venerdì 20 febbraio 2015

Derek B. Miller, “Uno strano luogo per morire” ed. 2015

                                                                  cento sfumature di giallo
      FRESCO DI LETTURA


Derek B. Miller, “Uno strano luogo per morire”
Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Gardella, pagg. 313, Euro 18,00, e-book Euro 8,99
Titolo originale: Norwegian by Night



   Hanno fatto la stessa cosa anche a noi, pensa sbirciando dallo spioncino. La compassione svanisce ed è sostituita dall’indignazione latente appena sotto la superficie delle sue abitudini quotidiane e risposte per le rime.
   Gli europei. Quasi tutti loro, in epoche diverse. Osservavano dallo spioncino- i loro occhi sottili e loschi incollati alle lenti convesse per guardare la fuga di qualcun altro- mentre i vicini di casa stringevano al petto i propri figli e bruti armati li stanavano da un edificio all’altro come se tutta l’umanità dovesse essere sterminata. Dietro lo spioncino alcuni erano spaventati, altri provavano pietà, altri ancora gioivano della mattanza.

   Che cosa ci fa un ottantaduenne ebreo americano, ex marine che ha combattuto in Corea, a Oslo? Come ha fatto a finire lì, circondato dai volti imperscrutabili di persone che parlano una lingua di cui non capisce una parola? A dire il vero, non sa neppure lui perché si sia lasciato convincere a sradicarsi dalla casa in cui ha vissuto con la moglie e il figlio, dalla strada in cui c’era il suo negozio di orologiaio. Oppure lo sa benissimo: perché sua nipote Rhea ha sposato un norvegese ed ora è incinta. C’è un bambino in arrivo. Non potrà mai sostituire il figlio Saul che è morto in Vietnam, ma è ugualmente una promessa per il futuro. E Rhea era preoccupata per lui, che avesse un inizio di demenza senile, come sosteneva la nonna. Perché da un po’ di tempo Sheldon si era messo a raccontare di essere stato un cecchino nella guerra di Corea, di aver ucciso una dozzina di coreani, di aver ricevuto delle medaglie (com’è che prima aveva detto solo di essere stato un furiere? E dove erano, poi, queste medaglie?). Ed era certo che i coreani lo spiassero, che fossero pronti a tendergli una trappola. Anche in Norvegia, figurarsi.

   Il primo romanzo di Derek Miller, scrittore americano con una specializzazione in politica internazionale che vive da anni con la moglie e i due figli a Oslo, è uno dei migliori che mi sia capitato di leggere in questo inizio di anno. D’altra parte è stato scelto come romanzo dell’anno (2013) da The Guardian, The Economist, The Financial Times. E’ stato definito come ‘crime novel’ e la casa editrice Neri Pozza l’ha inserito nella collana dei noir ma, come spesso avviene, qualunque definizione va stretta a questo libro di Derek Miller che è, nello stesso tempo, una storia di forte tensione con degli assassini pronti a tutto, una visione sulla Storia  che pare essere un condensato di guerre- la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea, quella del Vietnam, quella dei Balcani-, ognuna con i suoi orrori e il suo bagaglio di morte, un esame delle responsabilità del ruolo dei genitori, una riflessione sulla vecchiaia, i suoi limiti (tanti) e i suoi vantaggi (pochi ma preziosi), e infine il racconto del viaggio avventuroso (e divertente, se non ci fossero gli inseguitori con il fiato sul collo) di un vecchio e un bambino che ricorda, volutamente, quello di Huck Finn e dello schiavo Jim.
     Mentre si trova da solo nell’appartamento della figlia, Sheldon Horowitz sente urla e colpi provenire dall’appartamento di sopra. Non è la prima volta che sente quei due litigare in una lingua che gli pare dei Balcani. Sente passi per le scale. Mette l’occhio allo spioncino e vede una donna e un bambino. Stanno scappando. Sheldon, l’ebreo americano che non aveva potuto arruolarsi perché troppo giovane all’epoca della seconda guerra mondiale, fa quello che la maggioranza silenziosa d’Europa non fece. Sheldon apre la porta e offre rifugio alla madre e al bambino. Non riuscirà a salvare lei ma farà di tutto per sottrarre il bambino ai suoi inseguitori. E’ questo il filone della crime story con un protagonista eccezionale che sfodera tutta la sua esperienza di ex marine (non c’è limite alle sue trovate, spesso fantasiose e divertenti) per rimediare- se possibile- a quella che considera la colpa più grave della sua vita: è stato il suo idealismo (ma era giusto, poi?), sono state tutte le sue storie di guerra che hanno spinto suo figlio a combattere in Vietnam, dove è morto. La vita del bambino, albanese o kosovaro o serbo, per quella di Saul morto a ventidue anni. No, non è demente, Sheldon. Ha l’artrite ma è in gambissima, se hai imparato ad usare un’arma, lo sai fare sempre. Come andare in bicicletta. E’ solo che la sua mente vaga tra presente, con tutti i sensi all’erta, e passato- il suo, in Corea, e poi gli anni con Saul bambino e dopo con Saul adulto, e l’arrivo di Rhea-, vede amici che sono già morti come se fossero lì, in carne e ossa, vive la fine di Saul come se fosse stato con lui sul Mekong. Che male c’è se questi amici ‘della memoria’ gli danno consigli, lo obbligano a riflettere, come se fossero il suo doppio?

     “Uno strano luogo per morire” è un libro che ha diverse chiavi di lettura- quella semplice del romanzo poliziesco (c’è una coppia di poliziotti norvegesi un poco ‘fuori dal tempo’, spiazzati dal caso complesso che si ritrovano a risolvere), quella ricolma dei problemi dell’oggi, dall’immigrazione alla politica internazionale, e infine quella più propriamente intimistica e umana, del vecchio che tira le somme alla fine della vita. E comunque è impossibile dimenticare Sheldon Horowitz.

     

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