Voci da mondi diversi. Asia
testimonianze
FRESCO DI LETTURA
Blaine
Harden, “Fuga dal campo 14”
Ed. Codice, trad. I.Oddenino,
pagg. 290, Euro 14,37, ebook Euro 4,99
Shin Dong-hyuk ha iniziato a vivere a
ventitre anni. Perché si può considerare vita quella vissuta interamente in un
campo di prigionia, senza neppure sapere che esiste un mondo al di là delle
recinzioni elettrificate? Forse sì, a livello animale. No di certo a quello umano,
se un essere umano si differenzia dalle bestie per la capacità di pensare, di
agire valutando le conseguenze delle azioni e di avere una coscienza. Shin era nato nel campo 14, uno dei peggiori
campi di prigionia della Corea del Nord, figlio di due prigionieri politici a
cui veniva permesso di dormire insieme un paio di notti all’anno, come
ricompensa per il lavoro ben svolto. Non aveva mai avuto altri orizzonti che
quelli del campo. La fame cronica, il freddo, l’essere ricoperto di stracci, la
mancanza totale di igiene, le percosse, le torture, le sparizioni, le
esecuzioni pubbliche: tutto rientrava nella norma per lui che non conosceva
altro. Leggendo la storia di Shin come la racconta per lui il giornalista
Blaine Harden, ho pensato al noto caso di Kaspar Hauser, il ragazzo che apparve
in una piazza di Norimberga all’età di sedici anni- biascicava qualche parola
che forse era il suo nome, tollerava mangiare solo pane e acqua; dopo mesi di
terapia, quando imparò a parlare, rivelò di essere rimasto rinchiuso in una
cella per dodici anni, al buio e incatenato al pavimento. Kaspar, tuttavia,
aveva un solo carceriere che gli portava da mangiare e lo picchiava se faceva
qualche rumore. Nel campo 14 c’erano le guardie e poi tutta una gerarchia di
sorveglianti aguzzini che stroncavano qualunque minimo tentativo di
insubordinazione, di furto, di amicizia, o anche solo di lavorare di meno.
La vicenda di Shin è agghiacciante.
Quello che dà la misura della sua esperienza sconvolgente è l’episodio centrale
della sua vita, quello che, dopo essere fuggito dal campo nel 2005, raccontò
prima in una versione ‘edulcorata’ e poi nella nuda e crudele verità: aveva
tredici anni quando, avendo sentito che la madre e il fratello maggiore stavano
programmando la fuga, li denunciò. Tutti i sistemi dittatoriali hanno
incoraggiato la delazione- quando si striscia quotidianamente nella melma, la
speranza di un solo chicco di granturco come premio vale la vita di chi ci ha
messo al mondo. L’abbrutimento sistematico dell’individuo è la colpa più grave
dei campi di prigionia, siano nazisti o comunisti. Considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/ che non conosce
pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no. Primo Levi
parla anche di Shin Dong-hyuk. Ci vorrà del tempo, molto tempo, prima che Shin,
arrivato in America, provi il peso tremendo della colpa. Non si può parlare di
colpa in un luogo in cui i sentimenti non esistono, dove esiste solo la forza
bruta. Shin era stato torturato, dopo l’arresto della madre e del fratello. Le
braccia di Shin sono tuttora distorte per le torture subite, la sua schiena ha
le cicatrici delle ustioni. E comunque non era stato l’esempio della madre e
del fratello a spingerlo a fuggire. O l’immagine della loro esecuzione a trattenerlo
dal farlo. Se non ci aveva mai provato, era stato per l’assenza totale
dell’immaginazione che si potesse fuggire. Finché un nuovo prigioniero, una
persona colta che aveva studiato e viaggiato fuori della Corea del Nord, riuscì
a risvegliare il suo interesse, a fargli barluginare la possibilità di una vita
diversa.
Blaine Harden si fa interprete di una
storia tragica, ma non ci parla soltanto dell’esperienza di Shin. Traccia anche
la Storia della Corea, ascolta opinioni sull’auspicabilità di una riunione
delle due Coree (nessuno la desidera, nella Corea del Sud, la frattura è troppo
grande), riferisce lo spaesamento e l’incapacità dei nord coreani che hanno
trovato rifugio al Sud dopo mille peripezie ad ambientarsi tra gente ormai
troppo diversa da loro (perfino la lingua è diversa), sottolinea infine il
problema morale davanti a cui il mondo (siamo tutti noi) si trova: le immagini
dai satelliti sono chiare, i campi di prigionia sono ben in vista, perché non
si fa nulla, dunque? Perché si assiste allo spettacolo del mostro che divora il
suo popolo?
Ciao, anche io ho finito da poco questo libro e ne sono rimasta spiazzata benchè più o meno conoscessi già la situazione politica della Corea del Nord.
RispondiEliminaE' ingiusto che la grande problematica della Corea sia circondata dal silenzio e non mi spiego come il mondo possa ignorarla visti i numeri e le evidenti prove dell'esistenza di quanto il governo di Pyongyang si ostina a negare.
Un applauso sincero a Harden per aver reso la lettura snella e non pensante come invece si ritrova in molti libri che parlano di altri campi di concentramento. Snella, si, ma non per questo meno incisiva.
Se ti interessa leggere la recensione che ho postato sul mio blog ti lascio il link: Raggy - Recensione de Fuga dal Campo 14.
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