lunedì 14 luglio 2014

Incontro con Nadine Gordimer- 2001

                                             ricorrenze

                                             

INCONTRO CON NADINE GORDIMER, premio Nobel 1991


 Viene voglia di alzarsi in piedi, in segno di rispetto, quando Nadine Gordimer, premio Nobel 1991 per la letteratura, entra nella sala della Fondazione Feltrinelli per incontrare i giornalisti il 13 di dicembre. E’ piccola, minuta, con un aspetto fragile e un’aria di serena determinazione nel viso ancora fresco nonostante i 78 anni. “Una guerrigliera dell’immaginazione”, così l’ ha definita il poeta irlandese Seamus Heaney. Perché per cinquant’anni Nadine Gordimer ha dato voce nei suoi romanzi alla protesta contro l’Apartheid in Sud Africa, non ha mai smesso di denunciare ipocrisie, soprusi, ingiustizie, esponendosi in prima persona quando è apparsa in tribunale per testimoniare a favore di amici coinvolti nella lotta e accusati di tradimento dal governo. Una voce dal deserto, un grido dal “cuore di tenebra” per risvegliare le nostre coscienze. Tredici romanzi, duecento racconti, le sue storie coniugano perfettamente il privato e il pubblico, la storia personale e l’impegno politico.
Dopo il 1994 e l’instaurazione di un governo democratico, la Gordimer ha saputo – da grande scrittrice – esplorare le nuove tematiche di un mondo in continuo cambiamento, le ambiguità sociali del suo tempo. Devo confessarlo: per me è una “leggenda vivente”, perché sono cresciuta, in tutti i sensi, con i suoi libri. Ed ero emozionata nell’incontrarla per la prima volta, di passaggio a Milano dopo i festeggiamenti a Stoccolma per il centenario del Nobel.


Signora Gordimer, vorremmo sentire le sue considerazioni su questi dodici giorni a Stoccolma.
     E’ stato un anniversario anche per me: sono 10 anni da quando ho ricevuto il Premio Nobel. Il numero delle persone presenti e la grandiosità delle celebrazioni sono stati di gran lunga maggiori di allora. Noi, Premi Nobel per la letteratura, in numero di gran lunga inferiore agli scienziati, ci sentivamo ignoranti, consci della frattura fra scienze e letteratura, anche se alcuni argomenti, come le teorie sul genoma, la possibilità di clonare l’essere umano, sono preoccupazioni che riguardano tutta l’umanità. Si aveva la sensazione che il mondo fosse cambiato, dopo l’11 di settembre, molto di più che in tutti i 100 anni passati. Quando si pensa a quanto è successo, c’è un solo avvenimento che possa sostenerne il paragone, ed è l’esplosione della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. La differenza è che allora i due paesi erano apertamente in guerra, mentre l’attacco alle Torri Gemelle è avvenuto all’improvviso, “out of the blue”, in un giorno di sole: è stato un attacco simbolico al potere dell’ America, alla sicurezza dell’invincibilità americana.

 Sappiamo che c’è stata una discussione con Naipaul, un confronto con posizioni diverse sulla valenza politica che la letteratura porta con sé.
     Naipaul è un grande scrittore, ma dubito che si possa affermare, come lui fa, che la sua opera non ha una valenza politica. Günther Grass ed io non potevamo accettare né che la sua posizione fosse possibile, né che fosse vera. Molti dei suoi scritti sono autobiografici, lui stesso ha raccontato che i suoi nonni giunsero a Trinidad dall’India per lavorare nei campi di zucchero. In molti libri di Naipaul è presente il tema dell’anticolonialismo, non in maniera didattica, ma nel sentimento di sentirsi sempre uno straniero dove si è, perché non si appartiene a quel posto. La politica ci influenza sempre, influenza il nostro modo di pensare e di crescere.

 Lei ha definito il razzismo come una reincarnazione del nazismo. Anche il comunismo ha fatto milioni di morti, ha ridotto popoli in schiavitù, ha soppresso intere classi sociali. Definirebbe il razzismo una reincarnazione del comunismo?
     Per me c’è una distinzione semplice: il nazismo non ha concluso niente di buono, sì, forse  Mussolini ha costruito delle belle strade qui da voi. E’ vero che il comunismo ha commesso tremendi crimini contro l’umanità, ma ha lasciato anche delle idee che sono filtrate in profondità giungendo alla sinistra moderata e ai progressisti. In Sud Africa non avremmo avuto la libertà, se non ci fosse stato il movimento del Nazionalismo Nero in cui si erano trasferiti gli ideali comunisti.

