Se ancora abbiamo l’idea che uno
scrittore debba avere un fisico che in qualche modo rifletta le ore passate a
macinare idee e parole, ebbene il giovane Stefan Merrill Block (nato nel 1982,
cresciuto a Plano, in Texas, una laurea alla Washington University di St.Louis
nel 2004) la smentisce immediatamente: un viso aperto, un bel sorriso, spalle
larghe da ragazzo che ha fatto sport. Stefan Merrill Block è in Italia per
partecipare alla serata degli esordienti del Festival delle Letteratura di
Massenzio, condividendo l’attenzione del pubblico con il nostro Paolo Giordano,
autore de “La solitudine dei numeri primi”. E, in qualche modo che non vogliamo
indagare ma che certamente ha a che fare con il tema del suo libro, ci commuove
sentirlo dire che anche la sua mamma arriverà dagli Stati Uniti per assistere
all’evento.
26 anni, un libro pubblicato: se Le chiedo quando ha iniziato a
scrivere, mi risponderà che ha iniziato da bambino? E come ha fatto a trovare
chi le pubblicasse il libro, in questi tempi difficili in cui ci sono tanti
aspiranti scrittori?
E’ proprio così, ho iniziato a scrivere
quando ero bambino. Per me scrivere è sempre stato un impulso irresistibile; mi
sembra di perdere tempo se non scrivo, anzi qualunque cosa faccia mi sembra una
perdita di tempo al confronto dello scrivere. Forse ha a che fare con il fatto
che ho studiato a casa e non ho frequentato una scuola. Non avevo un programma
preciso, era mia madre- che è un’insegnante- che seguiva i miei studi e
assecondava i miei interessi o cercava di stimolarli. E io leggevo e scrivevo
sempre.
Come mai la sua famiglia ha fatto questa scelta per Lei?
Mia madre pensava che la
scuola pubblica non fosse abbastanza creativa per me, facevano fare un sacco di
lavoro scritto, e poi avevo un’insegnante che usava le punizioni corporali
sugli studenti- so che dopo fu anche incriminata per quello. Studiare a casa
per me volle dire godere un tempo libero disciplinato. In casa mia si poteva iniziare,
per esempio, a colazione, con una conversazione sull’impressionismo francese.
Il mio rapporto con l’imparare è un rapporto di passione. E poi sapevamo che ad
un certo punto sarei tornato a scuola: ho studiato a casa dagli otto ai
quindici anni. Come dicevo prima, fin da piccolo volevo scrivere- passavo molto
tempo da solo e pensavo a che cosa avrei scritto.
La seconda parte della prima domanda era su come abbia fatto a trovare
chi la pubblicasse: come ha fatto?
Sono stato fortunato
anche senza rendermene conto. Avevo lavorato come cameraman in India, poi sono
tornato e ho scritto per un anno e
mezzo, vivendo alle spalle della mia ragazza che ad un certo punto si è stufata
di mantenermi. Ho cercato un agente online, ho scritto ad un nome che pareva
essere piuttosto famoso, lui ha letto la mia mail- ne riceve chissà quante ma
sembra che le legga tutte prima di cestinarle. Non so che cosa lo abbia colpito
nella mia, fatto sta che gli ho mandato il manoscritto: era un venerdì, il
lunedì seguente mi ha contattato. Gli sono molto grato: è stato un lettore
appassionato del mio libro ed è stato anche un grande aiuto.
Ci sono tante cose insolite nel suo romanzo: l’argomento, prima di
tutto. E’ un libro sulla memoria e sulla dimenticanza, sull’Alzheimer e- come
scrive Lei stesso- sulle soffitte colme di ricordi. Che cosa l’interessava di
più? Il ricordo o la dimenticanza?
Immagino che mi interessasse l’interazione
delle due, memoria e dimenticanza. Le storie che ci diciamo sono fatte sia da
quello che ricordiamo sia da quello che dimentichiamo. Le storie che ci
raccontiamo per vivere hanno un senso non solo per quello che ricordiamo ma
anche per quello che dimentichiamo. Nel mio libro c’è questo fascino del
raccontare storie, cose che ricordo della mia infanzia; molte di queste cose
sono sulla malattia di Alzheimer che ha perseguitato la mia famiglia per
generazioni. Andavo ancora a scuola quando mia nonna è morta di Alzheimer, o,
se non di quello, era comunque ammalata di Alzheimer. E so che l’argomento del
mio libro è una scelta inusuale, ma c’è tanto nel libro che è analogo alla mia
esperienza durante l’infanzia, e poi c’è il Texas- sono nato e cresciuto in
Texas- e i problemi dell’adolescenza: anche io- come Seth- mi sono sentito
rifiutato dalle ragazze…
Allora c’è qualcosa di Lei nel personaggio di Seth?
C’è molto di più di
qualcosa. La biografia di Seth è come la mia, tante cose che racconto di lui
sono di me, tranne la scena in cui si guarda nudo nello specchio. Ai giovani
scrittori si dice sempre che devono scrivere di quello che sanno. Per me non è
vero, devi scrivere di quello che ti importa di più. E non potrei scrivere un
romanzo biografico perché un biografo deve attenersi alla verità, mentre io
parto dalla mia esperienza ma trasformo in una sorta di mito tutto quello che
racconto. Seth è me stesso trasformato in finzione narrativa, perché mi sentivo
limitato dalla verità. Essere un narratore significa tessere menzogne.
Oltre all’argomento, anche i personaggi del romanzo sono insoliti: il
vecchio che aveva un gemello e il ragazzo. Aveva bisogno di due estremi per
fissare quello che voleva dire sulla memoria?
