mercoledì 15 aprile 2015

Anuradha Roy, L’atlante del desiderio

                                               Voci da mondi diversi. Asia
  il libro ritrovato

Anuradha Roy, L’atlante del desiderio
Ed. Bompiani, trad. Licia Vighi, pagg. 431, Euro 21,00

La storia di una famiglia in India dagli inizi del ‘900 alla seconda metà del secolo scorso. Nel 1907 Amulya  si trasferisce da Calcutta a Songarh dove mette in piedi un piccolo stabilimento che produce medicinali e profumi utilizzando erbe, fiori e foglie selvatici. Uno dei figli continuerà il suo lavoro, l’altro, Nirmal, diventa professore di storia e poi archeologo. Nirmal si sposa, resta vedovo con una figlia piccola. La bimba Bakul cresce nella casa dei nonni insieme a Mukunda, un orfano di cui Amulya si è sempre preso cura. I bambini verranno separati, ci sarà la Spartizione, Mukunda si sposa ma il caso lo riporta a Songarh dove incontra di nuovo Bakul.


INTERVISTA AD  ANURADHA ROY, autrice de L’atlante del desiderio


    C’è sempre qualcosa di fluviale nelle saghe di famiglia. Nel romanzo L’atlante del desiderio della scrittrice indiana Anuradha Roy lo scorrere delle vicende di Amulya Babu, di sua moglie Kananbala e dei due figli Kamal e Nirmal, sembra ad un certo punto diventare tutt’uno con quello delle acque del Gange, tale è l’importanza di questo fiume nella storia di famiglia. Perché, durante le piogge monsoniche, il Gange straripa e allaga la casa di Bikash Babu, suocero di Nirmal: è una cosa che avviene sempre, Bikash è abituato a rifugiarsi al piano superiore, aspettando che l’acqua si ritiri. Ma quando sua figlia Shanti è ospite in casa sua in attesa del parto, l’usuale allagamento diventa una tragedia. Il parto è prematuro, è impossibile mandare a chiamare la levatrice, nasce una bambina e Shanti muore.

     ‘La casa nella fotografia galleggia su un fiume dall’innocuo colore bruno seppia’: è della casa sull’acqua che apprendiamo prima di tutto, all’inizio del libro. C’è un’intera pagina che la descrive, nel prologo, per chiudersi con l’immagine di un albero che ondeggia sull’acqua ‘come una barca in un viaggio senza fine’. La giovanissima Shanti, che muore di parto, aveva già deciso che, se fosse nata una bimba, si sarebbe chiamata con il nome di quell’albero, Bakul, e allora non possiamo proprio fare a meno, a lettura terminata, di pensare alla grandiosa metafora del fiume che tutto trascina con sé, come la vita che sospinge uomini e donne con una forza a cui non riescono a sottrarsi, a volte andando fuori dal suo alveo, per poi rientrare, proprio come accade nelle esistenze umane quando qualcosa di straordinario turba e sconvolge il quotidiano.

