giovedì 12 febbraio 2015

Zeruya Shalev, “Quel che resta della vita” ed. 2013

                                                     Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                                                             il libro ritrovato


Zeruya Shalev, “Quel che resta della vita”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg. 373, Euro 17,00
Titolo originale: She’erit ha-chaim

Non capisci, Ghideon, sussurra, tutt’a un tatto ho capito che cosa dobbiamo fare, so che sulle prime ti sembrerà una follia ma se ci pensi bene allora capirai che sarà magnifico per tutti noi, e lui si muove nervosamente sulla sedia rovinata dal tempo e dalla pioggia, che cosa vuoi dire?, domanda, e allora per la prima volta lei si trova di fronte alle parole nude e crude, non sono più aleatorie come poco fa nella stanza di sua madre e nemmeno mute come erano sullo schermo dl computer, così ha un attimo di esitazione prima di pronunciarle a bassa voce: voglio adottare un bambino.


        Una donna anziana in una stanza d’ospedale. La figlia e il figlio vengono a trovarla- sono insofferenti, sentono come un obbligo il doversi occupare della vecchia madre. Sono entrambi sposati, Dina ha una figlia di sedici anni e Avner ha due maschietti. Intorno a questi personaggi la scrittrice israeliana Zeruya Shalev costruisce il suo romanzo “Quel che resta della vita”. Non è solo Hemda, nel suo letto d’ospedale, a fare i conti con come ha vissuto e a prospettarsi come voglia o possa impiegare il tempo che le resta da vivere. Anche Dina e Avner, per motivi diversi, tirano le somme ed entrambi arrivano a prendere delle decisioni sofferte che sconvolgono la loro vita e quella della loro famiglia.

    Che nome incongruo per la sua personalità, Hemda che significa ‘grazia’. Non c’era nulla di aggraziato in Hemda, la prima bambina nata nel kibbutz, una bambina infelice con una mamma sempre lontana con incarichi importanti, un padre che la amava ma che esigeva molto da lei, troppo. Chissà se era stato per un rifiuto del modello madre-figlia che Hemda non aveva amato Dina ed era stata, invece, appassionatamente legata al secondogenito Avner. Con tutte le conseguenze che possiamo immaginare.
In questo momento di bilanci, quando la prospettiva della morte della madre porta i due figli in prima linea nella corsa della vita, Avner (l’avvocato difensore dei diritti civili che viene chiamato per spregio ‘l’avvocato dei beduini’) mette in discussione il rapporto con la moglie che è stata anche la prima e unica ragazza che abbia avuto (e c’è, in contrasto, un’altra storia d’amore di cui Avner è stato testimone involontario), mentre Dina, quarantasei anni, si fa cogliere da un tardivo desiderio di maternità e vuole adottare un bambino.
     Nessuno di questi personaggi è felice, neppure la figlia adolescente di Dina alle prese con la delusione del primo amore. Ma che peso hanno i motivi di queste infelicità in paragone con quanto di più serio possa accadere, come la morte del giovane professore universitario che Avner ha spiato dietro la tenda dell’ospedale? Oppure tutti i casi di ingiustizia sofferti dagli arabi difesi in tribunale da Avner? Oppure- ed è la riflessione su cui si chiude il libro- la tristezza dipinta sul visino di un bambino di due anni che attende, sulla seggiolina di un orfanotrofio, che qualcuno lo voglia, che una mamma lo porti via al posto della sua, di mamma, che lo ha abbandonato. Prenderà un altro nome, questo bambino, si chiamerà Hemdat e, chiudendo il cerchio di infelicità che è incominciato con Hemda, segnerà un nuovo inizio, un impegno d’amore per quel che resta della vita.


       “Quel che resta della vita” non deve essere stato un romanzo facile da scrivere perché questo nucleo famigliare, non diversamente da molti altri, si avvita su esperienze dolorose del passato- se Dina e Avner soffrono è perché la loro madre ha a sua volta sofferto, e così pure i genitori dei loro genitori- e la narrazione di Zeruya Shalev non è lineare, passa da ricordi del passato al presente, da un personaggio all’altro, allacciando un capitolo a quello seguente nel suo stile particolare fatto da un flusso narrativo che mescola la riflessione, o il monologo interiore, al dialogo. La scrittrice è, però, bravissima nell’esplorare le dinamiche dei rapporti tra mogli e mariti, tra genitori e figli, nel sondare l’incertezza davanti ad un bivio che obbliga ad una scelta, nella disanima impietosa delle strade scelte e di quelle scartate. E allora Dina, tanto criticata da tutti, accusata di volere un altro figlio per uno squilibrio ormonale dell’età, diventa il simbolo positivo di una presa di posizione per non avere rimpianti di sorta in ciò che si fatto in ‘quel che resta della vita’.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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