Voci da mondi diversi. Asia
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Vikas
Swarup, I sei sospetti
Ed. Guanda, trad. Seba Pezzani, pagg.
533, Euro 18,50
Vicky Rai, figlio del ministro
dell’Interno dell’Uttar Pradesh, ha ucciso la barista Ruby Gill e tuttavia è
stato assolto, grazie al potere del padre. Mentre festeggia la notizia, Vicky
Rai viene assassinato. La polizia arresta sei possibili colpevoli, trovati in
possesso di una pistola al ricevimento. Ognuno dei sei ha la sua storia, ognuno
ha un movente, ci sono le prove che ognuno dei sei può aver sparato, la verità
può avere molte facce. Chi è che ha ucciso Vicky Rai?
INTERVISTA
A VIKAS SWARUP, autore de I sei sospetti
L’epigrafe del primo capitolo del nuovo romanzo dello scrittore e
diplomatico indiano Vikas Swarup è tratta dal bel libro di Michelle de Kretser,
Il caso Hamilton, recensito su Stilos
nel 2006: ‘L’omicidio, come tutta l’arte, produce interpretazioni e resiste
alle spiegazioni’. Una frase che è un programma, un’indicazione di lettura,
un’allusione al metodo narrativo scelto da Swarup, in qualche maniera simile a
quello della De Kretser: non c’è un narratore onnisciente ne I Sei Sospetti, ci sono dei fatti e
tante possibili interpretazioni di questi fatti, quante sono le persone
coinvolte. Per approdare ad una verità sorprendente, introdotta da un’altra significativa
citazione tratta da un altro libro molto bello che ha pure qualche affinità con
quello di Swarup, Giochi Sacri di
Vikram Chandra: ‘Se vuoi vivere in questa città devi essere sempre tre mosse
avanti, e saper guardare dietro una bugia per vedere la verità e poi dietro
quella verità per vedere la bugia.’
Il processo a Vicky Rai, colpevole di aver ucciso, sparandole in faccia,
la studentessa universitaria Ruby Gill che, servendo al bar di un ristorante
alla moda, gli aveva negato un drink dopo la chiusura del locale, era stato una
farsa. L’ennesima farsa nella serie di processi in cui Vicky Rai o suo padre,
Jagannath Rai, ministro dell’Interno dell’Uttar Pradesh, erano stati coinvolti.
Padre e figlio erano sempre stati prosciolti, i testimoni spesso erano morti in
provvidenziali incidenti, i familiari dei testimoni erano stati messi a tacere
con laute somme di denaro.
Dopo essere stato dichiarato ancora una volta
innocente, Vicky Rai ha avuto l’impudenza di dare un ricevimento per
festeggiare. E diciamo pure che ha avuto quel che si meritava, perché è stato
ucciso. Le sei persone che la polizia ha trovato in possesso di un’arma in casa
di Vicky Rai coprono uno spettro ampio della società indiana: c’è Mohan Kumar,
ex segretario capo dell’Uttar Pradesh, uomo corrotto e donnaiolo, una stella
del cinema che giganteggia sorridendo dai cartelloni pubblicitari in tutta
l’India, un laureato disoccupato che campa rubando cellulari, un americano
molto ingenuo e un po’ tonto approdato in India per sposare una ragazza
conosciuta per corrispondenza, un aborigeno nero e, infine, lo stesso Jagannath
Rai, padre di Vicky.
In apparenza il romanzo di Vikas Swarup si presenta come un enigma
poliziesco del tipo di quelli ‘a stanza chiusa’ della maestra del giallo Agatha
Christie. Nel romanzo di Swarup, tuttavia, c’è un giornalista di indagine che
si assume il compito di cercare la verità e diffonderla attraverso le pagine
del suo giornale e, inoltre, la trama è costruita con una logica che procede
per addizione: prima vengono presentati i personaggi dei possibili colpevoli- e
i sei lunghi capitoli sono come sei romanzi brevi all’interno del romanzo, come
sei facce dell’India, di cui una si riflette in quella dello sprovveduto
americano, un alieno che non è in grado di capire che cosa succeda nel nuovo
mondo in cui è capitato. E i sei romanzi ci parlano di corruzione politica, di
tangenti, di mafia e di violenza (niente ferma l’ascesa e l’ambizione di Mohan
Kumar e di Jagannath Rai), di povertà e di compromessi (per il ladro laureato e
l’attrice), di religiosità primitiva e sfruttamento dell’ignoranza (l’aborigeno
in cerca della pietra sacra che è stata rubata). E le storie narrate non sono
neppure lineari, ci sono delle diramazioni, delle sotto-storie che arricchiscono
ulteriormente la trama: in seguito ad un contestato spettacolo spiritistico Mohan
Kumar soffre di sdoppiamento della personalità, ci sono lunghi periodi in cui
crede di essere Gandhi e si comporta di conseguenza, annullando qualunque altra
sua decisione che, naturalmente, è agli antipodi di un comportamento gandhiano;
la sorella ‘adottiva’ del laureato è una vittima della tragedia di Bhopal…
Una volta che conosciamo i personaggi
coinvolti, seguono i sei capitoli con i moventi che ognuno di loro aveva per
uccidere Vicky Rai, a cui si aggiungono sei possibili soluzioni dell’enigma
prima di arrivare all’ultima verità e alle parole inquietanti che chiudono il
libro: ‘persino l’omicidio può diventare una droga’.
