venerdì 19 dicembre 2014

Pina Ligas, "Solo il mio silenzio" ed. 2014

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia
          FRESCO DI LETTURA


Pina Ligas, “Solo il mio silenzio”
Ed. Pintore, pagg. 202, Euro 15,00

    “No che non va bene! Tu hai sbagliato e tutti noi paghiamo il tuo sbaglio, cosa credi che se ti intestardisci come un asino tutto si risolve? Pensa solo a questo figlio come dovrà crescere. Pensa a noi, ai tuoi fratelli e a Juanne che dovremo abbassare la testa quando ci faranno il verso del bue. A tua sorella quando verrà additata come la sorella della bagassa”.

   Diciamo, ‘Sardegna’. E pensiamo a sole, mare di un blu che è inutile andare a cercarlo alle Seychelles, spiagge di sabbia bianca, Costa Smeralda, estate, atmosfera spensierata di vacanza. Non pensiamo all’altra Sardegna carica di tradizioni e di un peso millenario di stenti, sfruttamento, malattie endemiche come la malaria o il favismo che hanno alterato la struttura ossea degli abitanti. Non pensiamo alla chiusura che è propria di un’isola dove è giocoforza che le idee innovative e i cambiamenti arrivino con ritardo e vengano accolti con diffidenza. E’ questa Sardegna dove il colore dominante è il nero dei fazzoletti che coprono il capo delle donne che fa da sfondo nel romanzo dolente di Pina Ligas. 

     Si intitola “Solo il mio silenzio”, perché il silenzio è il muraglione di difesa dell’isola e degli isolani, solo il silenzio può sviare una vendetta o una rappresaglia, può difendere fino alla morte un segreto gelosamente custodito. Il silenzio pesa su cinque generazioni di Ferrai: quando Vittoria, figlia di Juanne Ferrai, mette al mondo un figlio senza essere sposata, nessuno e niente riesce a farle dire il nome di chi l’ha messa incinta. Il bimbo è biondo, ha gli occhi chiari, quando mai il padre le ha permesso di andare a servizio da dei continentali? Vittoria tace, sa fin troppo bene che un nome darebbe inizio ad una catena di sangue. Chiama il figlio Vincenzo, non è un nome di famiglia. Sempre, in ogni luogo, un bastardo è oggetto di canzonature e insulti, figurarsi in Sardegna. Burdiscu. E’ un marchio che Vissente si porterà dietro tutta la vita. Insisterà a chiedere a sua madre fin sul letto di morte di dirgli il nome del padre. La sua famiglia vivrà chiusa, ‘blindata’ in un’isola chiusa- Vincenzo non permetterà che alle sue figlie succeda quello che è successo a sua madre. Peggio ancora, le sue figlie non si sposeranno neppure, ci penserà lui ad allontanare i pretendenti. E peccato che nessuna di loro voglia entrare in convento, sposare Cristo come hanno fatto due cugine. Soltanto una di loro, la piccola Silvia, sfuggirà alla sorveglianza paterna, solo lei si sposa. Ma finirà veramente con lei l’ossessione della verginità e dell’onore?
   Se questa è la storia di fondo che scorre nelle pagine del romanzo, altre piccole storie ampliano la vicenda famigliare, ci fanno conoscere la vita della Sardegna di fine ‘800 e della prima metà del ‘900, quali siano state le conseguenze negative dell’unità d’Italia per l’isola, il durissimo lavoro in miniera senza alcuna tutela per i minatori (Giulio, uno dei figli di Vincenzo, emigra in America per sfuggire al buio tombale della miniera di carbone), la migrazione degli abitanti della marina verso la montagna per salvarsi dal clima insalubre, la diffusione della malaria che falcia vittime in ogni famiglia prima delle bonifiche mussoliniane, quell’altra malattia, il favismo, che è diventata parte del patrimonio genetico sardo e che colpisce la bimba Silvia.
    Il linguaggio che impiega Pina Ligas per raccontarci la sua Sardegna è colloquiale, popolare e spontaneo, e ben ci stanno alcuni termini dialettali, muccadore, valentia, biddunchi, burdiscu (niente paura, una nota a pié pagina traduce le parole), non solo perché danno colore, ma perché sono quelli ‘giusti’ in questo contesto, aggiungono forza e drammaticità alla narrazione.
Il romanzo di Pina Ligas ha il sapore del realismo verghiano. Nonostante i colori che balenano nelle descrizioni della natura, “Solo il mio silenzio” è come un film in bianco e nero. Anzi, è come se il bianco e il nero- soprattutto il nero- lottassero per spegnere i colori, per soffocare l’anelito alla gioia, come se questa fosse una colpa. Un romanzo aspro e ruvido quanto i cespugli di lentisco o di ginestra che ricoprono l’isola.


la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it





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