 Ha dichiarato di deplorare l’offensiva NATO in Kosovo. Pensa la stessa cosa riguardo all’Afghanistan? Inoltre lei ha detto che non si vedono soluzioni alternative all’ intervento armato. Queste dichiarazioni significano che gli organismi sovranazionali vanno ripensati ?
     Io mi domando: che cosa fate se siete americani e subite un attacco come quello delle Torri Gemelle? Però mi domando anche: è giusto entrare in guerra, uccidere persone innocenti, quando si cerca un solo uomo? Non ho risposte, mi sento impotente, ma penso che l’ America non potesse fare altro che reagire, anche se non ho molta fiducia in quello che gli americani hanno ottenuto in Afghanistan. Non penso che governerà un’alleanza democratica. L’uso della forza indiscriminata non è la risposta giusta. Le Nazioni Unite hanno avuto dei fallimenti, ma anche dei successi. Vorrei precisare che non faccio parte delle Nazioni Unite, ma del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che si interessa di aiutare i paesi in via di sviluppo. La globalizzazione dovrebbe rendere omogeneo il mondo – come avrebbe dovuto farlo il comunismo -, dovrebbe portare un certo grado di uguaglianza fra gli usi delle risorse del mondo. Ma è un concetto molto astratto, è inutile pensare di portare ovunque il beneficio della tecnologia digitale, in luoghi, per esempio, dove manca anche l’elettricità. Penso che alla base di tutti i nostri problemi ci sia la differenza fra i ricchi e i poveri: basta pensare che il 20% di 25 milioni di americani guadagna di più del 43% dell’intera popolazione mondiale. Una cifra impressionante.

 La globalizzazione dei mercati e della finanza rischia di creare un nuovo apartheid?
     Questa è una definizione troppo precisa: l’Apartheid era basato sul colore della pelle. Ma condivido questa preoccupazione. Includerei anche, come forma di razzismo, l’intolleranza religiosa, il fondamentalismo, perché si riduce spesso al colore del viso.

 Che effetto le fa scrivere in inglese, una lingua globale che rischia di schiacciare le altre?
     L’inglese è la mia lingua, il mio strumento di lavoro, ma mi preoccupa che qualunque lingua possa assumere un ruolo dominante. Mi domando se il fenomeno sia associato al potere politico. D’altra parte in Sud Africa sarebbe impossibile pubblicare qualcosa, se non fosse scritto in inglese, perché abbiamo 11 lingue diverse. Penso però che ci debba essere una maggiore cooperazione tra gli editori per finanziare le traduzioni.

 Qual’ è la sua opinione sulla politica del governo sudafricano riguardo all’AIDS?
    Mi ha sorpreso che la questione dell’Aids non sia stata sollevata a Stoccolma. L’Africa è il paese con il maggior numero di persone affette dall’Aids. E’ una nuova peste e può contagiare il mondo intero. La realtà è che, se si hanno i soldi, ci si può curare, se si è poveri, si muore. In Africa, come eredità del regime coloniale, c’è stata una reazione molto lenta alla situazione della diffusione dell’Aids. Il problema è duplice: da una parte non possiamo produrre medicinali perché sono protetti dalle leggi di proprietà intellettuale e dall’altra il nostro presidente, un uomo eccellente, di grande cultura e saggezza, tende ad essere scettico riguardo all’HIV come causa dell’Aids. Questo non vuol dire che metta un freno ai programmi di educazione, ma manca il suo appoggio e questo ha un cattivo effetto psicologico sulla popolazione.

 Può anticiparci qualcosa sul suo nuovo libro, che sarà pubblicato in Italia a maggio, “The Pickup”?     
     In un certo senso il mio libro tratta di un tema molto attuale perché il personaggio principale è un giovane arabo che è un immigrante clandestino e lavora in un garage a Johannesburg. Si tocca l’enorme problema dell’immigrazione che riguarda tutti i paesi. Il Sudafrica è il paese più ricco del continente africano ed è circondato da paesi poverissimi. Prima, durante l’Apartheid, le frontiere erano chiuse, ma, da quando sono state aperte, arriva un flusso continuo di immigrati, e non solo africani, ma anche dall’Asia. Non abbiamo nulla da dare loro, non abbiamo né case, né assistenza medica, né lavoro sufficiente, eppure continuano ad entrare. Il mio protagonista arabo, Abdul, lavora illegalmente in un’ officina meccanica e conosce per caso una donna bianca di una famiglia benestante sudafricana, perché lei ha bisogno di far riparare la macchina. Pensavo che avrei scritto una storia d’amore fra due persone di ambienti diversi, dell’attrazione fisica, dei sacrifici e delle bugie che l’amore può richiedere. Poi mi sono resa conto che l’argomento principale è diventato il problema dell’immigrazione, del trovarsi in un luogo illegalmente, del dover rinunciare a tutto, anche alla propria lingua, per vivere in un paese in cui si è sempre uno straniero. Dopo l’11 di settembre ho pensato, chissà, se il mio Abdul non fosse emigrato in Sudafrica, sarebbe potuto diventare un talebano?

Libri di Nadine Gordimer pubblicati da Feltrinelli:

Un mondo di stranieri (1961)
Qualcosa là fuori (1984)
Occasione d’amore (1984)
Un ospite d’onore (1985)
Una forza della natura (1987)
Il mondo tardoborghese (1989)
Vivere nell’interregno (1990)
Luglio (1991)
Storia di mio figlio (1991)
La figlia di Burger (1992)
Il salto (1992)
Nessuno al mio fianco (1994)
Scrivere ed essere (1996)
Un’arma in casa (1998)

Vivere nella speranza e nella storia (1999)


                                                                                                           

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