Voci da mondi diversi. Cina
il libro ritrovato
la Storia nel romanzo
Ha Jin, “War trash”
Ed. Neri Pozza, trad. Monica
Morzenti, pagg. 448, Euro 18,00
Nel 1951 il ventiquattrenne Yu
Yuan, cadetto dell’Accademia Militare di Huangpu, è mandato a combattere in
Corea a sostegno dei nord-coreani. Fatto prigioniero dopo tre mesi di
guerriglia, Yu Yuan viene internato
prima nell’isola di Koje e poi in quella di Cheju. Il romanzo è il racconto
autobiografico di questo personaggio, le difficoltà quotidiane nei campi di
prigionia, le crudeltà subite sia da parte dei filonazionalisti cinesi, sia da
quella dei comunisti cinesi e dagli americani. Yu Yuan non è un membro del
partito, vuole tornare in Cina perché lì sono sua madre e la sua fidanzata,
eppure, per salvarsi la vita, è costretto a scegliere di andare a Taiwan. Appena
può, rovescia però questa decisione e viene rimpatriato nel 1953. Ed affronta
la delusione peggiore dopo tante sofferenze.
INTERVISTA A HA JIN, autore di “War trash”
“War trash” è indubbiamente il più sofferto e
il più amaro dei tre libri di Ha Jin, scrittore cinese che vive in America e
scrive in inglese. “War trash”, rifiuti di guerra: sono parole che pesano come
piombo e che ricorrono nel libro quando si parla della condizione dei
prigionieri, dapprima come timore e poi come triste conferma di essere trattati
come tali dopo il ritorno nella Repubblica Popolare Cinese- immondizia da
allontanare con un calcio. Perché avevano giurato che non si sarebbero mai
arresi, si sarebbero suicidati piuttosto che farsi prendere prigionieri, e
quindi sono colpevoli, sospetti di spionaggio o di collaborazionismo. E così,
dopo che il protagonista narratore ha sopportato due anni di internamento, di
fame, sofferenze e angherie (i filonazionalisti gli hanno tatuato sulla pancia la
scritta “Fuck communism” per metterlo in condizione di non poter tornare in
Cina), al suo ritorno apprende che la madre è morta e la fidanzata lo ha
lasciato, viene forzato a fare
autocritica e infine emarginato. Il tatuaggio, già trasformato una prima volta in
Cina in una scritta antiamericana (“Fuck…u..s..”), gli viene definitivamente
rimosso mezzo secolo dopo con un’operazione chirurgica in America.
E viene
rimosso pure tutto il suo passato, perché - scrive il settantaquattrenne Yu
Yuan, ormai nonno di nipotini americani- “Non si tratta della nostra storia. In fondo, non sono mai
stato uno dei loro. Non ho fatto altro che mettere per iscritto quello che ho
vissuto.” Il romanzo “War trash” di Ha Jin è il diario fittizio di un uomo che
non è un eroe, non ha una fede politica e neppure una grande cultura, in una
scrittura piatta, senza sbalzi né voli, senza tradire grandi emozioni. Piuttosto
un’accettazione della realtà di una guerra poco sentita, l’attonito stupore
davanti alla morte (quel battaglione di 400 uomini morti assiderati, in piedi
come un esercito di ghiaccio), l’orrore colmo di paura alla vista delle torture
(gli americani non possono competere con la raffinatezza delle torture cinesi),
la lenta presa di coscienza che non c’è differenza tra i metodi dei cinesi
comunisti e quelli dei cinesi di Chiang Kai Shek, il senso di colpa per le
rovine causate nella Corea del Nord. Nel logorio quotidiano per la ricerca di
una qualche sopravvivenza fisica e morale, Yu Yuan legge la Bibbia , per tenersi in
esercizio con l’inglese, per sentirsi meno solo, e invece è qualcosa in più che
lo differenzia dagli altri: “perché non riesco a trovare veri amici? Perché
sono sempre solo? Dove potrò sentirmi davvero a casa?”. Durante il Festival
della Letteratura di Mantova Stilos ha incontrato Ha Jin, pseudonimo di Xuefei
Jin, in cui- come ci spiega lo scrittore- Jin è il suo cognome e Ha è la prima
sillaba della città di Harbin in Cina, dove ha vissuto per quattro anni.
campo di prigionia di Koje |
Sì, forse sì, perché
sono cresciuto in una società oppressiva e questo ha inevitabilmente foggiato
la mia percezione del mondo. Questo spiega anche perché mi piacciano i grandi
scrittori russi, Dostojevskij, Cechov e Gogol, perché il loro mondo è simile a
quello che ho sperimentato. Un mondo oppressivo politicamente e socialmente-
perché sia politicamente oppressivo è chiaro, socialmente oppressivo perché in
Cina non ci si poteva spostare: risiedi in un luogo e non hai il permesso di
cambiare residenza. La movibilità è scarsissima nella maggior parte del paese.
