vento del Nord
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Arnaldur Indriðason, “Un grande gelo”
Ed. Guanda, trad. Silvia
Cosimini, pagg. 300, Euro 17,00
E’ un romanzo
agghiacciante, questo “Un grande gelo” dello scrittore islandese Arnaldur
Indriðason. A lettura terminata sembra di avere il cuore in una morsa di
ghiaccio, e non perché si svolge nella gelida Islanda, non perché ci siamo
imbattuti in una serie di morti raccapriccianti, non perché sia un tipo di
thriller che ci fa controllare se la porta di casa è ben chiusa e se abbiamo
abbassato le tapparelle. Tutt’altro: muore ‘solo’ un bambino, all’inizio del
romanzo, e non abbiamo mai veramente il timore che ci possa essere un’altra
vittima. Ma, quando si scopre il colpevole, quando ascoltiamo le motivazioni
del crimine, la banalità del male ci sconvolge più di quanto potrebbe fare la
sua eccezionalità. E ci rendiamo conto che il Male non ha confini, che non c’è
una geografia del Male. E che spesso non è solo l’esecutore del crimine ad
essere colpevole.
Tutti parlavano
bene del bambino che è stato trovato morto nell’area dei giardini condominiali
del grosso edificio in cui abitava. Era un bel bambino di dieci anni, bruno.
Assomigliava alla mamma thailandese e non al padre islandese. I genitori erano
separati, il piccolo Elías aveva un fratello maggiore che la madre aveva avuto
da una relazione precedente, in Thailandia. Il commissario Erlendur Sveinsson,
che abbiamo appreso a conoscere bene nella serie dei romanzi di indagine
poliziesca di Arnaldur Indriðason, indaga sul delitto, insieme a Sigurður Óli e
a Elínborg. Il primo luogo dove si svolgono le ricerche e si fanno domande è la
scuola frequentata da Elías. Quello che salta fuori è sconcertante. In una
nuova realtà sociale di forte immigrazione, in Islanda come negli altri paesi
europei, affiora un forte razzismo nei confronti degli stranieri, e proprio
nella scuola, che dovrebbe essere un luogo di cultura dove si suppone che la
conoscenza debba sconfiggere i pregiudizi dettati dall’ignoranza.
Ci sono stati
episodi di bullismo tra gli alunni, sono volati pesanti insulti, c’è stato
qualche scazzottamento. Niente di tremendamente grave, ma un segnale d’allarme.
Soprattutto c’è qualche insegnante che fomenta l’intolleranza, che pronuncia
frasi pericolosamente estreme, “l’Islanda agli islandesi”, che vorrebbe
sbattere fuori gli stranieri, rimandarli là da dove sono venuti (purtroppo
certi slogan sono uguali ovunque). E’ stato un delitto di matrice razzista? Il
colpevole è l’insegnante con cui Niran, il fratello interamente tailandese di
Elías, aveva litigato? Oppure c’è altro dietro la morte di Elías, è stato forse
ucciso da un pedofilo riapparso dopo anni sulla scena?
Mi stupisco sempre (anche se ormai non
dovrei più stupirmi) della capacità che gli scrittori nordici di gialli o noir
hanno di elaborare una trama profonda, partendo da uno spunto non originale, di
ampliare la tematica, di riproporla sotto la forma di storie diverse, di
trovare in piccole storie agganci con la storia principale. Così, in “Un grande
gelo”, c’è un’idea centrale che è una forte denuncia della discriminazione. Ma
è esaminata da diverse angolature, prospettandoci dapprima il fascino
dell’esotico che gli uomini del Nord sentono, quando vanno in vacanza nei
paradisi d’Oriente, la maniera in cui sfruttano a loro vantaggio l’attrattiva
di una sicurezza economica sconosciuta alle donne di laggiù, e poi le
difficoltà che gli immigrati incontrano- lo shock del clima, la barriera della
lingua, la ricchezza che si rivela essere un inganno, dato il costo della vita.
In più, c’è il problema dei figli, presi tra due mondi e due culture, due
lingue e spesso due nomi diversi.
Oltre a questo, c’è anche un risvolto più intimo e
personale, perché l’assassinio del piccolo Elías tocca corde diverse nei tre
poliziotti che conosciamo. Elínborg, l’unica donna, avverte più degli altri lo
strazio della madre, perché è madre anche lei e ha appena avuto la figlia
ammalata (ma che cosa è un’influenza a paragone della morte?); Sigurður è
toccato in un’altra duplice maniera: qui c’è un bambino morto e lui e sua
moglie non riescono ad avere figli; qui c’è un bambino morto che è thailandese
e sua moglie insiste per adottare un bambino straniero. Quanto al nostro
Erlendur, i cui figli sono adulti e gli danno sempre problemi, rivede in Elías
e Niran se stesso e il suo fratellino, il senso di colpa di Niran che non ha
saputo proteggere Elías è quello di Erlendur che non si perdonerà mai di aver
lasciato andare la manina del fratello nella tormenta di neve.
Anche questa
volta Arnaldur Indriðason non ci ha deluso.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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