I sei sospetti non è soltanto
un giallo, è un romanzo satirico, a volte grottesco, sull’India, un libro che
si allontana felicemente dalla narrativa colorata e stereotipata che troppo
spesso indulge in un quadro che non è più attuale dell’India, lontanissima
ormai dall’intenzionale purezza di un tempo (e lo vediamo nelle scene ridicole
in cui Mohan Kumar parla, si veste, si comporta come Gandhi), contaminata dal
capitalismo occidentale e tuttavia non ancora del tutto libera da antichi
pregiudizi. E la ricchezza affabulatoria di Swarup ci trascina e ci diverte,
intrigandoci con i cambiamenti di registro secondo quale dei personaggi sia il
protagonista. Tuttavia, come spesso accade quando un romanzo è costruito con
una logica così serrata, i personaggi risultano a volte freddi, portavoce di
quello che rappresentano- non riusciamo mai a condividere del tutto quello che
provano.
Stilos ha incontrato Vikas Swarup per
parlare con lui di tecniche di romanzo, di mafia, di corruzione e delle
conseguenze del consumismo.
Il
suo romanzo I sei sospetti è una denuncia,
forse ancora più forte di quella contenuta ne Le dodici domande, di tante cose che vanno male nella società
indiana contemporanea: pensa che uno scrittore e i suoi romanzi possano essere
efficaci nell’aumentare la consapevolezza della gente o nel debellare il male?
Ci sono scrittori e scrittori. Alcuni sentono
di avere l’obbligo di riformare la società e altri preferiscono intrattenerla.
Io mi trovo nel mezzo: voglio scrivere romanzi che siano impegnati e di intrattenimento. Voglio che i
lettori, alla fine, pensino alle questioni che ho sollevato. E tuttavia non
voglio che pensino di leggere un romanzo a tema, piuttosto un romanzo con una
coscienza. Se diventi polemico, il tuo messaggio può andare perso. Ma se riesci
a divertire il lettore e a farlo anche pensare, questa è la maniera giusta per
comunicare il tuo messaggio.
Mentre
stavo leggendo il suo libro i nostri quotidiani discutevano la frase detta dal
nostro primo ministro, che gli scrittori che scrivono della mafia diffamano il
paese. Che ne pensa?
Nono sono d’accordo. In una democrazia
non si deve spazzare nulla sotto il tappeto, per nascondere la sporcizia,
perché è peggio: è fare come lo struzzo che caccia la testa nella sabbia per
non vedere quello che è. Uno scrittore è come un fotografo. Quando scrive, fa
una fotografia della società. Forse quella foto non è buona, ma una macchina
fotografica non mente mai. Parlando di quelle questioni, si deve dire la verità
e non si può dire che si diffama il proprio paese denunciandone i mali.
Le
questioni sollevate nel suo romanzo sono molte: pensa che la corruzione e
l’avidità siano alla base dei comportamenti colpevoli?
Più che corruzione, direi che il nodo
del romanzo è una critica della nostra civiltà materialista. E non lo è solo l’India.
L’aborigeno Eketi pensa che, lasciando la sua isola, arriverà in un grande
paese pieno di luci, ma scopre che sotto le luci c’è il buio, vede il buio nei
nostri cuori. E’ come se mettesse uno specchio davanti a noi. Dov’è la
compassione per i poveri? Dov’è la solidarietà? Questa è la società creata dal
consumismo in cui i poveri non hanno voce. E questo è il messaggio del romanzo:
ci sono delle grida che noi non sentiamo perché siamo assordati dal rullo dei
tamburi. E’ un tema interessante: noi pensiamo che gli aborigeni siano dei
selvaggi che vanno in giro nudi, che sono rimasti all’età della pietra, che
sono dei primitivi, e loro pensano che siamo noi ad essere dei selvaggi. La
depravazione non esiste nella loro società, è una contaminazione della civiltà.
Eketi
è quindi una figura come il John di Huxley nel Nuovo Mondo?
Esattamente, oppure come il Candide di
Voltaire.
Il
romanzo mostra una splendida architettura: come si procede a scrivere un
romanzo del genere? Aveva in mente una tesi e ha escogitato quali fossero i
personaggi giusti per dimostrare la sua tesi?
La ragione principale è che volevo scrivere un romanzo polifonico, con
la voce di diversi personaggi. Non volevo un eroe principale, piuttosto sei
eroi o sei malvagi, e volevo che parlassero nella loro unica voce. Uno parla
solo tramite conversazioni telefoniche, di un altro leggiamo il diario…ma come
potevo assicurarmi che queste sei voci non sembrassero sei racconti separati?