Anche la famiglia è oppressiva, ci sono dei rapporti molto stretti ma la
mentalità è di tipo feudale. I cambiamenti sono molto lenti e nella Cina
moderna, nonostante tutto, non è molto diverso.
Perché ha scelto la guerra di Corea come soggetto per questo romanzo?
Quando si inizia a
scrivere, si scrive per cercare di sopravvivere- almeno, questo è stato il mio
caso- e l’argomento non è l’unica ispirazione, ci si butta su un soggetto che
si conosce. Dopo il secondo libro il mio
editore mi faceva domande sul mio nuovo romanzo, ma non c’era nessun romanzo e
io non sapevo che cosa scrivere. E’ stata mia moglie a suggerirmi la guerra di
Corea. Mio padre era un veterano della guerra di Corea, era stato ferito ma non
prigioniero. Lui e i suoi amici parlavano spesso di quella guerra. Pensavo che
avrei scritto qualcosa di breve, non sapevo bene che forma dare al mio libro.
Conoscevo molto bene le “Memorie dal sottosuolo” di Dostojevskij ed è a quello
che ho pensato come un modello per “War trash”. Dapprima ho scritto diversi
episodi senza completarli, poi ho iniziato a scrivere e non riuscivo a smettere
e ho trovato che ero preso da quella storia più di quanto avrei potuto pensare.
La ragione per cui non potevo smettere era perché dentro di me c’era in agguato
la paura, quella che avevo provato da giovane, quando ero un soldato ed eravamo
vicino al confine con la Corea
e avevamo paura di essere presi prigionieri più ancora che di morire. Avevo un
vantaggio nello scrivere questo libro, conoscevo i luoghi: il primo anno in cui
ero soldato, non vivevamo nelle caserme ma eravamo alloggiati in un villaggio
coreano. Temevo che avrei offeso tutti con questo libro, cinesi, coreani e americani,
ma ho continuato a scrivere perché stavo scrivendo qualcosa che sentivo
profondamente, la verità di quello che era successo durante la guerra in Corea.
Lei ha servito giovanissimo nell’esercito: perché è entrato
nell’esercito di Liberazione del Popolo e quanto è durato il suo servizio
militare?
Sono stato nell’esercito per cinque anni e
mezzo e sono entrato a farne parte quando avevo quattordici anni. Quando iniziò
la Rivoluzione Culturale ,
furono chiuse tutte le scuole e non avevo altra scelta. Quando poi le scuole
sono state riaperte mi sono iscritto all’università.
Perché ha scelto di far raccontare la storia da un prigioniero di
guerra?
Quando si parla della
guerra, la storia viene sempre raccontata dalla parte del vincitore. Io invece
volevo farlo dalla parte di un prigioniero, dal punto di vista del fallimento.
Volevo che fosse un perdente a raccontare la storia, uno che soffre.
prigionieri di guerra cinesi tentano la fuga |
Yu Yuan è un antieroe, dice di continuo che quello che vuole è tornare
a casa, e casa è dove sono la madre e la fidanzata, non gli interessano le idee
politiche.
Yu Yuan dice che crede nel socialismo ma
non nel comunismo. Quello che lo motiva è la lealtà personale: ha promesso alla
madre e alla fidanzata che tornerà. E’ quello che lo spinge a resistere. Anche
se le motivazioni politiche sono importanti, quelle personali sono più
importanti degli slogan e delle idee politiche. Le idee politiche cambiano di
continuo. In un certo senso cerca di adempiere la sua promessa, è un uomo
d’onore. E però la sua “casa” è stata cambiata nel frattempo e lui non lo sa-
anche se non possiamo biasimare la sua famiglia, anche quelli che sono rimasti
in Cina sono delle vittime.
C’è qualcosa di profondamente vero in quello che dice Yu Yuan, che non
c’è differenza tra i due partiti cinesi?
In ogni fazione ci sono
delle brave persone, anche i peggiori hanno qualche rispettabilità. Io cercavo
di vedere le due fazioni di comunisti al di là del loro credo politico, di
vedere qualcosa di positivo al di là dei problemi di sopravvivenza del
personaggio. Yu Yuan si sente tradito, all’inizio sospetta che vengano tessuti
degli intrighi da parte dei capi, poi vede la verità e diventa più vigile,
inizia a pensare di più. Diventa gradualmente più maturo attraverso la
sofferenza. Possiamo dire che, in un certo senso, “War trash” è un romanzo di
formazione, e in quel senso Yu Yuan è un eroe, un tipo diverso di eroe.
Perché la Cina
di Mao rivoleva indietro i prigionieri se poi dovevano essere puniti per
essersi lasciati prendere prigionieri?
