Diaspora ebraica
Voci da mondi diversi. Francia
spy story
FRESCO DI LETTURA
Marek Halter, “Protocollo Cremlino”
Ed. Newton Compton, trad. F.
Cataldi Villari, pagg. 382, Euro 9,90, ebook Euro 4,99
Marek Halter, ebreo polacco con la
cittadinanza francese, ha fatto sentire la sua voce a gennaio, dopo la
sanguinosa strage dei giornalisti del Charlie
Hebdo, denunciando l’obiettivo degli islamisti, di seminare il terrore
creando una psicosi antimusulmana. Nei suoi romanzi Marek Halter affronta
tematiche ebraiche, srotola storie che hanno origine nella Bibbia. “Protocollo
Cremlino” è diverso, con la sua doppia ambientazione a Washington e in Unione
Sovietica, tra il 1950 in America e gli anni tra il ‘30 e la fine della guerra
in Russia.
Giugno 1950. Un processo che dura cinque
giorni. L’imputata è una donna, entrata negli Stati Uniti con un passaporto a
nome di Maria Apron. Si chiama in realtà Marina Andreieva Gusseiev ed è
accusata non solo di avere usato un documento falso, ma anche di aver ucciso
Michael Apron, un agente segreto americano in Unione Sovietica.
Tremendi, gli anni ‘50 in
America. Dimenticata l’alleanza con l’Unione Sovietica. Lo zio Joe (Iosif
Stalin) è diventato l’acerrimo nemico dello zio Sam, il senatore McCarthy ha
scatenato la ‘guerra alle streghe’ contro tutti coloro sospettati di nutrire
simpatie per i comunisti- per lo più intellettuali, attori, artisti-, si
incoraggia la delazione, si fabbricano false prove. In tribunale, accanto a
McCarthy, è presente il senatore Nixon, il futuro presidente: la loro linea
politica esige seminare il terrore rosso per spingere a destra i votanti.
Davanti al loro comportamento decisamente offensivo nei confronti dell’accusata
(già lo storpiare volutamente il suo nome è un segno di disprezzo mirato a
destabilizzarla) la figura di Marina Andreieva Gusseiev rifulge di dignità, di
coraggio, di una bellezza interiore che cancella le occhiaie e gli abiti
strapazzati e i segni della prigione. Un giornalista ne è conquistato, la
aiuterà al massimo delle sue possibilità.
Marina Andreieva Gusseiev non può
rispondere solo ‘sì’ o ‘no’ alle domande che le vengono fatte, al disprezzo con
cui viene trattata risponde con un disprezzo ancora maggiore verso i suoi
interlocutori rozzi e ignoranti. Inizia a raccontare, una storia che dura
cinque giorni.
Che inizia con una notte lontana, nel 1932, in cui Marina,
attrice diciottenne, è invitata ad una serata alla presenza di Stalin in
persona. Ci si può sottrarre alle voglie del Piccolo Padre? No, e poi Marina è
anche un po’ brilla. Quella stessa notte Nadezda Allilueva, la moglie di
Stalin, si uccide. Da questo momento la vita di Marina è in pericolo, deve
sottrarsi alla vista del dittatore, deve scomparire dal palcoscenico, finiti i
sogni di gloria, deve nascondersi dagli agenti della polizia segreta che hanno
occhi e orecchi ovunque. Marina finisce nel Birobidjan, ai confini con la
Manciuria,
e questa è la parte di certo più intrigante del romanzo. Perché, per
chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato, il Birobidjan è una Regione
Autonoma voluta da Stalin per gli ebrei nel 1931, a metà strada tra il paradiso
e l’inferno, sulla linea ferroviaria della transiberiana, e comunque un rifugio
per gli ebrei dove la prima lingua parlata era (ed è) lo yiddish. Il clima
estremo e il quasi totale isolamento ne fecero il luogo ideale per chiunque
volesse nascondersi dal Grande Fratello. Per Marina, la non ebrea che impara lo
yiddish e calca le scene del teatro ebraico, e per Michael Apron, la spia
americana che riveste i panni del medico (molto bravo e molto stimato), che si
innamora di Marina e la sposa. La tragedia attende entrambi. Marina la racconta
in quell’aula di tribunale dove la accusano di essere lei ad avere ucciso
l’uomo pensando al quale si era aggrappata alla vita nel gulag.
Marek Halter ha scritto un romanzo che mescola generi diversi- è in
parte una spy story dove la tensione, però, non è solo nella parte finale
quando intuiamo che la trappola sta per scattare, ma anche, e soprattutto, in
tutto il racconto di Marina, in quella continua fuga- sua e di altri ebrei che
hanno ancora meno fortuna di lei-, in parte è storia d’amore, in parte è Storia
del popolo ebraico dentro la grande madre Russia, storia del suo famoso teatro.
A fianco di tutto questo la piccola storia degli Stati Uniti appare misera
cosa.
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