lunedì 1 dicembre 2014

Jan Brokken, "Anime baltiche" ed. 2014

                                                vento del Nord
                                                 fresco di lettura


Jan Brokken, “Anime baltiche”
Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, pagg. 472, Euro 19,50
Titolo originale: Baltische zielen


    “Che cosa ci fa su questa nave?” mi chiese in inglese uno dei doganieri.
   “Volevo vedere il mar Baltico”, risposi assonnato.
  “Perché, cos’ha di speciale?”
  “Secondo i marinai è il più bello di tutti.”
  “Mai notato.”
  “E’ la luce ad essere speciale. Morbida e calda.”
  “La luce?”  gli uomini si scambiarono un’occhiata.
 “In autunno si infiamma”.
 “E lei cosa fa di lavoro?”
 “Lo scrittore.”
                                       “Ah!”
                                      Un pazzo, ma non pericoloso.


      Una volta tanto, un titolo perfetto, “Anime baltiche”, per questo libro dell’olandese Jan Brokken. Ho pensato ai “Dubliners” di Joyce, tradotto in italiano con “Gente di Dublino”. Ma no, “Gente del Baltico” non andrebbe bene, perché è vero che i personaggi che popolano le pagine del libro sembrano ancora aggirarsi in carne ed ossa per le strade di Riga, di Vilnius, di Kaliningrad o di Tallinn, ma c’è qualcos’altro, un che di spirito baltico che le accomuna, un’essenza baltica che aleggia sulle città e sulle persone, o forse c’è anche un destino baltico che ha a che fare con la Storia tormentata delle tre repubbliche. Ed è proprio l’anima baltica che fa da filo conduttore in questo libro che non è un romanzo, ma che si legge come un romanzo, che non è un saggio storico ma che ci dice tantissimo sulla Storia di Estonia, Lettonia, Lituania (le imparavamo in questo ordine, a scuola, chissà perché, forse era più facile memorizzare i suoni allitterati).

  Il viaggio di Brokken nel Nord incomincia da Riga, sulle tracce della famiglia del libraio Jānis Roze e poi su quelle dei due Eizenštein, Michail l’architetto e Sergej il regista. Con i Roze veniamo iniziati alle storie delle deportazioni in Siberia, storie di viaggi allucinanti, sempre uguali qualunque fosse il punto di partenza. Con i Roze si parla di libri, con Michail Eizenštein di architettura, con suo figlio Sergej di cinema- sempre arte è, capace di farci dimenticare le debolezze degli uomini. Sergej poteva disprezzare suo padre, ma le case liberty di Alberta Iela che vediamo con gli occhi di Jan Brokken, con quegli stupefacenti colori mediterranei che rischiarano il grigiore del Nord, resteranno sempre lì a farsi ammirare, soprattutto ora che sono state restaurate. Il cinema di Sergej, poi, interpretato per noi attraverso i suoi sentimenti e le sue esperienze di vita, acquista un valore aggiunto che ci invoglia a rivedere le vecchie pellicole. Gidon Kremer e il suo violino, Roman Kacev di Vilnius che noi conosciamo come Romain Gary,
lo scultore Lipchitz, Hannah Arendt di Kaliningrad, lo scrittore von Keyserling, il pittore Rothko (ma si chiamava Rothkowitz prima dell’emigrazione), l’estone Arvo Pärt: di questi e di altri personaggi ancora che non sono mai diventati famosi, Jan Brokker ci racconta. La loro vita, la loro famiglia, le loro storie dentro la Storia, le complicate vicende di stati che sono passati dall’indipendenza al dominio russo e poi a quello tedesco per ritornare a far parte dell’Unione Sovietica ed infine all’agognata indipendenza. Ci parla di fughe, di nascondigli per sopravvivere, di interi quartieri spazzati via, di famiglie intere scomparse, della catena umana lunga 600 chilometri (da Tallinn a Vilnius) e composta da due milioni di persone che, il 23 agosto 1989, rivendicavano l’indipendenza, di musica e di letteratura, di una natura bellissima fatta di boschi e laghi, di lunghi giorni bui e di giorni chiari altrettanto lunghi.

      E’ un racconto prezioso, quello di Jan Brokker, perché salva la memoria. Come nel bellissimo “Gli scomparsi” di Daniel Mendelsohn, fa rivivere per noi un mondo scomparso che tuttavia, nonostante tutto, non è stato annientato definitivamente. Grazie all’arte, soprattutto. Sembra quasi che- e forse è proprio così- quando le condizioni della vita sono dure al limite della sopportazione, lo spirito cerchi nell’arte una maniera per liberarsi dai ceppi, qualunque sia la forma dell’arte. Ci colpisce quanti di questi geni dell’arte siano ebrei, come se la bilancia della sofferenza debba pareggiare quella della grandiosità, e Jan Brokken riesce ad equilibrare fatti privati, traumi infantili, vicende sentimentali e risultati noti, creando immagini piene e vitali, illustrando i suoi racconti con fotografie- di case, genitori con bambini, bambini diventati adulti, quadri, sculture. Riesce a comunicarci il brivido degli spettatori nella sala dove si eseguì per la prima volta il Credo di Arvo Pärt, l’espressione di rivolta contro l’ateismo imposto, ma anche lo strazio per la ragazza che chiedeva se avrebbe ancora potuto ballare dopo essere stata travolta da un carro armato sovietico durante una manifestazione a Vilnius.
   Un libro bellissimo.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it






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