venerdì 15 agosto 2014

Ha Jin - Intervista all'autore di "Pazzia" 2003

                                                        Voci da mondi diversi. Cina   


INTERVISTA AD HA JIN, autore di “Pazzia”


Ha Jin ha lasciato la Cina nel 1985, adesso vive a Foxboro, nel Rhode Island, e insegna all’Università di Boston. Il suo libro “L’attesa” (già uscito anche in edizione tascabile sempre per la casa editrice Neri Pozza) ha vinto due premi letterari di prestigio, il National Book Award nel 1999 e il PEN/Faulkner Award nel 2000. Lo abbiamo contattato per posta elettronica, per “parlare” con lui del romanzo “Pazzia”, della sua vita in Cina e della sua esperienza come immigrato in America.

 Lei, Mr. Jin, è nato in Cina ed è andato negli Stati Uniti nel 1985. Com’è stata la sua vita in Cina?
    Certamente ho iniziato in una maniera insolita per uno scrittore. Non avevo ancora 14 anni quando sono entrato nell’esercito, perché in quell’epoca le scuole vennero chiuse, c’era la Rivoluzione Culturale.
Mi sono arruolato come volontario e sono rimasto nell’esercito per cinque anni e mezzo. In realtà arruolarsi era persino una buona scelta, paragonata alla sorte di altri giovani, perché l’altra possibilità era essere mandati a lavorare nei campi. Prima di venire negli Stati Uniti avevo scritto solo poesie e ho iniziato a scrivere romanzi nel 1988.

Quando è andato in America, aveva già idea che forse non sarebbe tornato in Cina?
    No, volevo prendere un dottorato in inglese per poter insegnare in un’università. Non pensavo che sarei rimasto negli Stati Uniti per più di cinque anni. Poi, nel 1989, il massacro di Tienanmen mi ha fatto cambiare idea. Sono rimasto sconvolto da quanto accadde. Non pensavo che il governo avrebbe scatenato l’esercito contro i civili. L’esercito cinese viene chiamato Esercito di Liberazione del Popolo: si suppone che i soldati debbano servire e proteggere il popolo. Ma quando ci fu il massacro di Tienanmen, tutti i principi persero significato. Non riuscii  a superare lo shock per settimane. Sentivo dentro di me di non poter più servire un governo così brutale. A quel tempo tutte le università erano statali in Cina, e io non volevo tornare là a insegnare. D’altra parte, la mia dissertazione era mirata per un pubblico cinese e aveva scarso valore per un regolare dipartimento d’inglese in America. Rimasi a lungo confuso, non ancora pronto mentalmente a restare negli Stati Uniti, ma deciso a non tornare in Cina. Dopo un anno di incertezze laceranti, ho deciso di restare e di scrivere solo in inglese.

Ha Jin è uno pseudonimo: ha un significato? C’è un motivo pratico per cui lo ha adottato?
   “Ha” è il primo carattere scritto del nome della città “Harbin” dove ho vissuto per quattro anni e di cui conservo un caro ricordo. “Jin” è il mio cognome. Ho scelto questo pseudonimo per due ragioni: primo, perché non volevo che si sapesse che scrivevo e uno pseudonimo mi serviva da copertura; poi perché il mio nome è Xuefei (pronunciato “hsufai”) ed era difficile da pronunciarsi per persone di lingua inglese, Ha è molto più facile.

Un lettore tende sempre a pensare che ci sia qualcosa dello scrittore nei suoi personaggi. Leggendo “Pazzia”, ho pensato che ci potrebbe essere qualcosa di autobiografico sia nel Professor Yang sia in Jian.
    Appena laureato, nel 1982, effettivamente ho assistito un professore, anche se non il mio professore, per due giorni. Aveva avuto un ictus e di tanto in tanto usciva di testa. Fu un’esperienza che mi toccò nel profondo ed ero deciso a scriverne. Ma Jian è più giovane di me di una generazione. Avevo bisogno di farlo più giovane perché il romanzo si svolge nel 1989.
  
Il suo romanzo precedente, “L’attesa”, era più una storia privata che lasciava la politica sullo sfondo, mentre in “Pazzia” la politica entra con forza e in due maniere: come un modo per governare le scelte dei personaggi e poi nell’esplosione di violenza di Tienanmen.
    Sì, la pazzia è sia personale sia nazionale. Questa è stata la parte difficile del libro: come unire il privato e il pubblico? Volevo mettere sullo sfondo l’evento di Tienanmen, il che era rischioso e avrebbe potuto essere superficiale dal punto di vista politico.

