sabato 5 luglio 2014

Orhan Pamuk, "Il libro nero" ed. 2007

                                                        premio Nobel
                                                        Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                                                         il libro ritrovato


Orhan Pamuk, “Il libro nero”
 Ed. Einaudi, trad. Şemsa Gezgin, pagg. 505, Euro 19,50


 “Perché non c’è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere. Lo scrivere. Sì, certo, tranne lo scrivere, l’unica consolazione che abbiamo.”, termina con queste parole il romanzo “Il libro di nero” di Orhan Pamuk (vincitore del premio Nobel 2006), scritto nel 1990, ripubblicato ora dalla casa editrice Einaudi tradotto per la prima volta dal turco da Şemsa Gezgin, e incomincia con una scena realistica- la descrizione di una donna, Rüya, che dorme, mentre da fuori si alzano i rumori della città che si risveglia. Subito dopo, con una frase che verrà spesso ripetuta, “la memoria è un giardino”, il narratore ci lascia intravedere qualcos’altro, ci anticipa che ci inoltreremo lungo un percorso sorprendente fiorito di ricordi. Ed è impossibile sapere fino a che punto i ricordi siano veritieri. Nel caso de “Il libro nero” i sentieri del giardino dei ricordi non sbucano soltanto nelle stanze familiari ma si addentrano anche nella città di Istanbul, riportando alla luce frammenti della memoria di un intero paese.
    La storia, quella che fa scattare il racconto noir, è la scomparsa di Rüya, moglie nonché cugina di Galip, avvocato per professione. Rüya se ne va di casa, dunque, premurandosi di accendere il boiler elettrico e di spruzzare l’insetticida prima di uscire; lascia un messaggio di diciannove parole in cui non spiega nulla, promette solo un vago “mi farò viva”. E Galip si mette sulle sue tracce, cercandola ovunque in Istanbul, prima di tutto presso il fratellastro di lei, il famoso rubricista Celăl. Sennonché pure Celăl è scomparso. A questo punto la ricerca di Galip è duplice, il suo io conscio cerca Celăl perché gli dia notizie di Rüya, quello inconscio è certo che i due siano insieme. E a poco a poco pare quasi che Galip si dimentichi di Rüya mentre la sua diventa una ricerca di identità, diventando Celăl, invadendo i suoi spazi, entrando nel suo appartamento, indossando i suoi abiti, rispondendo al telefono come se lui fosse Celăl, parlando in sua vece davanti alle telecamere della TV britannica, scrivendo infine la sua famosa rubrica e appropriandosi quindi anche del suo stesso nome. E se, all’inizio del romanzo, i capitoli in cui era Celăl a raccontare in prima persona si distinguevano facilmente da quelli in terza persona che avevano Galip come protagonista, proseguendo la lettura le due voci si sovrappongono, la narrazione passa all’improvviso dalla prima alla terza persona, il riflesso nello specchio si moltiplica all’infinito. Nonostante l’affermazione che troviamo ad un certo punto: “chi sostiene che ogni essere umano ha un doppio si sbaglia. Nessuno è uguale a un altro.” Perché tutti sembrano avere un doppio in questo romanzo, anche Rüya, ammirata, imitata, spiata e invidiata da una compagna di scuola che Galip incontra nelle sue peregrinazioni.
Anche Istanbul, città amata da Pamuk e dominante in tutti i suoi romanzi, con le cupole d’oro che punteggiano il cielo e i cunicoli marcescenti sotto terra, divisa tra le due sponde del Bosforo, con i piedi in Oriente e la testa in Occidente. Con la voce di uno dei suoi tanti alter ego Celăl dice che Oriente e Occidente sono le due metà del mondo, i due opposti che si attraggono e si respingono, e non sarà mai possibile che convivano in pace: uno dei due avrà sempre il predominio sull’altro, il loro rapporto è sempre stato quello di servo e padrone, e la potenza dominante sarà di epoca in epoca quella che sia in grado di scorgere nel mondo un luogo “ambiguo, misterioso e brulicante di segreti”. E’ destinata invece ad essere sottomessa quella che crede di vivere in un luogo semplice, privo di ambiguità e di mistero. Quando infine seguiamo Galip nel negozio, quasi un museo, di manichini intagliati nel legno, la scena sfiora grandiosamente il surreale in un trionfo di doppi: l’artista misconosciuto perché le sue creazioni non seguivano la moda dell’Occidente ha replicato tutti i possibili modelli umani degli abitanti di Istanbul. A memoria eterna del passato che rischia di perdersi perché una cospirazione internazionale vorrebbe impedire alla Turchia di essere se stessa- così pensa l’artigiano, inserendosi nel quesito esistenziale di Galip/ Celăl, “esiste un metodo per essere unicamente se stessi?”. La risposta si trova sul finire del romanzo, ed è che l’unico modo di essere se stessi è diventare un altro o perdersi nei racconti di un altro. Come ha fatto e sta facendo Galip.              
    
Ci si perde volentieri nei mille racconti di Pamuk che fa percorrere dal suo protagonista le vie di Istanbul in una ricerca di cui si finisce per dimenticare il vero scopo. E se per un certo verso le peregrinazioni di Galip ricordano quelle di Ulisse o Leopold Bloom o di Zeno Cosini, d’altra parte c’è molto di Sheherazade nell’incanto delle storie che nascono una dall’altra nel libro di Pamuk, esaltazione della scrittura che copia la vita che copia a sua volta il romanzo: “Se ho un difetto, sono le digressioni”, dice una citazione da Biron Pascià ad introdurre un capitolo. Ancora Oriente e Occidente che si alternano, rivaleggiano, si fondono mirabilmente.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos


                                                                                                        





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