Sono spesso i lettori che pensano che uno scrittore abbia messo di
proposito qualcosa nei suoi libri…Le voci di Abel e di Seth sono emerse in me
in maniera del tutto inconsapevole, sapevo che erano necessari ma non ne sapevo
il perché. Le mie storie si svolgono in luoghi che hanno qualcosa di mitico, do
ai miei personaggi nomi presi dalla Bibbia, attribuisco loro caratteristiche estreme,
come la gobba di Abel, perché tutto questo comunica un senso del mito e
contribuisce a creare l’atmosfera.
Quali dei due personaggi ha amato di più? E di quale dei due ha trovato
più facile scrivere?
Ho trovato più facile amare Abel, ero
ossessionato dalla sua voce. Perché Seth è troppo vicino a me, c’è troppo che
Seth condivide con me. E’ come quando ti innamori di qualcuno e lo puoi amare
totalmente subito perché non lo consoci ancora. Così è stato per me e Abel: mi
è stato più facile scrivere come Abel. Tanto facile che continuo a sentire la
voce di Abel: anche nel secondo libro mi è difficile mettere Abel da parte…
Perché il ragazzo Seth si riferisce a se stesso come al ‘Maestro del
Nulla’?
Perché è un poco quello che è successo a
me: nel libro c’è il tema della dimenticanza, sia biologica sia volontaria;
all’epoca in cui andavo a scuola io volevo solo scomparire, finire in un luogo
in cui non potevo essere visto. E’ quello che mi piacerebbe, essere Maestro del
Nulla- essere presente solo per osservare senza essere coinvolto, vorrei non
essere imbarazzato dalla mia vita. Essere Maestro del Nulla è tutto questo…
No, non l’ho vissuto come una sfida. Anche la professoressa che avevo
all’università, a cui ho mandato il libro, ha osservato che è un libro di
estremi, che questi estremi, una sorta di punto e contrappunto, si trovano
dappertutto nel mio romanzo, anche nel linguaggio. E in effetti, ci sono due
Jamie, due fratelli, anche la famiglia che arriva dall’Inghilterra viene
rispecchiata da Seth e dalla madre: è come se la mia maniera di dire storie
richiedesse questo gioco di giustapposizione. Forse il fatto che la mia
generazione sia cresciuta con Internet ha una relazione con questo. Io ho
ricevuto molta istruzione online; se, ad esempio, studiavo Van Gogh, facevo
ricerche su Wikipedia e poi su un altro sito…Quello che so di Van Gogh viene da
parti diverse e così la mia storia si basa su fonti diverse. Direi che la parte
più facile è stata scrivere con voci diverse, quella difficile è stata far
funzionare tutto insieme.
Dapprima ho pensato che il tipo di Alzheimer che descrive fosse
veramente provato, poi ho letto nella sua nota che non lo è: aveva bisogno per
la trama di questo tipo di Alzheimer ereditario?
In parte tutto quello che scrivo su questa
forma di Alzheimer è vero. Come ho già detto, c’è molto di autobiografico nel
romanzo. E ci sono tre forme di Alzheimer: una forma normale che si manifesta
tra i 70 e gli 80 anni e ha una leggera componente genetica; una seconda forma
che si manifesta prima, tra i 60 e i 70 anni ed è dovuta ad un amalgama di
geni; e infine la terza forma, estremamente precoce, perché si manifesta tra i
30 e i 40 anni, ed è ereditaria, del tutto genetica. Quello che volevo
esprimere nel libro era la mia esperienza del terrore, del dolore causato,
quando ero bambino, dalla perdita della nonna. Era stata ammalata per tre anni
ed è morta cadendo delle scale, quando era in stato confusionale, un po’ come
succede a Jamie nel libro. Il libro è disseminato di elementi che derivano
dalla mia infanzia, che sono penetrati dentro di me e ne escono trasformati:
quasi in ogni pagina c’è qualcosa che mi è successo, ma trasformato. E’ una
forma narrativa di realismo. Mio fratello mi ha detto di essersi commosso nel
leggere delle scene che riflettevano quelle che avevamo vissuto, anche se io,
mentre scrivevo, non ero del tutto consapevole di quello che stava filtrando
attraverso la mia memoria.
Isidora: qual è il ruolo del regno di Isidora?
Isidora è il mio tentativo di cercare di capire dove vadano gli ammalati
di Alzheimer. Voglio dire, dove vada la loro mente. Forse vanno ad Isidora: è
la mia speranza, pensarlo mi dà pace, come deve darla a loro. In realtà avevo
già scritto la storia della terra di Isidora tanto tempo fa, quando ero più
giovane, sotto l’influenza delle “Città Invisibili” di Calvino, soprattutto, e
di Borges.
Sta già lavorando ad un secondo romanzo? Forse l’ha già anche
terminato?
Uno l’ho già finito e l’ho cacciato subito
via. E ora ne sto scrivendo un altro. Ogni volta che inizio a scrivere
qualcosa, dapprima è sempre una storia che ha del fantastico, del liberatorio,
come una fuga. Poi la vicenda diventa sempre più buia. Avevo bisogno, dopo “Io
non ricordo”, di una storia che mi facesse fuggire con la mente, ed è quella
che ho cacciato via, ora sto scrivendo un romanzo su mio nonno, ricoverato in
un ospedale per malattie mentali: era afflitto da depressione bipolare. E’ un
romanzo per metà finzione letteraria e per metà libro di memorie, perché cerco
di ricreare i diari che scrisse mentre era in ospedale e che mia nonna ha
bruciato, insieme a tante altre cose di lui. Che, peraltro, morì in una maniera
che, a mio parere, significa che si è suicidato.
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