 Il dilemma che Jian si trova a fronteggiare ha due aspetti. Il problema della vita dell’intellettuale in Cina sembra essere sia un problema di mancanza di libertà che di mancanza di soldi. Non è uguale dappertutto, questo divario tra quello che guadagna un intellettuale e un uomo d’affari o un funzionario?
   Sì e no. In Cina il potere è anche fonte di ricchezza. Gli intellettuali cinesi sono impiegati dallo Stato e, dato che hanno una posizione priva di potere, tendono ad essere poveri. C’è un detto nel partito comunista, “Se gli intellettuali non ci ubbidiscono, non gli daremo da mangiare”. Ma oggi alcuni possono essere pagati meglio perché i college hanno più fondi. Quanto al paragone tra gli intellettuali e gli uomini di affari, gli intellettuali cinesi e quelli occidentali sono in una situazione simile: la maggior parte sono sottopagati.

C’è veramente totale libertà di ricerca negli Stati Uniti, qualunque siano le idee politiche?
   Si può fare ricerca su quello che si vuole, anche se magari non si trovano i fondi per tutto. In questo senso la libertà accademica è sempre relativa. Ma negli Stati Uniti si può parlare, mentre in Cina non c’è libertà.

Quando Yang grida “Non bruciate i libri!”, mi sono venuti in mente i falò di libri fatti dai nazisti e le immagini dei lanciafiamme nel libro e nel film “Fahrenheit 451”: che cosa c’è nei libri che li rende così temuti –più delle nuove tecnologie di comunicazione- da parte dei governi totalitari?
dal film Fahrenheit 451
    Sì, i libri sono sempre stati banditi dai governi totalitari, specialmente quelli che dicono alla gente delle verità. Le parole sono portatrici di messaggi, pensieri, emozioni. Possono anche essere una testimonianza. Questo deve essere uno dei motivi perché le parole veritiere sono pericolose per i governi. La letteratura ha anche la funzione di dare l’immortalità, di far conoscere e ricordare il bene e il male. Questo significa che le vere opere letterarie sopravvivranno alle autorità politiche.

Il Professor Yang cita Dante: non pensavo che il nostro Dante fosse studiato in Cina. Sono molte le traduzioni in cinese di autori classici occidentali? E di autori moderni?
    Dante è sempre stato studiato da scrittori e intellettuali.
Ci fu anche un famoso scrittore che recitava Dante tra di sé, mentre i rivoluzionari lo tormentavano costringendolo a stare in piedi su un palco per una denuncia  pubblica. Quanto agli scrittori moderni occidentali, sono conosciuti e alcuni sono anche letti con avidità. In questo momento sono molto popolari Kundera e Calvino. Alcuni scrittori cinesi sono, in un certo senso, ossessionati dagli scrittori latino-americani, in specie dal loro realismo magico: forse hanno cercato delle fonti di energia diverse dalle letterature dominanti.

L’idea di “anima”, come viene intesa da Dante, è la stessa nella cultura cinese?
    Non esattamente. Nella cultura cinese l’anima è l’essenza dell’uomo e non ha una dimensione divina. E’ più vicina all’anima buddista. L’anima di una persona può ritornare in vita in forme diverse. E’ una risposta un po’ semplicistica, ma sono certo che l’assenza del divino differenzia l’anima cristiana da quella cinese.

La sua scelta di scrivere in inglese: l’inglese e il cinese sono due lingue così diverse che penso che la sua decisione di scrivere in inglese abbia anche significato per lei scrivere dei romanzi diversi da quelli che avrebbe scritto in cinese. Pensa che scriverà dei romanzi in cinese?
    Come professore di inglese, per molti anni ho potuto pubblicare solo in inglese. E poi ho voluto distaccarmi dall’apparato letterario ufficiale cinese. Una volta che ho iniziato a scrivere in inglese, ho dovuto cambiare molte cose, incluso il mio modo di pensare e anche me stesso, fino a un certo punto. Ha ragione quando dice che i miei romanzi sono diversi da quelli che sarebbero se li avessi scritti in cinese. A volte penso di scrivere in cinese, ma no, non lo farò. Non posso permettermi di tornare indietro dopo essermi spinto così avanti con quello che sto facendo. Non devo lasciarmi distrarre da sentimenti di nostalgia.

Pensa di tornare in Cina?
   Tornerò al massimo per una breve visita.

Se continuerà a vivere negli Stati Uniti, potrà seguitare a scrivere della Cina o scriverà dell’America e degli americani e dei cinesi immigrati?
     Gradualmente inizierò a scrivere dell’esperienza americana, soprattutto della vita di un immigrato. Quando ho iniziato a scrivere in inglese, pensavo che avrei scritto per tutta la vita solo libri sulla Cina. Ma, a mano a mano che andavo avanti, sentivo che non ero più “posseduto” dalla Cina. Devo scrivere di quello che è vicino al mio cuore. E, in fin dei conti, è l’esperienza americana quella che conta di più per me.

l'intervista è stata pubblicata sulla rivista Stilos                           

Ha Jin, “Pazzia”
Ed. Neri Pozza, trad. Monica Morzenti, pagg.316, Euro 16,00


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