Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Aravind Adiga, “La tigre bianca”
Ed. Einaudi, trad. Norman
Gobetti, pagg. 232, Euro 19,00
Titolo originale: The White Tiger
Il destino della mia vita era segnato.
Sarei andato in galera per un omicidio che non avevo commesso. Ero
terrorizzato, eppure nemmeno per un istante mi balenò l’idea di dire al giudice
la verità. Ero intrappolato nella Stia per Polli.
“Nella giungla, qual è
l’animale più raro…la creatura che appare in un unico esemplare per ogni
generazione?”- aveva chiesto l’ispettore al protagonista bambino che aveva
saputo rispondere alle sue domande tra i banchi di scuola. “La tigre bianca.” “Ecco cosa sei tu, in questa giungla.”
Giunge così nelle prime pagine la
spiegazione del titolo di questo eccellente primo romanzo di Aravind Adiga, vincitore
del Booker Prize 2008. E quella della tigre bianca, splendida nella sua unicità
che differenzia lei e il giovane Balram da tutti gli altri esemplari, è la
prima delle tante immagini di animali contenute nel libro- un cinico e spietato
quadro dell’India odierna. Già nel villaggio da cui Balram proviene gli
abitanti erano soggetti ai ricatti mafiosi degli ‘Animali’- il Bufalo,
l’Airone, il Corvo e il Cinghiale, i quattro possidenti che prendevano il nome
dai loro specifici appetiti. Più tardi, quando Balram fa l’autista a New Delhi,
verrà soprannominato Topo-di-campagna; lo zio del suo padrone è chiamato ‘la Mangusta ’; lui stesso
parlerà degli altri servitori come del ‘Circolo delle Scimmie’ e dell’intera
India come della ‘Stia dei Polli’: rapaci, crudeli, subdoli, violenti,
ridicoli, abietti, sono tutti oggetto di disprezzo e di disgusto. Salvo lui,
Balram, la Tigre Bianca ,
l’indiano ‘cotto a metà’ che ha ricevuto abbastanza istruzione da poter ambire
ad altro, anche se non ha abbastanza mezzi da poter uscire dalla stia dei polli
in maniera lecita.
Per raccontare la storia della sua vita
Balram impiega il pretesto narrativo di scrivere lettere al primo ministro
cinese Wen Jiabao, atteso in visita in India la settimana seguente. Balram si
definisce “un uomo pensante e un imprenditore” e vive a Bangalore, centro
mondiale della tecnologia e dell’outsourcing: in quale modo sia arrivato lì dal
villaggio fangoso delle Tenebre- come chiama tutta l’area dell’India solcata da
quello che una volta era il sacro fiume Gange ed ora è quasi una cloaca a cielo
aperto- è dentro il suo racconto. “La tigre bianca” è, quindi e nello stesso
tempo, un romanzo di formazione che ci affascina nella sua negatività
giustificata ed un ritratto della società visto dal basso, del tipo di cui
l’esempio più illustre è dato dalle “Memorie di Mr. Yellowplush” di William
Thackeray, il più romantico da “Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro.
O, nell’arte cinematografica, da “Gosford Park” con la regia di Altman.
Quello che conta di più nella vita è
l’ambizione, sembra dirci Balram. Bisogna essere ambiziosi e determinati per
uscire dalla puzzolente stia dei polli, bisogna lavorare per un fine e poi,
naturalmente, ci vuole un po’ di fortuna - e lui, Balram è ambizioso ed è
riuscito ad ottenere questo lavoro, di fare l’autista per Ashok, il figlio
dell’Airone, seguendolo a New Delhi. Balram osserva, ascolta, registra, impara.
L’ingenuo indiano ‘cotto a metà’ mantiene fino alla fine l’atteggiamento da
servo fedele muto, cieco e sordo; in realtà arriva a capire pienamente il grado
di corruzione e di degrado morale non solo dei suoi padroni ma di tutti quelli
con cui questi hanno a che fare- ministri e poliziotti e albergatori. E non
resta proprio niente della signorilità di un Lord Darlington in Mr. Ashok,
piuttosto prevale la vigliacca falsità del ricco Tom Buchanam nella scena
culmine che ne ricorda una simile del “Grande Gatsby”, quando si fa ricadere
sull’innocente Balram la morte della bambina investita dall’automobile guidata
dalla moglie di Ashok in stato di ubriachezza.
Non resta niente neppure dell’India
favoleggiata in altri romanzi ne “La tigre bianca” del giovane Aravind Adiga.
Niente fruscio di sari, nessun tintinnare di braccialetti, nessun colore
brillante di lucide sete, nessun profumo di spezie, nessuna concessione al
folklore. E’ un libro che usa il bianco e nero come le pellicole del cinema
realistico, che non ci risparmia gli spettacoli più sgradevoli come la fila dei
defecatori con il culo per aria, o come gli scarafaggi che si arrampicano sulla
branda di Balram negli scantinati umidi dove vengono alloggiati i servitori, e
neppure la sporcizia e la puzza. Il fango e le fogne. La realtà dei ricchi che
corrono per dimagrire e dei poveri che sognano un pugno di riso e muoiono di
consunzione.
“La tigre bianca” è un romanzo
spietato e rabbioso, che colpisce il lettore con la violenza di un pugno nello
stomaco.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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