Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Anuradha
Roy, L’atlante del desiderio
Ed. Bompiani, trad. Licia Vighi, pagg.
431, Euro 21,00
La storia di una famiglia in India dagli
inizi del ‘900 alla seconda metà del secolo scorso. Nel 1907 Amulya si trasferisce da Calcutta a Songarh dove
mette in piedi un piccolo stabilimento che produce medicinali e profumi
utilizzando erbe, fiori e foglie selvatici. Uno dei figli continuerà il suo
lavoro, l’altro, Nirmal, diventa professore di storia e poi archeologo. Nirmal
si sposa, resta vedovo con una figlia piccola. La bimba Bakul cresce nella casa
dei nonni insieme a Mukunda, un orfano di cui Amulya si è sempre preso cura. I
bambini verranno separati, ci sarà la Spartizione , Mukunda si sposa ma il caso lo
riporta a Songarh dove incontra di nuovo Bakul.
INTERVISTA
AD ANURADHA ROY, autrice de L’atlante del desiderio
C’è sempre qualcosa di fluviale nelle saghe di famiglia. Nel romanzo L’atlante del desiderio della scrittrice
indiana Anuradha Roy lo scorrere delle vicende di Amulya Babu, di sua moglie Kananbala
e dei due figli Kamal e Nirmal, sembra ad un certo punto diventare tutt’uno con
quello delle acque del Gange, tale è l’importanza di questo fiume nella storia
di famiglia. Perché, durante le piogge monsoniche, il Gange straripa e allaga
la casa di Bikash Babu, suocero di Nirmal: è una cosa che avviene sempre,
Bikash è abituato a rifugiarsi al piano superiore, aspettando che l’acqua si
ritiri. Ma quando sua figlia Shanti è ospite in casa sua in attesa del parto,
l’usuale allagamento diventa una tragedia. Il parto è prematuro, è impossibile
mandare a chiamare la levatrice, nasce una bambina e Shanti muore.
‘La casa nella fotografia galleggia su un fiume dall’innocuo colore
bruno seppia’: è della casa sull’acqua che apprendiamo prima di tutto, all’inizio
del libro. C’è un’intera pagina che la descrive, nel prologo, per chiudersi con
l’immagine di un albero che ondeggia sull’acqua ‘come una barca in un viaggio
senza fine’. La giovanissima Shanti, che muore di parto, aveva già deciso che,
se fosse nata una bimba, si sarebbe chiamata con il nome di quell’albero,
Bakul, e allora non possiamo proprio fare a meno, a lettura terminata, di
pensare alla grandiosa metafora del fiume che tutto trascina con sé, come la
vita che sospinge uomini e donne con una forza a cui non riescono a sottrarsi,
a volte andando fuori dal suo alveo, per poi rientrare, proprio come accade
nelle esistenze umane quando qualcosa di straordinario turba e sconvolge il
quotidiano.
Il romanzo è la storia di una famiglia indiana attraverso tre
generazioni: il tempo passa, gli inglesi lasciano l’India, i disordini dopo la Spartizione mettono in
fuga i musulmani verso il Pakistan, cambiano, lentamente, i costumi. Il
matrimonio di Kananbala e Amulya, come quello del figlio Nirmal con Shanti, è
combinato. Il bambino Mukunda, figlio di una dipendente di Amulya, mantenuto da
questi per sei anni in un orfanotrofio e poi portato a casa da Nirmal,
condivide i giochi infantili con Bakul ma viene mandato a studiare a Calcutta
quando diventa chiaro che, crescendo, tra loro due potrebbe sorgere un
sentimento più che fraterno. E non si può parlare d’amore tra una ragazza di
buona famiglia indù e un giovane di cui non si conosce la casta e che potrebbe
essere musulmano. Tuttavia si potrà: la terza parte del romanzo è narrata in
prima persona proprio da Mukunda, che ci racconta di sé, di come era e di come
è diventato. Era curioso, amante della lettura e dello studio. Si era sposato,
aveva avuto un figlio, viveva nella casa che un professore musulmano gli aveva
affidato prima di fuggire in Pakistan. Aveva trovato lavoro con un piccolo
impresario che comprava e rivendeva case in una maniera molto redditizia e poco
onesta. Mukunda era diventato come lui. E si disprezzava. E poi aveva ritrovato
Bakul- un amore mai spento, solo differito nel tempo, quando diventa possibile.