      Il romanzo è la storia di una famiglia indiana attraverso tre generazioni: il tempo passa, gli inglesi lasciano l’India, i disordini dopo la Spartizione mettono in fuga i musulmani verso il Pakistan, cambiano, lentamente, i costumi. Il matrimonio di Kananbala e Amulya, come quello del figlio Nirmal con Shanti, è combinato. Il bambino Mukunda, figlio di una dipendente di Amulya, mantenuto da questi per sei anni in un orfanotrofio e poi portato a casa da Nirmal, condivide i giochi infantili con Bakul ma viene mandato a studiare a Calcutta quando diventa chiaro che, crescendo, tra loro due potrebbe sorgere un sentimento più che fraterno. E non si può parlare d’amore tra una ragazza di buona famiglia indù e un giovane di cui non si conosce la casta e che potrebbe essere musulmano. Tuttavia si potrà: la terza parte del romanzo è narrata in prima persona proprio da Mukunda, che ci racconta di sé, di come era e di come è diventato. Era curioso, amante della lettura e dello studio. Si era sposato, aveva avuto un figlio, viveva nella casa che un professore musulmano gli aveva affidato prima di fuggire in Pakistan. Aveva trovato lavoro con un piccolo impresario che comprava e rivendeva case in una maniera molto redditizia e poco onesta. Mukunda era diventato come lui. E si disprezzava. E poi aveva ritrovato Bakul- un amore mai spento, solo differito nel tempo, quando diventa possibile.
     Il fascino del romanzo di Anuradha Roy, più che nelle vicende della trama, più che nei personaggi (peraltro tutti molto vivi e attraenti, anche quelli secondari che lasciamo al lettore scoprire), è nei protagonisti ‘non umani’: non solo il fiume che diventa una sorta di deus ex machina ma anche, o soprattutto, le tre case intorno a cui, o tra le cui mura, si svolgono le vite di Amulya e Nirmal e Bakul, di Shanti e di Mukunda. Case che rappresentano chi ci vive, che sono lo sforzo di una vita e che non possono essere lasciate morire- neppure quella invasa dalle acque che ne hanno corroso le fondamenta. Quando Mukunda, per salvare la casa di Nirmal e Bakul, svende quella del professore musulmano, si sente un traditore. Quando il professore ritorna, dopo un’assenza durata una decina d’anni, e la casa che aveva affidato a Mukunda è già stata rasa al suolo, dice di capire: il tempo spazza via tutto, anche i buoni propositi. Ma scompare anche lui su un autobus, confuso nella ressa.
Case come persone di pietra, destinate a durare e a testimoniare il passato, come le rovine dell’antichità nei pressi di Songarh che sono l’oggetto di studio di Nirmal. E la prima domanda che rivolgiamo ad Anuradha Roy riguarda proprio le case del suo romanzo.
   
Le rovine e le case giocano un ruolo importante nel romanzo. Ci sono le rovine studiate da Nirmal e ci sono tre case preziose, una delle quali viene venduta, e poi c’è il lavoro di Mukunda che ha a che fare con le case. Le case rappresentano ognuna qualcosa di diverso?

      Sono felice che Lei abbia colto questo punto che è molto importante. Il romanzo è sulla ricerca della casa e sulla perdita. La casa sul fiume rappresenta le persone che si aggrappano a qualcosa nel passato; la casa in cui Mukunda e Bakul sono cresciuti, invece, è costruita come una fortezza, è una sorta di rifugio e tuttavia, alla fine, i proprietari stanno per perderla; la piccola casa di Calcutta, quella del professore musulmano, è quella che trovo più interessante. E’ il simbolo dei legami tra gli uomini: il vecchio musulmano ha fiducia nel giovane Mukunda e gli affida la sua casa. Mukunda tradisce la sua fiducia e il tradimento porta alla distruzione della casa.

Quando l’astrologo legge la mano di Mukunda, gli dice che legge una mappa di desideri impossibili e di enormi ambizioni. Eppure Mukunda riesce a realizzare alcune di queste ambizioni. Ad esempio si riunisce con Bakul, alla fine. Riesce perché sono cambiati i tempi?
      I tempi sono cambiati ma, anche se questo è un romanzo che si volge in gran parte nei tempi passati, è un romanzo che registra anche il movimento di migrazione degli uomini verso le grandi città, in cerca dei loro sogni. Nel caso di Mukunda, le sue condizioni migliorano, ha successo ma è un successo minato dalla corruzione. Il libro finisce con Mukunda che non solo ricerca il suo vecchio amore ma anche il suo senso morale. Non c’è stato un vero e proprio cambiamento sociale che allenta le differenze di casta- dopo tutto nel primo matrimonio di Mukunda il padre della ragazza era interessato ai soldi, alla casa in cui Mukunda viveva. Un uomo si può perdere nella grande città.

Ci sono parecchi personaggi femminili importanti nel romanzo. Se Kananbala rappresenta la donna tradizionale, la nipote Bakul rappresenta la donna nuova. Nel mezzo c’è Meera, la vedova che non può risposarsi ma che trova lavoro come insegnante. Restiamo incerti su come giudicare Mrs. Barnum. Che cosa dobbiamo pensare di lei? La sua ambiguità è forse dovuta al fatto che è anglo-indiana?

     Sì. Gli anglo-indiani si trovano in una zona di confine tra la società indiana e quella inglese. Non sono né questo né quello. Sono figli dei britannici che hanno sposato donne indiane, soprattutto agli inizi della colonizzazione britannica. E tuttavia vengono discriminati, non interamente bene accetti né da una parte né dall’altra. Così il marito di Mrs. Barnum, che è inglese, teme sempre che la moglie possa fargli fare qualche brutta figura, che lui debba vergognarsi di lei.

