venerdì 29 agosto 2014

Wibke Bruhns, "Il cospiratore" ed. 2005

                                          Voci da mondi diversi. Area germanica               
                                                          la Storia nel romanzo              
il libro ritrovato



Wibke Bruhns, “Il cospiratore”
Ed. Longanesi, trad. Umberto Gandini, pagg. 387, Euro 19,00

I Klamroth: una famiglia tedesca benestante, una grande dimora, cavalcate mattutine, riunioni famigliari, un po’ di musica e buone letture, tutto con decoro e moderazione, secondo un codice improntato al senso del dovere, dell’obbedienza e dell’onore. Hans Georg Klamroth, il padre della giornalista e scrittrice Wibke Bruhns, apparteneva alla generazione che ha fatto due guerre, giovanissimo nella prima, già con moglie e cinque figli nella seconda. Con una documentazione ricca di lettere e diari, attraverso la storia della sua famiglia Wibke Bruhns ripercorre la storia della Germania dagli inizi del secolo: la prima guerra mondiale, il peso della sconfitta e il crollo economico che preparano l’avvento del nazismo, accolto dapprima con diffidenza e poi con un entusiasmo privo di fanatismo dai Klamroth, la seconda guerra mondiale e infine l’attentato a Hitler per cui suo padre, che sapeva del complotto ma aveva taciuto, fu condannato a morte.



INTERVISTA A WIBKE BRUHNS, autrice de “Il cospiratore”


20 luglio 1944, una data che avrebbe potuto segnare un percorso diverso della Storia, se il tentativo di uccidere Hitler avesse avuto successo. In casa Klamroth furono due i condannati a morte per impiccagione per aver preso parte all’attentato: il padre di Wibke Bruhns e il marito di sua sorella Ursula, pure lui con il cognome Klamroth in quanto cugino alla lontana. Eppure era sceso il silenzio su quei fatti, dopo la guerra la madre di Wibke non aveva mai voluto parlare di quegli anni. Paura per la famiglia dapprima? Un voler mettere una pietra sul passato poi, quando si era venuti a  conoscenza della portata degli orrori commessi dalla Germania? A 60 anni di distanza Wibke Bruhns esplora quel passato, in una ricerca accuratissima nel tesoro di carte famigliari, citando frasi, osservando fotografie, scoprendo segreti della vita di coppia dei genitori (in un certo periodo avevano condotto un allegro ménage a quattro), costruendo anno dopo anno, pagina dopo pagina, l’immagine del padre che quasi non ha conosciuto- per ringraziarlo per quello che ha fatto, per quel complotto fallito che ha alleviato il peso dei figli, eredi di un passato pesante della Germania, per ricordare, per farlo vivere oltre il suo tempo. Wibke Bruhns, nata a Halberstadt nel 1938, è stata la prima donna a condurre il più seguito telegiornale tedesco nel 1971, in seguito è stata corrispondente del settimanale Stern in Israele e negli Stati Uniti. Attualmente vive a Berlino, dove Stilos l’ha incontrata.


