mercoledì 3 dicembre 2014

Henning Mankell, "Scarpe italiane" ed. 2006

                                                                   vento del Nord
                                                                    il libro ritrovato


Henning Mankell, “Scarpe italiane”
Ed. Marsilio, trad. Giorgio Puleo, pagg. 332, Euro 18,00

Titolo originale: Italienska skor


      Una figura nera si stagliava contro la distesa bianca.. Il sole era vicino all’orizzonte. Socchiusi gli occhi per distinguere chi fosse. Vidi che era una donna, sembrava appoggiata a una bicicletta. Ma poi mi resi conto che si trattava di un deambulatore. Tremavo per il freddo.. Chiunque fosse, non potevo restare lì nudo, accanto al mio buco. Mi affrettai a tornare in casa chiedendomi se avessi avuto una visione.

   C’è un tipo di solitudine che è solamente nordica: è questa la nostra prima riflessione, dopo aver terminato la lettura di “Scarpe italiane” di Henning Mankell. Perché ci pare impossibile identificare la solitudine assoluta, quella del corpo e dell’anima, con il blu del cielo e del mare del Mediterraneo, con il calore del sole. Mentre il bianco di ghiaccio e neve a perdita d’occhio, il gelo che stringe il cuore in una morsa, sono l’assenza di colore di chi vive da solo e la mancanza di palpiti di chi non ha affetti. Come è per il protagonista di questo romanzo dell’età matura di Mankell, un uomo di sessantasei anni che una volta era un chirurgo e adesso vive nella casa dei nonni, in un’isola di un arcipelago al largo di Stoccolma. Assolutamente solo, con un vecchio cane, un gatto e un formicaio, la sua solitudine interrotta dalle visite del postino che arriva a giorni fissi in hydrocopter. Ogni mattina lui fa un buco nel ghiaccio e si immerge nell’acqua gelida. Per sentirsi vivo. Per punirsi, forse. Perché Fredrik Welin accenna ripetutamente al fatto di aver interrotto la carriera tredici anni prima, senza dircene il motivo fino a quasi metà libro, ma possiamo anche immaginarlo. Un giorno sul ghiaccio appare una figura- e questa è una scena così incisiva, che intuiamo così densa di significato, da sembrare quella di un film in bianco e nero, magari un film di Bergman (che, non è un caso, era il suocero di Mankell). Perché la figura intabarrata avanza spingendo davanti a sé un girello ed è la donna che Welin aveva amato e lasciato in asso trentasette anni prima.

    E pur se le scarpe sono una metafora amorosa e sessuale- e si ritorna spesso nel libro sul tema dell’importanza delle calzature-, “Scarpe italiane” non è un romanzo d’amore, piuttosto un romanzo sul rimpianto d’amore, sull’incapacità di riconoscere il valore dei sentimenti nel momento in cui li viviamo, sulla pietas che finisce per prendere il posto dell’amore. Ed è anche un romanzo sulla capacità di affrontare le proprie colpe, pagando il prezzo che c’è da pagare. Perché la donna che cammina sul ghiaccio del passato è gravemente ammalata ed è venuta a cercare l’innamorato di un tempo per esigere da lui l’adempimento di una promessa: che la porti a vedere il lago di cui le aveva parlato, dove suo padre aveva portato lui, bambino di dieci anni.
   Inizia quindi il viaggio di questi due personaggi, verso dove? Il lago incantato? L’attimo magico dell’amore della giovinezza? O la morte?
Perché la morte sembra essere sempre in agguato in queste pagine; come se l’alce morto, o il cane, o il gabbiano, o la vecchia signora alla cui casa arrivano guidati da un cane fedele, o la ragazza che gira con una spada da samurai, non fossero altro che un’anticipazione della morte di Harriet, tenuta a bada da medicine e alcool, mentre Welin si prende cura di lei con tiepido affetto che non è certo amore. Il viaggio dei giovani è sempre un viaggio di scoperta, o di formazione; un viaggio di due persone anziane è un viaggio di resa dei conti, anche se c’è una scoperta che Welin farà. E chissà se la sua vita sarebbe stata diversa, se avesse saputo prima. E comunque la consapevolezza improvvisa di aver causato tanto dolore lo porta inevitabilmente anche a riaprire la pagina della sua sconfitta come medico.
Alla fine del libro, dopo che così tanto è successo in così poco tempo, Fredrik Welin è un uomo diverso, non sente più la necessità di immergersi nel buco nel ghiaccio e la solitudine gli pesa- c’è sempre ammenda possibile per chi ha il coraggio di riconoscere gli errori.

    Forse c’è troppo, nel romanzo di Mankell. Forse alcune delle vicende, quella delle ragazze problematiche ad esempio, sono in eccesso, e tuttavia “Scarpe italiane” è un libro molto bello, che ha la tristezza di un tramonto su una distesa ghiacciata, la malinconia della vita che sta per terminare. Ed è meglio tenersi pronti per la fine.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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