Voci da mondi diversi. Cina
INTERVISTA AD HA JIN, autore di “Pazzia”
Ha Jin ha lasciato la Cina nel
1985, adesso vive a Foxboro, nel Rhode Island, e insegna all’Università di
Boston. Il suo libro “L’attesa” (già uscito anche in edizione tascabile sempre
per la casa editrice Neri Pozza) ha vinto due premi letterari di prestigio, il
National Book Award nel 1999 e il PEN/Faulkner Award nel 2000. Lo abbiamo
contattato per posta elettronica, per “parlare” con lui del romanzo “Pazzia”,
della sua vita in Cina e della sua esperienza come immigrato in America.
Lei, Mr. Jin, è nato in Cina ed è andato negli Stati Uniti nel 1985.
Com’è stata la sua vita in Cina?
Certamente ho iniziato in
una maniera insolita per uno scrittore. Non avevo ancora 14 anni quando sono
entrato nell’esercito, perché in quell’epoca le scuole vennero chiuse, c’era la
Rivoluzione Culturale.
Mi sono arruolato come volontario e sono rimasto
nell’esercito per cinque anni e mezzo. In realtà arruolarsi era persino una
buona scelta, paragonata alla sorte di altri giovani, perché l’altra
possibilità era essere mandati a lavorare nei campi. Prima di venire negli
Stati Uniti avevo scritto solo poesie e ho iniziato a scrivere romanzi nel
1988.
Quando è andato in America, aveva già idea che forse non sarebbe
tornato in Cina?
No, volevo prendere un dottorato in inglese
per poter insegnare in un’università. Non pensavo che sarei rimasto negli Stati
Uniti per più di cinque anni. Poi, nel 1989, il massacro di Tienanmen mi ha
fatto cambiare idea. Sono rimasto sconvolto da quanto accadde. Non pensavo che
il governo avrebbe scatenato l’esercito contro i civili. L’esercito cinese
viene chiamato Esercito di Liberazione del Popolo: si suppone che i soldati
debbano servire e proteggere il popolo. Ma quando ci fu il massacro di Tienanmen,
tutti i principi persero significato. Non riuscii a superare lo shock per settimane. Sentivo
dentro di me di non poter più servire un governo così brutale. A quel tempo
tutte le università erano statali in Cina, e io non volevo tornare là a
insegnare. D’altra parte, la mia dissertazione era mirata per un pubblico
cinese e aveva scarso valore per un regolare dipartimento d’inglese in America.
Rimasi a lungo confuso, non ancora pronto mentalmente a restare negli Stati
Uniti, ma deciso a non tornare in Cina. Dopo un anno di incertezze laceranti,
ho deciso di restare e di scrivere solo in inglese.
Ha Jin è uno pseudonimo: ha un significato? C’è un motivo pratico per
cui lo ha adottato?
“Ha” è il primo carattere
scritto del nome della città “Harbin” dove ho vissuto per quattro anni e di cui
conservo un caro ricordo. “Jin” è il mio cognome. Ho scelto questo pseudonimo
per due ragioni: primo, perché non volevo che si sapesse che scrivevo e uno
pseudonimo mi serviva da copertura; poi perché il mio nome è Xuefei
(pronunciato “hsufai”) ed era difficile da pronunciarsi per persone di lingua
inglese, Ha è molto più facile.
Un lettore tende sempre a pensare che ci sia qualcosa dello scrittore
nei suoi personaggi. Leggendo “Pazzia”, ho pensato che ci potrebbe essere
qualcosa di autobiografico sia nel Professor Yang sia in Jian.
Appena laureato, nel 1982, effettivamente
ho assistito un professore, anche se non il mio professore, per due giorni.
Aveva avuto un ictus e di tanto in tanto usciva di testa. Fu un’esperienza che
mi toccò nel profondo ed ero deciso a scriverne. Ma Jian è più giovane di me di
una generazione. Avevo bisogno di farlo più giovane perché il romanzo si svolge
nel 1989.
Il suo romanzo precedente, “L’attesa”, era più una storia privata che
lasciava la politica sullo sfondo, mentre in “Pazzia” la politica entra con
forza e in due maniere: come un modo per governare le scelte dei personaggi e
poi nell’esplosione di violenza di Tienanmen.
Sì, la pazzia è sia personale sia
nazionale. Questa è stata la parte difficile del libro: come unire il privato e
il pubblico? Volevo mettere sullo sfondo l’evento di Tienanmen, il che era
rischioso e avrebbe potuto essere superficiale dal punto di vista politico.
