Voci da mondi diversi. Asia
FRESCO DI LETTURA
Akhil Sharma, “Vita in famiglia”
Ed. Einaudi, trad. Anna Nadotti,
pagg. 173, Euro 19,00
Titolo originale: Family Life
Non piangevo né a casa né all’ospedale
perché non volevo creare problemi ai miei. Andando a scuola, tuttavia, lo
facevo. Piangevo per strane cose. Il peso dello zaino, il modo in cui mi
schiacciava, mi facevano piangere. A volte mi sfiorava qualche pensiero su
Birju. Mia madre aveva scritto alla Bronx High School of Science e ottenuto un
anno di proroga. Scosso dai singhiozzi, mi meravigliavo di amare così tanto mio
fratello. Prima non lo sapevo che contasse tanto per me.
“Vita di famiglia”. Un libro difficile da
scrivere. Un libro doloroso. Una vita difficile da vivere. Dolorosa. Un libro
difficile e doloroso da leggere, quello di Akhil Sharma che dice di aver
impiegato nove anni per scriverlo, quasi che il pensiero e la memoria non
volessero fissarsi su carta. Perché la vita della famiglia Mishrai (il libro è
autobiografico, sotto questo nome si cela la famiglia stessa dell’autore) è
stata spezzata in due, letteralmente. Per nessuno come per loro si può parlare
di un ‘prima’ e un ‘dopo’.
‘Prima’ sono i ricordi dell’infanzia
vissuta in India. Sono ricordi che ormai hanno perso la brillantezza dei
colori, sono diventati sfumati. Di essi resta l’ammirazione di Ajay per il
fratello maggiore Birju, l’attesa del visto per l’America del padre, la
partenza di questi e le sue lettere dal nuovo paese, la festosità di tutto il
quartiere quando era arrivata la busta con i loro biglietti: avrebbero
raggiunto il padre, erano circondati da un’atmosfera fatta di curiosità,
ammirazione, invidia, dovevano sbarazzarsi di tutto ciò che non potevano
portarsi dietro. Dei giocattoli, nel caso di Ajay. ‘Prima’ è anche l’anno che
segue il loro arrivo in America. Tutto è nuovo, tutto è una scoperta, anche un
giro al supermercato. Sono circondati da cose mai viste, assaliti da odori
sconosciuti, la gente parla una lingua che non è uguale all’inglese che hanno
imparato, che hanno sentito parlare in India. Ma Birju, il figlio primogenito,
è il vanto della famiglia. Birju è eccezionale, i suoi risultati scolastici
sono eccellenti, fa l’esame per essere ammesso ad una scuola superiore
prestigiosa, vuol diventare medico. Le loro speranze di integrazione e di
ascesa sociale sono riposte in Birju. E infatti Birju passa l’esame. E’ un
trionfo.
E’ agosto. Che cosa c’è di più normale per
un ragazzo in vacanza che andare a nuotare in piscina? Birju, però, non torna a
casa. Non tornerà più a casa se non come un corpo sdraiato sul letto, con flebo
attaccate, bisognoso di assistenza ventiquattro ore su ventiquattro. Un
incidente che segna una frattura definitiva nella vita di tutti loro. Forse è
più facile- se è lecito usare questo aggettivo- abituarsi e rassegnarsi ad
avere un figlio handicappato dalla nascita. Non c’è un confronto continuo nella
mente di chi gli è vicino. Non c’è lo stupore, la domanda assillante e senza
risposta del ‘perché’, e neppure la visione di un futuro che è stato spazzato
via, azzerato da tre minuti senza ossigeno che hanno danneggiato il cervello
per sempre.
Ajay è ancora un bambino. All’improvviso si
trova ad essere un misero sostituto del fratello- o almeno lui si sente tale. Giorno
dopo giorno in ospedale, e poi a casa quando i genitori decidono che Birju sarà
meglio assistito da loro stessi, con un aiuto esterno. Giorno dopo giorno ad
osservare le immutate condizioni del fratello, a spiare un segnale, a sentirsi
in colpa per provare una lieve ripugnanza, per desiderare l’attenzione dei
genitori, a constatare il deterioramento del rapporto dei genitori e il
progressivo cedere al bere del padre.
“Vita in famiglia” è un libro che tocca il
cuore, sia a chi sa per esperienza personale quanto immane sia il dolore di
assistere impotenti al vegetare di una persona amata, sia a chi riesce solo ad
immaginarla leggendo le pagine di Akhil Sharma. E’ un libro che esplora le
maniere diverse per reggere il peso di questo dolore-
la madre che non cessa di
sperare e si affida a qualunque guaritore ciarlatano prometta una guarigione
miracolosa, il padre che trova nell’alcol il sollievo dell’oblio, il ragazzo
che scopre la via della salvezza nei libri prima, nella scrittura poi. Si
finisce per tirare avanti, seguendo il passo inesorabile della vita. Ajay va
all’università, si laurea, ha una carriera di successo. Quando ritorna in
visita a casa si trova davanti al paradosso di come il tempo si sia fermato per
il fratello, bloccandolo nell’immobilità dell’incidente, e, per un altro verso,
sia invece progredito con lo stesso ritmo a cui è progredito per lui,
imbiancandogli i capelli. E si sente rimproverato, si sente in colpa: la colpa
del sopravvissuto.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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