giovedì 28 agosto 2014

Meir Shalev, "Due vendette" ed. 2014

                                               Voci da mondi diversi. Medio Oriente
fresco di lettura


Meir Shalev, “Due vendette”
Ed. Bompiani, trad. Elena Loewenthal, pagg. 400, Euro 19,00
Titolo originale: Two She-Bears

  “Quasi tutte le famiglie qui sono tribù di ciclamini. Così mio nonno descriveva quelle famiglie i cui figli restano vicini ai genitori, a differenza della nostra, che è una famiglia di tarassachi, che volano lontano. Nonno Zeev e i suoi fratelli hanno abbandonato la casa dei genitori in bassa Galilea. Mio padre e suo fratello sono volati via da questa casa prima che hanno potuto. La mamma mia e di Dovik ci ha lasciati qui da nonno ed è andata negli Stati Uniti. Eitan ha abbandonato me e il mondo ma è tornato, Neta è morto troppo presto e non tornerà mai più.

     Israele. Un uomo attende sotto un gigantesco carrubo in uno uadi il passaggio di un altro uomo. Lo ucciderà con fredda determinazione. Non sa neppure chi sia. Sa solo che suo suocero è morto per mano sua anche se si è voluto far passare la morte per un incidente: è più che probabile che un vecchio, che ci vedeva da un occhio solo e camminava con un bastone, si sia inciampato e abbia picchiato la testa su un sasso, vero?
     Anni prima, quando era giovane e non portava ancora una benda su un occhio, l’uomo che è stato vendicato adesso aveva commesso un crimine a sua volta. Aveva ucciso con furia l’amante della moglie, il padre del bambino che tutti avrebbero pensato suo figlio.
     E’ una storia forte e cruda che gronda dolore, quella che Meir Shalev ci racconta nel nuovo romanzo “Due vendette”, il primo pubblicato dopo “E’andata così” di quattro anni fa. E’ una storia di ardenti passioni e di morte, raccontata da una donna, Ruta Taburi, nipote del vecchio Zeev con la benda su un occhio, e, anche se i due delitti frutto della vendetta sono i binari su cui scorre la narrazione, un’altra morte è al centro del libro e di tutta la storia che, in un senso più vasto, è la storia di un villaggio, una microStoria simbolica di Israele che andrà ad arricchire la tesi di una studentessa universitaria che fa le domande e ascolta le risposte di Ruta. Ruta Taburi è ancora giovane, è bella, ha una forte vitalità. Eppure è passata attraverso una tragedia: suo figlio, il piccolo Neta di sei anni, è morto per il morso di un serpente. Era andato con il padre Eitan in una di quelle gite ‘per soli uomini’ che escludevano lei, Ruta, la mamma, felice, tutto sommato, di vedere quell’accordo perfetto tra padre e figlio. Dopo la morte di Neta Eitan si era chiuso nel mutismo, aveva spento la luce, il grande amore tra lui e Ruta era appassito di colpo.



    Il racconto di Ruta è ricco e colorato, va dalle storie leggendarie di famiglia (alcuni stralci hanno la forma di fiabe per il bambino Neta), di nonno Zeev e di come un carretto guidato da suo fratello e tirato da un toro, con un gelso, una pietra di basalto e la promessa sposa Rut, fosse arrivato fino a lui dal suo villaggio di origine, al  primo incontro di lei stessa, Ruta, con Eitan e a come Eitan si fosse allontanato dal ricevimento di nozze di suo fratello con la madre della sposa, ritorna a parlarci di Zeev e del suo matrimonio bianco e poi, sempre, sempre, si ritrova a dirci di Neta. Perché è impossibile accettare la morte di un bambino, perché, paradossalmente, la morte di un bambino passa al secondo piano, in Israele, davanti alla morte di un figlio che cade in guerra. Ed è questo- il lutto, il dolore di un paese che perde i suoi figli-, insieme a quello della vendetta, il tema del romanzo di Shalev.
    Conosciamo il talento affabulatorio di Meir Shalev. Conosciamo il suo stile in perfetto equilibrio tra realismo e favola, capace di trasformare in epica una vicenda privata, di dare un significato metaforico al tempo, al paesaggio, alla natura (tutte le vicende ruotano attorno a tre grandi alberi, un’acacia, un gelso, un carrubo). E non possiamo evitare di pensare ad un significato più vasto di queste tre morti in cui quella accidentale di un bimbo che appare quasi una vittima sacrificale si colloca tra due delitti, come se il Dio della Bibbia lo avesse voluto per sé per riscattare un’altra morte infantile, per punire un altro delitto ancora, di un altro bambino, commesso da Zeev dopo il primo omicidio. Non possiamo non pensare alla Storia attuale di Israele, alla vendetta che chiama vendetta, alle ritorsioni senza fine.

    Come poi riesca, Meir Shalev, ad alleviare con il sorriso dietro le lacrime di Ruta una tragedia così immane, un destino così crudele ancorché cercato- questo è il mistero del talento di un grande scrittore.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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