Voci da mondi diversi. Cina
Ha Jin, “Una vita libera”
Ed. Neri Pozza, trad. Monica Morzenti,
pagg. 702, Euro 22,00
titolo originale: A Free Life
Nel caso di Nan, era chiaro che scrivere
in cinese l'avrebbe portato a un punto morto. Poteva farlo in inglese? In quel
periodo la solita domanda era tornata a tormentarlo. Sapeva che per lui il
cinese rappresentava il passato e l'inglese il futuro, l'identificazione con
suo figlio. Capiva anche che adottando un'altra lingua si sarebbe allontanato
ancor di più dall'eredità cinese e si sarebbe trovato ad affrontare una
solitudine più grande e un rischio maggiore...
“Una vita libera” è un libro diverso da quelli precedenti di Ha Jin. Non
per lo stile, che ha mantenuto la sua limpida asciuttezza, ma per i contenuti.
Perché questo è il primo libro 'americano' dello scrittore cinese che si
trovava a studiare negli Stati Uniti nel 1989, all'epoca del massacro di piazza
Tienanmen a Pechino, e decise di non tornare più in patria (la stessa scelta
fatta da Qiu Xiaolong, il noto scrittore di romanzi che hanno l'ispettore Chen
Cao come protagonista). E allora il titolo stesso acquista il significato di
una rinascita, che è stata lunga, travagliata, difficile. La libertà della
nuova vita, per Nan Wu, il protagonista che è una sorta di alter ego dello
scrittore, è certamente- e prima di tutto- quella politica, garantita dalla
democrazia, ma è anche qualcosa di molto più complesso. E' scrollarsi di dosso
tutto il passato, compreso il ricordo della donna che ha amato e che lo ha
fatto soffrire; è cercare di mantenere la sua cultura e nello stesso tempo
aprirsi a quella del paese in cui ormai vivrà per sempre; è- infine- fare un
salto nel vuoto e abbandonare il ghetto linguistico del cinese e scrivere in
inglese. Altri scrittori lo hanno fatto, scrivere in una lingua che non era la
loro- Conrad o Nabokov, ad esempio. Ma Nan Wu/ Ha Jin adotta una lingua che non
appartiene al ceppo linguistico della sua e segue meccanismi totalmente
diversi- non è solo come spostare la leva di un interruttore, ma cambiare l'intero
generatore.
Finalmente Taotao aveva ottenuto passaporto e visto- è la frase
che inizia il romanzo e anche la nuova vita di Nan Wu e della moglie Pingping
che non vedevano il bambino da tre anni. Un figlio cambia le prospettive, rende
insufficiente il presente, obbliga a pensare al futuro. E Taotao ha un ruolo
importante di continuo confronto, nel romanzo. Appena arrivato in America,
Taotao (6 anni) vorrebbe tornare dai nonni in Cina: non sa l'inglese, non gli
piace il cibo, quasi non conosce i genitori. Eppure è l'immigrato ideale, senza
passato, aperto a tutto. Quanto gli è facile adattarsi, imparare ad usare il
computer, padroneggiare la lingua, dimenticare il cinese: il giorno in cui Nan
Wu si accorge di aver parlato in inglese (anzi di aver litigato in inglese) con
il figlio, è quello in cui si accorge che si sono americanizzati. Con
perplessità e lacerazioni. Perché Nan Wu non ammira incondizionatamente gli
Stati Uniti. Se Pingping rimpiange di non aver avuto un'infanzia come quella di
suo figlio, Nan Wu odia l'imperativo del divertimento che regola la vita
americana. Se la realizzazione del sogno americano significa che Nan Wu debba
chiudere in scatoloni i suoi 3000 libri e fare il cuoco per quattordici ore al
giorno, una volta che ha estinto i debiti dell'acquisto della casa Nan Wu vende
il ristorante e accetta un lavoro che gli permetta di rispolverare il suo
sogno, quello di scrivere. Una vita libera è anche non lasciarsi schiavizzare
dal successo economico.
Ha tanto da dire, Ha Jin, in questo primo romanzo americano. Tante
conquiste quotidiane, difficoltà pratiche da risolvere, problemi di coppia e di
vecchie e nuove amicizie, rapporti con i genitori lontani con cui è arduo
mantenere un legame e quelli con un figlio nel quale non ci si riesce a
riconoscere, perché cresciuto in una società che ha valori diversi. E poi ci
sono vecchi sogni che ritornano, il confronto con altri immigrati cinesi, il
dilemma della lealtà ad una patria che uccide i suoi figli: la Cina non è più il
mio paese. La disprezzo, perché tratta i suoi cittadini come fossero bambini
creduloni, impedendo loro di diventare veri individui. Pretende solo
obbedienza. Per me la lealtà è una strada a doppio senso. La Cina mi ha tradito, perciò io
mi rifiuto di continuare a essere suo cittadino.
Un'osservazione linguistica, per
terminare, considerata l'importanza che la scelta della lingua in cui scrivere
ha per il protagonista: nessuna nota lo spiega, ma i dialoghi tra i personaggi
appaiono in corsivo quando questi parlano in cinese tra di loro. Sono tutte
persone colte e possiamo supporre che l'inglese usato da Ha Jin rispecchi
l'aulicità del mandarino e si discosti dagli altri dialoghi in cui gli stessi
personaggi parlano nella lingua che non è la loro: quanto più ricco deve essere
il sottotesto del romanzo in originale!
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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