All’inizio del libro lei spiega che l’origine della sua ricerca è dovuta ad un film che ha visto in televisione sul fallito attentato a Hitler e ha riconosciuto suo padre tra le persone in tribunale. Che cosa sapeva di suo padre?
H.G.Klamroth durante il processo
       Era il 1979, quando ho visto il filmato sull’attentato: di mio padre sapevo tutto, che era stato un ufficiale, un membro del servizio segreto militare in Danimarca e in Russia e che era stato giustiziato per aver preso parte al complotto contro Hitler. Ma non lo avevo quasi conosciuto, avevo cinque anni quando è morto, non sapevo che persona fosse. Mi sono messa a scrivere il libro non tanto perché lo volevo conoscere di più, quanto perché pensavo che questi uomini che erano stati condannati a morte erano stati trasformati in eroi da leggenda perché rappresentavano la parte buona della Germania. Il nome di mio padre si trova sui monumenti alla resistenza, ma è uno tra tanti. Sentivo che questo, in qualche modo, sottraeva qualcosa alla sua personalità individuale. E mi sembrava che non si potesse fare questo a qualcuno, non puoi ridurlo ad uno tra tanti. Mio padre aveva un ruolo nella riabilitazione della Germania, ma ci perdeva come essere umano. Quando ho visto il filmato del processo, è successo qualcosa dentro di me, perché è diverso vedere qualcuno in un film piuttosto che in una fotografia. I filmati che Hitler aveva fatto girare, perché venissero proiettati nei cinema, erano scomparsi- solo il sonoro era rimasto in circolazione, ma non le immagini- e sono poi riapparsi a distanza di tantissimi anni. Hitler intendeva spaventare il pubblico, dare una lezione con lo spettacolo delle punizioni- perché anche le impiccagioni furono filmate. Ma la reazione suscitata fu l’opposta: il pubblico era furibondo per il modo in cui il presidente della corte trattò gli imputati. Erano tutti eroi di guerra, avevano delle medaglie e lui li trattò come fossero dei topi di fogna. Alla gente non piacque, e la proiezione dei film venne sospesa. Io volevo far conoscere mio padre per la persona che era e non nella funzione che gli era stata data, del tipo ‘come siamo fortunati che siano esistite persone così.’ Persino nella morte era stato accomunato agli altri, perché le esecuzioni venivano fatte a sei per volta: sentivo la necessità di restituire a mio padre la sua individualità, di differenziarlo dagli altri.

Come mai la sua famiglia non è stata toccata, neppure sua sorella Ursula, il cui marito aveva preso parte attiva al complotto? Molte altre famiglie dei cospiratori sono state punite insieme ai loro uomini.
     Nell’agosto del 1944, nei suoi discorsi Himmler disse che le famiglie dei colpevoli dovevano essere estirpate, perché erano sangue cattivo, ma non diede regole strette su come questo dovesse essere fatto. Paradossalmente vennero dati due ordini contrastanti: che tutti i famigliari fossero uccisi e che venissero dati mezzi di sussistenza alle vedove e ai figli. Così molte donne furono portate a Ravensbrück, ai bambini venne cambiato il cognome, e poi, dopo tre mesi, tutto tornò come prima, le famiglie ebbero il permesso di tornare a casa. Il Reich non era così ben organizzato, dopotutto.  
Donne a Ravensbruck

Come ha potuto sopravvivere ai bombardamenti tutta la documentazione che lei riporta? Fa riferimento ad un tesoro di lettere, diari, incartamenti, qualcosa che la nostra generazione non lascerà certo dietro di sé. Suo padre ha lasciato una registrazione straordinaria del suo tempo.
     Halberstadt- dove vivevamo noi- fu bombardata e la città fu distrutta all’80%, ma la nostra casa rimase miracolosamente intatta. Quanto all’abitudine di scrivere, allora era una questione di classe sociale. La gente, a quei tempi, scriveva tutto e nella mia famiglia l’abitudine di scrivere lettere domenicali fu mantenuta finché mia madre poté usare la macchina da scrivere. Per tantissimi anni ho ricevuto dai mio fratello e dalle mie sorelle una lettera settimanale: ognuno di noi scriveva una lettera in copia di carta carbone, in modo che ognuno ricevesse la sua, come aveva fatto sempre mio padre. La domenica era il giorno per scrivere lettere.
    Io avevo già letto le lettere che mio padre aveva scritto alle mie sorelle, perché loro me le avevano date, ma tutta la documentazione personale era nei cassetti dello scrittoio di mia madre e io non la toccai fino a dopo la sua morte: sapevo che le lettere e i diari di mio padre erano là, perché l’avevo spesso aiutata nei traslochi, ma non ho mai chiesto di vederli. Mi ci sono voluti più di tre anni per esaminare tutte le sue carte.