Il fascino del romanzo di Anuradha Roy, più che nelle vicende della
trama, più che nei personaggi (peraltro tutti molto vivi e attraenti, anche
quelli secondari che lasciamo al lettore scoprire), è nei protagonisti ‘non
umani’: non solo il fiume che diventa una sorta di deus ex machina ma anche, o
soprattutto, le tre case intorno a cui, o tra le cui mura, si svolgono le vite
di Amulya e Nirmal e Bakul, di Shanti e di Mukunda. Case che rappresentano chi
ci vive, che sono lo sforzo di una vita e che non possono essere lasciate
morire- neppure quella invasa dalle acque che ne hanno corroso le fondamenta.
Quando Mukunda, per salvare la casa di Nirmal e Bakul, svende quella del
professore musulmano, si sente un traditore. Quando il professore ritorna, dopo
un’assenza durata una decina d’anni, e la casa che aveva affidato a Mukunda è
già stata rasa al suolo, dice di capire: il tempo spazza via tutto, anche i
buoni propositi. Ma scompare anche lui su un autobus, confuso nella ressa.
Case come persone di pietra, destinate
a durare e a testimoniare il passato, come le rovine dell’antichità nei pressi
di Songarh che sono l’oggetto di studio di Nirmal. E la prima domanda che
rivolgiamo ad Anuradha Roy riguarda proprio le case del suo romanzo.
Le
rovine e le case giocano un ruolo importante nel romanzo. Ci sono le rovine
studiate da Nirmal e ci sono tre case preziose, una delle quali viene venduta,
e poi c’è il lavoro di Mukunda che ha a che fare con le case. Le case
rappresentano ognuna qualcosa di diverso?
Sono felice che Lei abbia colto questo punto che è molto importante. Il
romanzo è sulla ricerca della casa e sulla perdita. La casa sul fiume
rappresenta le persone che si aggrappano a qualcosa nel passato; la casa in cui
Mukunda e Bakul sono cresciuti, invece, è costruita come una fortezza, è una
sorta di rifugio e tuttavia, alla fine, i proprietari stanno per perderla; la
piccola casa di Calcutta, quella del professore musulmano, è quella che trovo
più interessante. E’ il simbolo dei legami tra gli uomini: il vecchio musulmano
ha fiducia nel giovane Mukunda e gli affida la sua casa. Mukunda tradisce la
sua fiducia e il tradimento porta alla distruzione della casa.
Quando
l’astrologo legge la mano di Mukunda, gli dice che legge una mappa di desideri
impossibili e di enormi ambizioni. Eppure Mukunda riesce a realizzare alcune di
queste ambizioni. Ad esempio si riunisce con Bakul, alla fine. Riesce perché
sono cambiati i tempi?
I tempi sono cambiati ma, anche se
questo è un romanzo che si volge in gran parte nei tempi passati, è un romanzo
che registra anche il movimento di migrazione degli uomini verso le grandi
città, in cerca dei loro sogni. Nel caso di Mukunda, le sue condizioni migliorano,
ha successo ma è un successo minato dalla corruzione. Il libro finisce con
Mukunda che non solo ricerca il suo vecchio amore ma anche il suo senso morale.
Non c’è stato un vero e proprio cambiamento sociale che allenta le differenze
di casta- dopo tutto nel primo matrimonio di Mukunda il padre della ragazza era
interessato ai soldi, alla casa in cui Mukunda viveva. Un uomo si può perdere nella grande città.
Ci
sono parecchi personaggi femminili importanti nel romanzo. Se Kananbala
rappresenta la donna tradizionale, la nipote Bakul rappresenta la donna nuova.
Nel mezzo c’è Meera, la vedova che non può risposarsi ma che trova lavoro come
insegnante. Restiamo incerti su come giudicare Mrs. Barnum. Che cosa dobbiamo
pensare di lei? La sua ambiguità è forse dovuta al fatto che è anglo-indiana?
Sì. Gli anglo-indiani si trovano in una zona di confine tra la società indiana
e quella inglese. Non sono né questo né quello. Sono figli dei britannici che
hanno sposato donne indiane, soprattutto agli inizi della colonizzazione britannica.