Le ho già chiesto del significato delle case. Ma ci sono altre due cose che sembrano essere dei personaggi viventi tanto quanto le persone. Una è il fiume che inonda i terreni e la casa. L’inondazione è accettata come inevitabile: fa parte della filosofia indiana della vita?
      Per il nonno di Bakul, che attende l’inondazione senza fare nulla, più che una filosofia di vita è una parte del suo carattere. E’ un personaggio tragico che aspetta il destino che lo distrugge. E’ un uomo con una vena autodistruttiva in sé. E la casa sul fiume è basata su una casa che ho veramente conosciuto. Mia zia possedeva una grande casa feudale che io non ho mai visto. Ma su una parete di quella in cui viveva c’era una fotografia di una casa parzialmente sommersa. Il fiume è una grande forza, il vecchio nonno non prende nessuna decisione, è un patriarca che non ascolta nessuno- anzi, continua a piantare alberi che impiegheranno anni per crescere, anche se sa che la casa verrà sommersa. E il fiume finisce per distruggerlo.

L’altro personaggio importante non umano è il pappagallo Noorie che impariamo ad amare. Il pappagallo è semplicemente un tocco di colore o ha un suo ruolo, di rappresentare qualcosa che scompare? E’ forse anche il doppio di Kananbala, con le sue imprecazioni?

     Ah, il pappagallo! Il pappagallo è il primo segno della degenerazione morale di Mukunda. Dapprima Mukunda è solo crudele con il pappagallo, poi il pappagallo impara da lui imprecazioni e brutte parole. E sì, in un certo senso è il doppio dell’anziana Kananbala che ha l’Alzhaimer. Ha anche la funzione di coro, nel senso che da lui sappiamo che cosa succede a Mukunda: Mukunda sta andando a pezzi. Quando Mukunda perde il pappagallo, ha perso tutto: la moglie, il figlio e anche il pappagallo che è l’unico con cui aveva un qualche contatto. Ed è tutta colpa sua. In questo libro mi interessava trattare dell’autodistruzione.

La maggior parte della narrazione è in terza persona. Perché ha deciso di dare la parola ad un personaggio nella terza parte del libro? E perché ha scelto Mukunda?
     In realtà circa la metà del libro è in prima persona. Non intendevo affatto cambiare, quando ho iniziato a scrivere il romanzo. Poi, scrivendo, mi sono accorta che alcuni personaggi acquistavano un’importanza sempre maggiore. E’ stato allora che ho pensato che avrei dovuto far parlare Mukunda in prima persona. Perché nella prima parte Mukunda non ha voce, è un servo nella casa di Amulya. La seconda parte, allora, dà voce a questo personaggio: è la centralità della classe inferiore nella nuova India. Ecco perché Mukunda vuole cancellare il suo passato. Non vuole pensare che era dipendente dalla famiglia che ha finito per mandarlo via. Se Mukunda diventa corrotto, c’è un motivo, tutta la sua vita è una lotta.

La felicità arriva molto tardi a Mukunda e Bakul. Dobbiamo essere pessimisti sul loro futuro? Sta al lettore scegliere come vederlo?
      Sì: quando Mukunda e Bakul si ritrovano, sono solo dei gusci di quello che erano, dietro il guscio della casa. Si sono ritrovati, ma che cosa faranno dei loro gusci? E ci sono altri problemi irrisolti, c’è sempre la moglie abbandonata da Mukunda nello sfondo…

In un certo senso, allora, Mukunda è l’opposto dell’uomo che lo ha protetto, mettendolo in un orfanotrofio?
     In un certo senso sì. Una volta non era una cosa insolita per una grande famiglia accogliere in casa chiunque avesse bisogno di ospitalità, anche parenti alla lontana, o conoscenti. Amulya è il vecchio patriarca. Non è simpatico, non è il marito compagno della moglie, ma si occupa di lei, quando lei si ammala. E’ l’uomo che fa il suo dovere, che fa quello che è giusto fare. Che tiene fede alla sua parola, cosa che Mukunda non fa.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                                                      

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