La sua ricostruzione della vita famigliare dall’inizio del secolo rende chiaro come fu facile per loro- come per la maggior parte dei tedeschi- seguire Hitler ed aderire al nazionalsocialismo. Il caso di suo padre mi ha fatto pensare ad Albert Speer che apparteneva all’alta borghesia come la sua famiglia. Però nei documenti di suo padre non c’è nulla dell’attrazione personale che Speer sentiva per Hitler.
     Mio padre non era entusiasta di Hitler, Speer lo adorava, era sempre attorno a lui. Penso che mia madre e mio padre fossero stati attratti dal fatto che, dopo il disastro degli anni ‘20 e dopo l’umiliazione del trattato di Versailles, c’era finalmente una persona che, come il Kaiser, avrebbe mostrato al mondo che cosa eravamo. Oggi non si penserebbe più in termini di “umiliazione”. Ma quando ci si sopravvaluta come stato e poi si perde la guerra- e nessuno se lo aspettava- e tutti ti trattano come se non valessi niente, la gente allora si sentiva umiliata. Per Bismarck la Germania era una delle quattro superpotenze d’Europa, ma per il Kaiser Guglielmo II la Germania era la prima potenza: eravamo potenti e ricchi, avremmo vinto la guerra in quattro settimane. Ma non andò così. La gente era grata a Hitler perché riportava la Germania alla grandezza di prima. Negli anni ‘20, quando la Repubblica di Weimar non riusciva a tener fede agli impegni presi a Versailles e venivano fatte delle rappresaglie da parte della Francia, la Germania veniva umiliata. Quando Hitler riarmò l’esercito nel 1935 ed entrò con le truppe nelle zone demilitarizzate, nessuno sollevò obiezioni. E nel 1936 tutti gli stati parteciparono alle Olimpiadi.
E’ naturale che si segua chi ti restituisce quello che ti appartiene. Quando Hitler iniziò la guerra, riportò sempre vittorie fino a Stalingrado. Non sto scusando i tedeschi, spiego soltanto come è potuto succedere quello che è successo. Nel mio libro volevo mostrare che la Germania nazista non è iniziata nel 1933 ma molto tempo prima della prima guerra mondiale, quando quelli che erano nati all’inizio del secolo erano stati foggiati da questa idea di essere i primi del mondo. E anche l’antisemitismo esisteva già prima di Hitler: nel 1888 un partito entrò in Parlamento con 16 rappresentanti e l’unico contenuto politico di quel partito era l’antisemitismo. Era normale in Francia, in Inghilterra, Russia. Quello che fu nuovo nella Germania di Hitler fu l’assassinio industrializzato.

Anche Speer fu sospettato di essere stato contattato dai cospiratori. Abbiamo visto l’intelligenza strategica della sua linea di difesa a Norimberga: pensa che nella stessa maniera sia riuscito a non farsi coinvolgere direttamente nel complotto?
Albert Speer
     Che Speer abbia potuto essere nella lista dei cospiratori è stata un’invenzione, sua e del suo biografo Joachim Fest. Dietro alla biografia di Speer, dietro alle sue memorie, c’è un mucchio di soldi. Sia l’editore sia Fest videro in Speer l’opportunità di “ripulire” questa persona. Più tardi Fest stesso ammise che Speer gli aveva mentito, che lo aveva usato- ma anche Fest era contento di essere stato usato. Il fatto è che c’era bisogno di qualcuno come Speer che potesse rappresentare un’altra faccia del nazismo. Speer badava alla sua carriera, era una persona spregevole che appendeva il cappotto dove gli faceva comodo.

Come spiega il fatto che suo padre, pur non essendo antisemita, come dimostrano le sua carte, ha firmato insieme a tutta la famiglia il documento che certificava l’origine ariana dei Klamroth?
    Posso solo pensare che abbiano stilato quel documento per motivi pratici. Certo, l’antisemitismo era un atteggiamento latente nella famiglia: nessuno di loro avrebbe mai sposato un’ebrea, ma neppure una cattolica. Pensavano, con quel documento, di certificare la stirpe ariana della famiglia, anche se poi, in pratica, non è servito a niente quando Ursula e Bernhard si sono sposati. Ugualmente, però, è stato rivoltante che abbiano steso questo documento di arianità. Era un essere obbedienti al di là di ogni obbligo.

