Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Salman Rushdie, “Shalimar il clown”
Ed. Mondadori, trad. Vincenzo
Mantovani, pagg. 465, Euro 19,00
I
Dopo tutto, alla fine della
guerra Saint-Exupéry era morto, disperso in azione sopra la Corsica , mentre Max Ophuls
era un asso del volante e un gigante della Resistenza vivo e vegeto,, un uomo
dalle multiformi imprese bello come un divo del cinema, e in più si era
trasferito negli Stati Uniti, preferendo le lustre attrattive del Nuovo Mondo
alla malconcia raffinatezza del vecchio.
“Shalimar il clown”, il nuovo romanzo di Salman Rushdie, è prima di
tutto un canto d’amore per il Kashmir, la patria dei suoi antenati, quanto c’è
di più vicino al cielo, un paradiso in terra di cui piange la scomparsa, perché
si è trasformato in un inferno. E poi è un grandioso romanzo d’amore e di
gelosia e di vendetta, di avventura e di guerra, che spazia in tre continenti
nell’arco di tempo di quella seconda metà del ‘900 piena di rumore e di furia,
dalla seconda guerra mondiale in Europa agli scontri tra India e Pakistan, dal
conflitto in Vietnam a quelli in Afghanistan e in Iraq, fino all’attacco
terroristico al World Trade Center.
Due donne e due uomini sono i personaggi
principali a ognuno dei quali è dedicato un capitolo del romanzo: India e Boonyi,
Max Ophuls e Shalimar. La vicenda inizia nel 1991 quando, a Los Angeles,
l’ottantenne Max Ophuls viene assassinato sulla soglia della casa della figlia
India da Shalimar, l’uomo che ha ingaggiato come autista. Max è stato il capo
dei servizi antiterroristici americani e questo sembrerebbe un assassinio
politico ma, mentre la vicenda si sposta nel passato, il romanzo diventa la
cronaca di una morte annunciata, perché le motivazioni risalgono a un quarto di
secolo prima, quando Max Ophuls era ambasciatore in India, si era innamorato di
Boonyi, la moglie di Shalimar, e lei lo aveva seguito a Bombay attirata dalle
promesse di una vita diversa da quella del suo villaggio incantato. E poi si
era ritrovata prigioniera volontaria in un appartamento, a ingozzarsi di cibo e
a stordirsi con l’oppio. Finché era rimasta incinta. Era intervenuta la moglie
di Max, che si era presa la bambina, aveva messo Boonyi su un aereo per il
Kashmir e laggiù l’adultera Boonyi era stata condannata ad una morte in vita,
esiliata in una baracca sui monti.
Questa è soltanto la traccia di un romanzo
che contiene molto di più, la storia del Kashmir che incomincia- come tutta la
storia dell’India moderna- dal fatidico 1947 che segna l’inizio
dell’Indipendenza ma anche della Spartizione. Dopo di che il Kashmir- il
paradiso della tolleranza in cui indù e musulmani avevano vissuto in concordia
fianco a fianco (e ne è un esempio l’allegra e colorata cerimonia di nozze tra
il musulmano Shalimar e l’indù Boonyi)- diventa una terra contesa, focolaio di
guerriglieri del Fonte di Liberazione, via di passaggio per le armi verso
l’Afghanistan, dominio dei fondamentalisti, teatro di pogrom contro i pandit. E
la voce di Salman Rushdie, che cambia di tono nelle sezioni del libro
ambientate in India, quasi che i miti e le leggende e le tradizioni antiche le
conferissero una maggiore ricchezza e una qualità lirica, diventa accorata e
sgomenta davanti agli stupri, le violenze, le stragi, in un incalzare di
domande senza risposta che spieghino quegli orrori.
Non stupisce la trasformazione di Shalimar
da acrobata che sembra camminare sull’aria in mujahid, un guerriero che combatte per la guerra santa. Il ragazzo
che si è innamorato a quattordici anni e che ha cambiato il suo vero nome,
Noman, in Shalimar, “la dimora della gioia”, in memoria dei giardini moghul in
cui videro la luce sia lui sia Boonyi, ha giurato di vendicarsi. La vendetta è
un piatto che va servito freddo, Shalimar è capace di aspettare, prima di
uccidere la donna che lo ha tradito e il suo amante: “gli altri combattono per
Dio o per il Pakistan: io uccido perché è quello che sono diventato. Sono
diventato la morte.”
Se Shalimar rappresenta l’uomo che antepone
l’onore alla proibizione divina di uccidere, alla civiltà, alla cultura e alla
vita stessa, Max Ophuls è il suo opposto. Max Ophuls, con le sue debolezze, il
suo egoismo e i suoi errori è l’eroe che giganteggia nel romanzo che porta il
nome di Shalimar nel titolo. Ebreo di Strasburgo, di famiglia ricca
proprietaria di una casa editrice, eroe della Resistenza francese, l’uomo che
si era infiltrato tra le SS seducendo la
famigerata “Pantera”, ad un certo punto aveva scelto un ruolo di
falsario di carte d’identità perché, per quanto il terrorismo fosse
elettrizzante, per quanto fosse giustificato dalla causa, a lui risultava
impossibile saltare gli ostacoli morali che bisognava superare per compiere
questi atti. Max Ophuls è l’uomo dalle grandi passioni capace di dare tutto se
stesso e, se il suo comportamento con Boonyi viene interpretato come una
metafora della politica dell’America in Vietnam, Max non ha però timore di parlare apertamente
contro la militarizzazione della valle del Kashmir e, pochi giorni prima di
morire, di fare un intervento in televisione per denunciare la distruzione del
“paradiso”.
“Shalimar il clown” è un ponte tra Oriente e
Occidente, non solo perché la scena si sposta tra India, Europa ed America, ma
perché Rushdie padroneggia la cultura dei due mondi e nel romanzo i miti
indiani- Anarkali che viene murata viva per aver rubato il cuore al principe
Salim prefigura la sorte di Boonyi, i due pianeti ombra dell’amore e dell’odio
si contendono l’anima di Shalimar- si alternano alle immagini della letteratura
occidentale, l’usignolo di Keats canta per il pandit Kaul, la neve che cade
fitta sui vivi e sui morti nell’Irlanda di Joyce ricopre il cadavere di Boonyi,
le parole delle donne del coro ne “L’assassinio nella Cattedrale” di Eliot si
rincorrono sulla bocca delle vedove che commentano la morte violenta di Max, il
sospiro pieno di desiderio, “il Kashmir in primavera, le gemme sui chinar, i pioppi che ondeggiavano…”
echeggia il rimpianto per l’Inghilterra dell’esule Browning, e Shalimar e
Boonyi sono gli amanti shakespeariani
segnati dalle stelle.
la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos
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