domenica 12 aprile 2015

Marek Halter, “Protocollo Cremlino” ed. 2013

Diaspora ebraica
Voci da mondi diversi. Francia
spy story
FRESCO DI LETTURA

Marek Halter, “Protocollo Cremlino”
Ed. Newton Compton, trad. F. Cataldi Villari, pagg. 382, Euro 9,90, ebook Euro 4,99


    Marek Halter, ebreo polacco con la cittadinanza francese, ha fatto sentire la sua voce a gennaio, dopo la sanguinosa strage dei giornalisti del Charlie Hebdo, denunciando l’obiettivo degli islamisti, di seminare il terrore creando una psicosi antimusulmana. Nei suoi romanzi Marek Halter affronta tematiche ebraiche, srotola storie che hanno origine nella Bibbia. “Protocollo Cremlino” è diverso, con la sua doppia ambientazione a Washington e in Unione Sovietica, tra il 1950 in America e gli anni tra il ‘30 e la fine della guerra in Russia.
     Giugno 1950. Un processo che dura cinque giorni. L’imputata è una donna, entrata negli Stati Uniti con un passaporto a nome di Maria Apron. Si chiama in realtà Marina Andreieva Gusseiev ed è accusata non solo di avere usato un documento falso, ma anche di aver ucciso Michael Apron, un agente segreto americano in Unione Sovietica.
Tremendi, gli anni ‘50 in America. Dimenticata l’alleanza con l’Unione Sovietica. Lo zio Joe (Iosif Stalin) è diventato l’acerrimo nemico dello zio Sam, il senatore McCarthy ha scatenato la ‘guerra alle streghe’ contro tutti coloro sospettati di nutrire simpatie per i comunisti- per lo più intellettuali, attori, artisti-, si incoraggia la delazione, si fabbricano false prove. In tribunale, accanto a McCarthy, è presente il senatore Nixon, il futuro presidente: la loro linea politica esige seminare il terrore rosso per spingere a destra i votanti. Davanti al loro comportamento decisamente offensivo nei confronti dell’accusata (già lo storpiare volutamente il suo nome è un segno di disprezzo mirato a destabilizzarla) la figura di Marina Andreieva Gusseiev rifulge di dignità, di coraggio, di una bellezza interiore che cancella le occhiaie e gli abiti strapazzati e i segni della prigione. Un giornalista ne è conquistato, la aiuterà al massimo delle sue possibilità.
    Marina Andreieva Gusseiev non può rispondere solo ‘sì’ o ‘no’ alle domande che le vengono fatte, al disprezzo con cui viene trattata risponde con un disprezzo ancora maggiore verso i suoi interlocutori rozzi e ignoranti. Inizia a raccontare, una storia che dura cinque giorni.
Che inizia con una notte lontana, nel 1932, in cui Marina, attrice diciottenne, è invitata ad una serata alla presenza di Stalin in persona. Ci si può sottrarre alle voglie del Piccolo Padre? No, e poi Marina è anche un po’ brilla. Quella stessa notte Nadezda Allilueva, la moglie di Stalin, si uccide. Da questo momento la vita di Marina è in pericolo, deve sottrarsi alla vista del dittatore, deve scomparire dal palcoscenico, finiti i sogni di gloria, deve nascondersi dagli agenti della polizia segreta che hanno occhi e orecchi ovunque. Marina finisce nel Birobidjan, ai confini con la Manciuria,
e questa è la parte di certo più intrigante del romanzo. Perché, per chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato, il Birobidjan è una Regione Autonoma voluta da Stalin per gli ebrei nel 1931, a metà strada tra il paradiso e l’inferno, sulla linea ferroviaria della transiberiana, e comunque un rifugio per gli ebrei dove la prima lingua parlata era (ed è) lo yiddish. Il clima estremo e il quasi totale isolamento ne fecero il luogo ideale per chiunque volesse nascondersi dal Grande Fratello. Per Marina, la non ebrea che impara lo yiddish e calca le scene del teatro ebraico, e per Michael Apron, la spia americana che riveste i panni del medico (molto bravo e molto stimato), che si innamora di Marina e la sposa. La tragedia attende entrambi. Marina la racconta in quell’aula di tribunale dove la accusano di essere lei ad avere ucciso l’uomo pensando al quale si era aggrappata alla vita nel gulag.


  Marek Halter ha scritto un romanzo che mescola generi diversi- è in parte una spy story dove la tensione, però, non è solo nella parte finale quando intuiamo che la trappola sta per scattare, ma anche, e soprattutto, in tutto il racconto di Marina, in quella continua fuga- sua e di altri ebrei che hanno ancora meno fortuna di lei-, in parte è storia d’amore, in parte è Storia del popolo ebraico dentro la grande madre Russia, storia del suo famoso teatro. A fianco di tutto questo la piccola storia degli Stati Uniti appare misera cosa.



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