Sì e no. In Cina il potere
è anche fonte di ricchezza. Gli intellettuali cinesi sono impiegati dallo Stato
e, dato che hanno una posizione priva di potere, tendono ad essere poveri. C’è
un detto nel partito comunista, “Se gli intellettuali non ci ubbidiscono, non
gli daremo da mangiare”. Ma oggi alcuni possono essere pagati meglio perché i
college hanno più fondi. Quanto al paragone tra gli intellettuali e gli uomini
di affari, gli intellettuali cinesi e quelli occidentali sono in una situazione
simile: la maggior parte sono sottopagati.
C’è veramente totale libertà di ricerca negli Stati Uniti, qualunque
siano le idee politiche?
Si può fare ricerca su
quello che si vuole, anche se magari non si trovano i fondi per tutto. In
questo senso la libertà accademica è sempre relativa. Ma negli Stati Uniti si
può parlare, mentre in Cina non c’è libertà.
Quando Yang grida “Non bruciate i libri!”, mi sono venuti in mente i
falò di libri fatti dai nazisti e le immagini dei lanciafiamme nel libro e nel
film “Fahrenheit 451”: che cosa c’è nei libri che li rende così temuti –più
delle nuove tecnologie di comunicazione- da parte dei governi totalitari?
dal film Fahrenheit 451 |
Sì, i libri sono sempre
stati banditi dai governi totalitari, specialmente quelli che dicono alla gente
delle verità. Le parole sono portatrici di messaggi, pensieri, emozioni.
Possono anche essere una testimonianza. Questo deve essere uno dei motivi
perché le parole veritiere sono pericolose per i governi. La letteratura ha
anche la funzione di dare l’immortalità, di far conoscere e ricordare il bene e
il male. Questo significa che le vere opere letterarie sopravvivranno alle
autorità politiche.
Il Professor Yang cita Dante: non pensavo che il nostro Dante fosse
studiato in Cina. Sono molte le traduzioni in cinese di autori classici
occidentali? E di autori moderni?
Dante è sempre stato
studiato da scrittori e intellettuali.
Ci fu anche un famoso scrittore che
recitava Dante tra di sé, mentre i rivoluzionari lo tormentavano costringendolo
a stare in piedi su un palco per una denuncia
pubblica. Quanto agli scrittori moderni occidentali, sono conosciuti e
alcuni sono anche letti con avidità. In questo momento sono molto popolari
Kundera e Calvino. Alcuni scrittori cinesi sono, in un certo senso, ossessionati
dagli scrittori latino-americani, in specie dal loro realismo magico: forse
hanno cercato delle fonti di energia diverse dalle letterature dominanti.
L’idea di “anima”, come viene intesa da Dante, è la stessa nella
cultura cinese?
Non esattamente. Nella
cultura cinese l’anima è l’essenza dell’uomo e non ha una dimensione divina. E’
più vicina all’anima buddista. L’anima di una persona può ritornare in vita in
forme diverse. E’ una risposta un po’ semplicistica, ma sono certo che
l’assenza del divino differenzia l’anima cristiana da quella cinese.
La sua scelta di scrivere in inglese: l’inglese e il cinese sono due
lingue così diverse che penso che la sua decisione di scrivere in inglese abbia anche significato per lei scrivere dei
romanzi diversi da quelli che avrebbe scritto in cinese. Pensa che scriverà dei
romanzi in cinese?
Come professore di
inglese, per molti anni ho potuto pubblicare solo in inglese. E poi ho voluto
distaccarmi dall’apparato letterario ufficiale cinese. Una volta che ho iniziato
a scrivere in inglese, ho dovuto cambiare molte cose, incluso il mio modo di
pensare e anche me stesso, fino a un certo punto. Ha ragione quando dice che i
miei romanzi sono diversi da quelli che sarebbero se li avessi scritti in
cinese. A volte penso di scrivere in cinese, ma no, non lo farò. Non posso
permettermi di tornare indietro dopo essermi spinto così avanti con quello che
sto facendo. Non devo lasciarmi distrarre da sentimenti di nostalgia.
Pensa di tornare in Cina?
Tornerò al massimo per una
breve visita.
Se continuerà a vivere negli Stati Uniti, potrà seguitare a scrivere
della Cina o scriverà dell’America e degli americani e dei cinesi immigrati?
Gradualmente inizierò a
scrivere dell’esperienza americana, soprattutto della vita di un immigrato.
Quando ho iniziato a scrivere in inglese, pensavo che avrei scritto per tutta
la vita solo libri sulla Cina. Ma, a mano a mano che andavo avanti, sentivo che
non ero più “posseduto” dalla Cina. Devo scrivere di quello che è vicino al mio
cuore. E, in fin dei conti, è l’esperienza americana quella che conta di più
per me.
Ha Jin, “Pazzia”
Ed. Neri Pozza, trad. Monica Morzenti, pagg.316, Euro 16,00
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