Per due motivi: per
salvarsi la faccia, perché, se non li avessero voluti indietro, questo avrebbe
indebolito il loro morale e avrebbe danneggiato la loro immagine
internazionale. Se non li reclamavano indietro loro, sarebbero finiti a Taiwan,
ad aumentare le file dell’esercito del nemico. Per questo hanno insistito
perché rimpatriassero. Ma in Cina non servivano ed è stato questo il tradimento
peggiore: “War trash” è un romanzo del tradimento, tradimento delle idee, della
madrepatria, della fidanzata.
La vergogna per essere stati fatti prigionieri è qualcosa di difficile
da capire per noi occidentali. Qual è il pensiero che c’è dietro questa
vergogna?
Ai soldati era stato insegnato che è una
vergogna essere catturati. Per tradizione la cultura cinese non trattava i
prigionieri come esseri umani e i soldati pensavano che la scelta fosse o
morire o tornare come eroi. Essere presi prigionieri era fonte di vergogna e di
colpa, la colpa di non avere combattuto fino alla morte, la vergogna per apparire
dei vigliacchi. Era tutta propaganda, naturalmente.
Restiamo impressionati dalle descrizioni di quanto avvenne nei campi
per prigionieri eppure, non importa dove e quando, le scene di sadismo e
crudeltà sono sempre le stesse. Pensava ad Abu Grabi e a Guantanamo e alle
immagini che abbiamo visto, quando ha scritto il romanzo?
No, avevo già finito il
libro quando si sono viste quelle immagini, ma questa è una prova che tutti i
campi di prigionia sono uguali. Non c’è modo di controllare quello che succede
durante la guerra, in tutti gli eserciti si sono sempre verificate delle
atrocità.
Non è insolito per un cinese leggere la Bibbia , come fa Yu Yuan?
Nella sua situazione non
era insolito, perché aveva frequentato una scuola delle missioni dove aveva
anche imparato l’inglese e gli americani amavano fare proselitismo nei campi. I
prigionieri potevano trovare la
Bibbia nei campi anche se i comunisti cercavano di impedirlo.
E infatti, quando Yu Yuan torna in Cina, non osa portare la Bibbia con sé.
“Questa non è la nostra storia”,
dice Yu Yuan. Perché Yu Yuan si distacca dalla storia che ha raccontato?
Yu Yuan voleva dire, “ho
scritto quello che ho sperimentato”, voleva dissociarsi dai comunisti. Non è
una storia collettiva, eppure, in un certo senso è una storia collettiva. Lui cerca di farne una storia individuale,
ma è impossibile distaccarsi dagli altri prigionieri.
Sono stati pubblicati i suoi romanzi in Cina?
Solo “L’attesa” è stato
pubblicato e non credo che gli altri saranno mai pubblicati se non cade il
regime comunista. La censura non è molto cambiata, politicamente la Cina non è cambiata. C’è una lista
di argomenti tabù e Tienanmen e la guerra di Corea sono tra questi, perché
potrebbero minare la legittimità del governo.
Fino a che punto l’usare un’altra lingua le fa sentire di perdere la
sua identità, e fino a che punto, invece, è un arricchimento, quasi un
raddoppiamento della sua identità?
Da una parte usando
un’altra lingua si ha l’opportunità di creare un altro tipo di identità. Però è
più facile a dirsi, perché l’incertezza è grande. Sono ancora incerto adesso su
fino a dove io possa spingermi. L’identità deve essere guadagnata, e io me la
devo guadagnare, non sono ancora uno scrittore americano, non ho ancora scritto
un libro americano. Anche se “War trash” è un libro di transizione, perché non
è ambientato né in Cina né in America, ma in un terzo paese. Dal mio prossimo
libro le mie storie saranno ambientate negli Stati Uniti e i personaggi saranno
immigrati cinesi- come me. C’è una grande perdita nell’usare un’altra lingua,
so che non posso scrivere come Joyce o Faulkner, è come essere azzoppati.
Nabokov diceva che per lui scrivere in inglese era una tragedia personale,
pensava di poter fare di più nella sua lingua. Forse non poteva fare meglio, ma
nella sua lingua madre poteva dare tutto se stesso. Ecco perché c’è un senso di
perdita.
E’ ritornato in Cina di recente?
Non sono più tornato in Cina. Dopo i fatti
di Tienanmen, quando ho deciso di restare in America, mi è stato impossibile
tornare perché il mio passaporto non era stato rinnovato dalle autorità, visto
il mio atteggiamento apertamente critico su Tienanmen. Avrei voluto tornare per
rivedere la mia famiglia e poi, con il passare del tempo, non ne avevo più
tanta voglia, si crea un vuoto quando sai che non troverai più quello che
ricordi. Seguo le vicende ufficiali della Cina, ma non so molto della Cina
moderna, non ho più il senso della vita quotidiana: ecco perché non scriverò
più della Cina. Sono diventato qualcun altro, lo devo accettare.
la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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