Ogni storia reggeva come storia a sé, ma come farla diventare parte di un
romanzo più ampio? Altri scrittori hanno dato voce a più personaggi, Al-Aswani
ad esempio, in Palazzo Yacoubian. Ma
per lo più gli altri scrittori hanno scelto un palazzo o una casa di ritiro
come cornice per le loro storie. Io volevo una cornice più ampia. Ho pensato
allora ad un delitto e di fare dei sei personaggi sei sospetti, sei possibili
assassini. E’ questo il legame tra di loro. In un’investigazione ci può anche non essere un legame tra i personaggi
coinvolti. La struttura del romanzo è l’anatomia di un delitto.
Ha
detto che non c’è un eroe. Non potrebbe essere il giornalista l’eroe?
E’ un eroe o uno psicopatico? Il mondo
è grigio, nessuno è perfetto, nessuno è del tutto simpatico, io volevo dei
personaggi interessanti, volevo che il lettore fosse curioso di sapere di più
di loro. Volevo rappresentare il mondo reale che è grigio e non bianco e nero.
Ad
un certo punto Mohan Kumar inizia ad avere una personalità scissa. Crede di
essere Gandhi: ha fatto entrare Gandhi nella trama, creando un settimo
personaggio, per mostrare quanto si sia allontanata l’India dalle sue origini?
In parte sì, ma volevo anche qualcuno che fosse l’opposto di Kumar, che
è un burocrate corrotto, un donnaiolo, un uomo senza scrupoli. L’unico possibile
era Gandhi, che rappresenta la verità e l’onestà. In più in questa maniera
mostravo a che punto si sia arrivati, in un mondo dove non c’è più niente di
sacro, dove l’immagine di Gandhi può essere usata per reclamizzare un
dentifricio.
L’attrice
di Bollywood: è vero anche per l’India che le donne sono cambiate molto di più
degli uomini? quanto è responsabile Bollywood o il cinema dei cambiamenti delle
donne o dei cambiamenti nelle loro aspirazioni?
E’ vero, le donne sono cambiate più degli uomini, anche perchè prima la
loro condizione era veramente molto bassa, e tuttavia non c’è ancora parità tra
i sessi. Il governo cerca di dare maggiore potere politico alle donne, ha stabilito
che nei consigli dei villaggi la quota femminile sia il 33%. Nel Kerala, nel sud
dell’India, c’è un sistema matriarcale, sono le donne a prendere le decisioni:
il risultato è che c’è il 100% di alfabetizzazione.
Bollywood ha stereotipato
la figura della donna. Rappresenta la figura tradizionale di moglie e madre
devota. Sono pochissimi i film in cui la donna è indipendente. Succede sempre
che l’uomo tradisce e la donna perdona: il tipo che soffre in silenzio.
Bollywwod ha fatto della donna un oggetto sessuale, le donne sono là per il
canto e la danza.
Com’è
cambiata la vita delle famiglie? Ci sono ancora le grandi famiglie in cui si
convive tutti insieme? Oppure il mercato del lavoro ha fatto cambiare anche
quelle?
Cinquant’anni fa c’erano le grandi famiglie, dove tutti- nonni, figli e
nipoti- vivevano insieme. Non so se vivevano insieme felici e contenti, ma di
certo erano grandi famiglie. Anche i soldi venivano messi tutti insieme. Io
stesso sono cresciuto in una famiglia così. Tutto questo è scomparso, ora ci
sono le famiglie nucleari. Spesso gli anziani vengono messi in case di riposo,
sono sempre più numerosi i ragazzini che hanno le chiavi di casa perché non
trovano nessuno quando rientrano da scuola. Almeno nelle grandi città è così,
non basta più un solo stipendio, è la conseguenza della modernizzazione. E però
è sempre e ancora la donna che si prende cura della famiglia.
Due
dei personaggi sono dei casi estremi. Di uno, l’aborigeno, abbiamo già parlato.
L’altro è l’americano, ignorante e ingenuo come la peggior idea che possiamo
avere degli americani. Usare il grottesco nella letteratura può essere un
rischio: non temeva il rischio di renderlo poco credibile?
L’americano è una macchietta, una
figura da fumetto. L’ho fatto così deliberatamente. Se crei dei personaggi
credibili, non puoi metterli in situazioni incredibili. Lo puoi fare se crei un
personaggio che è una caricatura. Volevo uno zoticone del profondo Sud degli
Stati Uniti, della zona del bigottismo e volevo un uomo semplice e buono. Un
bambinone. Però è lui che alla fine ce la fa e ottiene tutto: la semplicità è
la via per sopravvivere. L’ignoranza è una benedizione. Il messaggio è che, se
il cuore è puro, tutto ti va bene.
Il
personaggio più drammatico è quello di Champi, che rappresenta le vittime di
Bhopal: che cosa è stato fatto in questi 26 anni?
Il 7 di giugno ci sarà la sentenza
definitive. Speriamo che i 202.000 morti possano riposare in pace e che i
30.000 feriti, più quelli che hanno avuto conseguenze a distanza di anni
possano avere un equo risarcimento. Non so se ci sarà nulla di sufficiente per
ricompensare questa gente che ha sofferto orrendamente per 26 anni. A tuttora,
solo una parte infinitesimale del denaro promesso è arrivato a destinazione.
Incrociamo le dita, speriamo nella sentenza del 7 giugno.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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