E tuttavia vengono discriminati, non interamente bene accetti né da una parte
né dall’altra. Così il marito di Mrs. Barnum, che è inglese, teme sempre che la
moglie possa fargli fare qualche brutta figura, che lui debba vergognarsi di
lei.
Le
ho già chiesto del significato delle case. Ma ci sono altre due cose che
sembrano essere dei personaggi viventi tanto quanto le persone. Una è il fiume
che inonda i terreni e la casa. L’inondazione è accettata come inevitabile: fa
parte della filosofia indiana della vita?
Per il nonno di Bakul, che attende l’inondazione senza fare nulla, più
che una filosofia di vita è una parte del suo carattere. E’ un personaggio
tragico che aspetta il destino che lo distrugge. E’ un uomo con una vena
autodistruttiva in sé. E la casa sul fiume è basata su una casa che ho
veramente conosciuto. Mia zia possedeva una grande casa feudale che io non ho
mai visto. Ma su una parete di quella in cui viveva c’era una fotografia di una
casa parzialmente sommersa. Il fiume è una grande forza, il vecchio nonno non
prende nessuna decisione, è un patriarca che non ascolta nessuno- anzi,
continua a piantare alberi che impiegheranno anni per crescere, anche se sa che
la casa verrà sommersa. E il fiume finisce
per distruggerlo.
L’altro
personaggio importante non umano è il pappagallo Noorie che impariamo ad amare.
Il pappagallo è semplicemente un tocco di colore o ha un suo ruolo, di
rappresentare qualcosa che scompare? E’ forse anche il doppio di Kananbala, con
le sue imprecazioni?
Ah, il pappagallo! Il pappagallo è il primo segno della degenerazione
morale di Mukunda. Dapprima Mukunda è solo crudele con il pappagallo, poi il
pappagallo impara da lui imprecazioni e brutte parole. E sì, in un certo senso
è il doppio dell’anziana Kananbala che ha l’Alzhaimer. Ha anche la funzione di
coro, nel senso che da lui sappiamo che cosa succede a Mukunda: Mukunda sta
andando a pezzi. Quando Mukunda perde il pappagallo, ha perso tutto: la moglie,
il figlio e anche il pappagallo che è l’unico con cui aveva un qualche contatto.
Ed è tutta colpa sua. In questo libro mi interessava trattare
dell’autodistruzione.
La
maggior parte della narrazione è in terza persona. Perché ha deciso di dare la
parola ad un personaggio nella terza parte del libro? E perché ha scelto
Mukunda?
In realtà circa la metà del libro è in prima persona. Non intendevo
affatto cambiare, quando ho iniziato a scrivere il romanzo. Poi, scrivendo, mi
sono accorta che alcuni personaggi acquistavano un’importanza sempre maggiore.
E’ stato allora che ho pensato che avrei dovuto far parlare Mukunda in prima
persona. Perché nella prima parte Mukunda non ha voce, è un servo nella casa di
Amulya. La seconda parte, allora, dà voce a questo personaggio: è la centralità
della classe inferiore nella nuova India. Ecco perché Mukunda vuole cancellare
il suo passato. Non vuole pensare che era dipendente dalla famiglia che ha
finito per mandarlo via. Se Mukunda diventa corrotto, c’è un motivo, tutta la
sua vita è una lotta.
La
felicità arriva molto tardi a Mukunda e Bakul. Dobbiamo essere pessimisti sul
loro futuro? Sta al lettore scegliere come vederlo?
Sì: quando Mukunda e Bakul si ritrovano,
sono solo dei gusci di quello che erano, dietro il guscio della casa. Si sono
ritrovati, ma che cosa faranno dei loro gusci? E ci sono altri problemi
irrisolti, c’è sempre la moglie abbandonata da Mukunda nello sfondo…
In
un certo senso, allora, Mukunda è l’opposto dell’uomo che lo ha protetto,
mettendolo in un orfanotrofio?
In un certo senso sì. Una volta non
era una cosa insolita per una grande famiglia accogliere in casa chiunque
avesse bisogno di ospitalità, anche parenti alla lontana, o conoscenti. Amulya
è il vecchio patriarca. Non è simpatico, non è il marito compagno della moglie,
ma si occupa di lei, quando lei si ammala. E’ l’uomo che fa il suo dovere, che
fa quello che è giusto fare. Che tiene fede alla sua parola, cosa che Mukunda
non fa.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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