In una parte del suo libro si parla anche di Dora, il campo di lavoro forzato dove venivano costruiti i V2. Come mai dell’esistenza di Dora si è saputo molto dopo di quella degli altri campi?
     Mentre lavoravo al libro ho scoperto quanti fossero i campi di lavoro forzato. A me interessava soprattutto Dora perché mio padre c’era stato.
Per questo biasimo i tedeschi: perché la maggior parte di loro effettivamente non sapeva di Auschwitz, o di Treblinka e degli altri campi di concentramento, perché erano fuori dal paese, sapevano delle deportazioni ma non sapevano che cosa stava succedendo. Ma i campi di lavoro forzato in cui si usava la mano d’opera dei prigionieri trattati come schiavi erano dappertutto. Speer stesso aveva organizzato l’arrivo massiccio di persone dai paesi dell’est per il lavoro forzato. E a Norimberga ha detto che non ne sapeva niente, che se n’era occupato il suo assistente. I primi campi di lavoro forzato sono stati aperti nel ‘42, il pensiero di tutti era focalizzato sulla guerra, ed è anche vero che chiunque allungasse una pagnotta a qualcuno nelle file dei prigionieri veniva fucilato all’istante.

Il titolo del suo libro in tedesco, “Meines Vaters Land”, è molto bello, perché fa risuonare corde diverse, visto che significa sia “la terra di mio padre”, sia “patria” se scritto in una sola parola, sottolineando il suo legame con suo padre e con il paese di lui, che è anche il suo.  

     Il paese di mio padre è il mio solo geograficamente e il titolo voleva significare anche questa differenza. E naturalmente gioco sulle parole: “Vaterland” è anche la patria e per quella generazione la patria, la Vaterland, la terra dei padri, era importante. Per me è un tabù.

Ha visto il film sugli ultimi giorni di Hitler, “La caduta”? pensa che sia un film “pericoloso”, che possa suscitare simpatie filonaziste?
     Penso che sia un film noioso e superfluo: non abbiamo appreso niente di nuovo da quel film. Le scene mostrano della gente nel bunker che aspetta la fine. Non viene detto che cosa li ha portati ad essere lì, nessuno si domanda se è giusto o sbagliato essere confinati lì. E’ il tipico brutto film commerciale- il fatto che Hitler sia gentile con la giovane segretaria non vuole dire proprio niente. E’ un argomento troppo complesso per essere trattato in un film, a meno che non ci sia il tocco dell’arte, come nel film di Benigni, “La vita è bella”. “La caduta” è un film politicamente corretto, un documentario che non si pone e non pone domande.

Tra più o meno vent’anni saranno scomparsi i figli della generazione che ha combattuto la guerra: sarà un bene? Servirà a dimenticare i crimini del passato e le colpe, per andare avanti e costruire qualcosa di nuovo?
     In questo paese non ci libereremo mai dei sensi di colpa e dei ricordi dei crimini del passato. La Germania di oggi ha la responsabilità di educare la gente, di impedire la reazione del tipo, ‘ma dobbiamo continuare a parlare sempre di queste cose?’. Sì, dobbiamo parlarne perché è una cicatrice sull’anima del nostro paese. Certo, non dobbiamo parlarne ogni giorno, ma serve per ricordare che cosa gli esseri umani, che cosa i tedeschi hanno potuto fare. E ricordare e parlarne non impedisce di andare avanti e costruire una nuova società. No, non possiamo liberarci di questo ricordo e non penso neppure che dovremmo- anche se non abbiamo bisogno che ci venga ricordato ogni momento da altri.

 la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos


                                                                                       



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