premio Nobel
Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Orhan Pamuk, “Il
libro nero”
Ed. Einaudi, trad. Şemsa Gezgin, pagg. 505, Euro 19,50
“Perché non c’è nulla di sorprendente come la
vita. Tranne lo scrivere. Lo scrivere. Sì, certo, tranne lo scrivere, l’unica
consolazione che abbiamo.”, termina con queste parole il romanzo “Il libro
di nero” di Orhan Pamuk (vincitore del premio Nobel 2006), scritto nel 1990, ripubblicato
ora dalla casa editrice Einaudi tradotto per la prima volta dal turco da Şemsa
Gezgin, e incomincia con una scena realistica- la descrizione di una donna,
Rüya, che dorme, mentre da fuori si alzano i rumori della città che si
risveglia. Subito dopo, con una frase che verrà spesso ripetuta, “la memoria è
un giardino”, il narratore ci lascia intravedere qualcos’altro, ci anticipa che
ci inoltreremo lungo un percorso sorprendente fiorito di ricordi. Ed è
impossibile sapere fino a che punto i ricordi siano veritieri. Nel caso de “Il
libro nero” i sentieri del giardino dei ricordi non sbucano soltanto nelle
stanze familiari ma si addentrano anche nella città di Istanbul, riportando
alla luce frammenti della memoria di un intero paese.
La storia,
quella che fa scattare il racconto noir,
è la scomparsa di Rüya, moglie nonché cugina di Galip, avvocato per professione.
Rüya se ne va di casa, dunque, premurandosi di accendere il boiler elettrico e
di spruzzare l’insetticida prima di uscire; lascia un messaggio di diciannove
parole in cui non spiega nulla, promette solo un vago “mi farò viva”. E Galip
si mette sulle sue tracce, cercandola ovunque in Istanbul, prima di tutto
presso il fratellastro di lei, il famoso rubricista Celăl. Sennonché pure Celăl
è scomparso. A questo punto la ricerca di Galip è duplice, il suo io conscio
cerca Celăl perché gli dia notizie di Rüya, quello inconscio è certo che i due
siano insieme. E a poco a poco pare quasi che Galip si dimentichi di Rüya
mentre la sua diventa una ricerca di identità, diventando Celăl, invadendo i
suoi spazi, entrando nel suo appartamento, indossando i suoi abiti, rispondendo
al telefono come se lui fosse Celăl,
parlando in sua vece davanti alle telecamere della TV britannica, scrivendo infine
la sua famosa rubrica e appropriandosi quindi anche del suo stesso nome. E se,
all’inizio del romanzo, i capitoli in cui era Celăl a raccontare in prima persona
si distinguevano facilmente da quelli in terza persona che avevano Galip come
protagonista, proseguendo la lettura le due voci si sovrappongono, la
narrazione passa all’improvviso dalla prima alla terza persona, il riflesso
nello specchio si moltiplica all’infinito. Nonostante l’affermazione che
troviamo ad un certo punto: “chi sostiene che ogni essere umano ha un doppio si
sbaglia. Nessuno è uguale a un altro.” Perché tutti sembrano avere un doppio in
questo romanzo, anche Rüya, ammirata, imitata, spiata e invidiata da una
compagna di scuola che Galip incontra nelle sue peregrinazioni.
Anche Istanbul,
città amata da Pamuk e dominante in tutti i suoi romanzi, con le cupole d’oro
che punteggiano il cielo e i cunicoli marcescenti sotto terra, divisa tra le
due sponde del Bosforo, con i piedi in Oriente e la testa in Occidente. Con la
voce di uno dei suoi tanti alter ego Celăl dice che Oriente e Occidente sono le
due metà del mondo, i due opposti che si attraggono e si respingono, e non sarà
mai possibile che convivano in pace: uno dei due avrà sempre il predominio
sull’altro, il loro rapporto è sempre stato quello di servo e padrone, e la
potenza dominante sarà di epoca in epoca quella che sia in grado di scorgere
nel mondo un luogo “ambiguo, misterioso e brulicante di segreti”. E’ destinata
invece ad essere sottomessa quella che crede di vivere in un luogo semplice,
privo di ambiguità e di mistero. Quando infine seguiamo Galip nel negozio,
quasi un museo, di manichini intagliati nel legno, la scena sfiora
grandiosamente il surreale in un trionfo di doppi: l’artista misconosciuto
perché le sue creazioni non seguivano la moda dell’Occidente ha replicato tutti
i possibili modelli umani degli abitanti di Istanbul. A memoria eterna del
passato che rischia di perdersi perché una cospirazione internazionale vorrebbe
impedire alla Turchia di essere se stessa- così pensa l’artigiano, inserendosi
nel quesito esistenziale di Galip/ Celăl, “esiste un metodo per essere
unicamente se stessi?”. La risposta si trova sul finire del romanzo, ed è che
l’unico modo di essere se stessi è diventare un altro o perdersi nei racconti
di un altro. Come ha fatto e sta facendo Galip.
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