un furiere? E dove erano, poi, queste
medaglie?). Ed era certo che i coreani lo spiassero, che fossero pronti a
tendergli una trappola. Anche in Norvegia, figurarsi.
Il primo romanzo di Derek Miller, scrittore americano con una specializzazione
in politica internazionale che vive da anni con la moglie e i due figli a Oslo,
è uno dei migliori che mi sia capitato di leggere in questo inizio di anno.
D’altra parte è stato scelto come romanzo dell’anno (2013) da The Guardian, The Economist, The Financial
Times. E’ stato definito come ‘crime novel’ e la casa editrice Neri Pozza
l’ha inserito nella collana dei noir ma, come spesso avviene, qualunque
definizione va stretta a questo libro di Derek Miller che è, nello stesso
tempo, una storia di forte tensione con degli assassini pronti a tutto, una
visione sulla Storia che pare essere un
condensato di guerre- la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea, quella
del Vietnam, quella dei Balcani-, ognuna con i suoi orrori e il suo bagaglio di
morte, un esame delle responsabilità del ruolo dei genitori, una riflessione
sulla vecchiaia, i suoi limiti (tanti) e i suoi vantaggi (pochi ma preziosi), e
infine il racconto del viaggio avventuroso (e divertente, se non ci fossero gli
inseguitori con il fiato sul collo) di un vecchio e un bambino che ricorda,
volutamente, quello di Huck Finn e dello schiavo Jim.
Mentre si trova da solo nell’appartamento
della figlia, Sheldon Horowitz sente urla e colpi provenire dall’appartamento
di sopra. Non è la prima volta che sente quei due litigare in una lingua che
gli pare dei Balcani. Sente passi per le scale. Mette l’occhio allo spioncino e
vede una donna e un bambino. Stanno scappando. Sheldon, l’ebreo americano che
non aveva potuto arruolarsi perché troppo giovane all’epoca della seconda
guerra mondiale, fa quello che la maggioranza silenziosa d’Europa non fece.
Sheldon apre la porta e offre rifugio alla madre e al bambino. Non riuscirà a
salvare lei ma farà di tutto per sottrarre il bambino ai suoi inseguitori. E’
questo il filone della crime story con un protagonista eccezionale che sfodera
tutta la sua esperienza di ex marine (non c’è limite alle sue trovate, spesso
fantasiose e divertenti) per rimediare- se possibile- a quella che considera la
colpa più grave della sua vita: è stato il suo idealismo (ma era giusto, poi?),
sono state tutte le sue storie di guerra che hanno spinto suo figlio a
combattere in Vietnam, dove è morto. La vita del bambino, albanese o kosovaro o
serbo, per quella di Saul morto a ventidue anni. No, non è demente, Sheldon. Ha
l’artrite ma è in gambissima, se hai imparato ad usare un’arma, lo sai fare
sempre. Come andare in bicicletta. E’ solo che la sua mente vaga tra presente,
con tutti i sensi all’erta, e passato- il suo, in Corea, e poi gli anni con
Saul bambino e dopo con Saul adulto, e l’arrivo di Rhea-, vede amici che sono
già morti come se fossero lì, in carne e ossa, vive la fine di Saul come se
fosse stato con lui sul Mekong. Che male c’è se questi amici ‘della memoria’ gli
danno consigli, lo obbligano a riflettere, come se fossero il suo doppio?
“Uno strano luogo per morire” è un libro
che ha diverse chiavi di lettura- quella semplice del romanzo poliziesco (c’è
una coppia di poliziotti norvegesi un poco ‘fuori dal tempo’, spiazzati dal
caso complesso che si ritrovano a risolvere), quella ricolma dei problemi
dell’oggi, dall’immigrazione alla politica internazionale, e infine quella più
propriamente intimistica e umana, del vecchio che tira le somme alla fine della
vita. E comunque è impossibile dimenticare Sheldon Horowitz.
Nessun commento:
Posta un commento