giovedì 23 aprile 2015

Aravind Adiga, “La tigre bianca” Ed. 2008

                                                          Voci da mondi diversi. Asia
                                                                 il libro ritrovato



 Aravind Adiga, “La tigre bianca”
Ed. Einaudi, trad. Norman Gobetti, pagg.  232, Euro 19,00
Titolo originale: The White Tiger


     Il destino della mia vita era segnato. Sarei andato in galera per un omicidio che non avevo commesso. Ero terrorizzato, eppure nemmeno per un istante mi balenò l’idea di dire al giudice la verità. Ero intrappolato nella Stia per Polli.

    “Nella giungla, qual è l’animale più raro…la creatura che appare in un unico esemplare per ogni generazione?”- aveva chiesto l’ispettore al protagonista bambino che aveva saputo rispondere alle sue domande tra i banchi di scuola. “La tigre bianca.” “Ecco cosa sei tu, in questa giungla.”
Giunge così nelle prime pagine la spiegazione del titolo di questo eccellente primo romanzo di Aravind Adiga, vincitore del Booker Prize 2008. E quella della tigre bianca, splendida nella sua unicità che differenzia lei e il giovane Balram da tutti gli altri esemplari, è la prima delle tante immagini di animali contenute nel libro- un cinico e spietato quadro dell’India odierna. Già nel villaggio da cui Balram proviene gli abitanti erano soggetti ai ricatti mafiosi degli ‘Animali’- il Bufalo, l’Airone, il Corvo e il Cinghiale, i quattro possidenti che prendevano il nome dai loro specifici appetiti. Più tardi, quando Balram fa l’autista a New Delhi, verrà soprannominato Topo-di-campagna; lo zio del suo padrone è chiamato ‘la Mangusta’; lui stesso parlerà degli altri servitori come del ‘Circolo delle Scimmie’ e dell’intera India come della ‘Stia dei Polli’: rapaci, crudeli, subdoli, violenti, ridicoli, abietti, sono tutti oggetto di disprezzo e di disgusto. Salvo lui, Balram, la Tigre Bianca, l’indiano ‘cotto a metà’ che ha ricevuto abbastanza istruzione da poter ambire ad altro, anche se non ha abbastanza mezzi da poter uscire dalla stia dei polli in maniera lecita.

     Per raccontare la storia della sua vita Balram impiega il pretesto narrativo di scrivere lettere al primo ministro cinese Wen Jiabao, atteso in visita in India la settimana seguente. Balram si definisce “un uomo pensante e un imprenditore” e vive a Bangalore, centro mondiale della tecnologia e dell’outsourcing: in quale modo sia arrivato lì dal villaggio fangoso delle Tenebre- come chiama tutta l’area dell’India solcata da quello che una volta era il sacro fiume Gange ed ora è quasi una cloaca a cielo aperto- è dentro il suo racconto. “La tigre bianca” è, quindi e nello stesso tempo, un romanzo di formazione che ci affascina nella sua negatività giustificata ed un ritratto della società visto dal basso, del tipo di cui l’esempio più illustre è dato dalle “Memorie di Mr. Yellowplush” di William Thackeray, il più romantico da “Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro. O, nell’arte cinematografica, da “Gosford Park” con la regia di Altman.
    Quello che conta di più nella vita è l’ambizione, sembra dirci Balram. Bisogna essere ambiziosi e determinati per uscire dalla puzzolente stia dei polli, bisogna lavorare per un fine e poi, naturalmente, ci vuole un po’ di fortuna - e lui, Balram è ambizioso ed è riuscito ad ottenere questo lavoro, di fare l’autista per Ashok, il figlio dell’Airone, seguendolo a New Delhi. Balram osserva, ascolta, registra, impara. L’ingenuo indiano ‘cotto a metà’ mantiene fino alla fine l’atteggiamento da servo fedele muto, cieco e sordo; in realtà arriva a capire pienamente il grado di corruzione e di degrado morale non solo dei suoi padroni ma di tutti quelli con cui questi hanno a che fare- ministri e poliziotti e albergatori. E non resta proprio niente della signorilità di un Lord Darlington in Mr. Ashok, piuttosto prevale la vigliacca falsità del ricco Tom Buchanam nella scena culmine che ne ricorda una simile del “Grande Gatsby”, quando si fa ricadere sull’innocente Balram la morte della bambina investita dall’automobile guidata dalla moglie di Ashok in stato di ubriachezza.

     Non resta niente neppure dell’India favoleggiata in altri romanzi ne “La tigre bianca” del giovane Aravind Adiga. Niente fruscio di sari, nessun tintinnare di braccialetti, nessun colore brillante di lucide sete, nessun profumo di spezie, nessuna concessione al folklore. E’ un libro che usa il bianco e nero come le pellicole del cinema realistico, che non ci risparmia gli spettacoli più sgradevoli come la fila dei defecatori con il culo per aria, o come gli scarafaggi che si arrampicano sulla branda di Balram negli scantinati umidi dove vengono alloggiati i servitori, e neppure la sporcizia e la puzza. Il fango e le fogne. La realtà dei ricchi che corrono per dimagrire e dei poveri che sognano un pugno di riso e muoiono di consunzione.

“La tigre bianca” è un romanzo spietato e rabbioso, che colpisce il lettore con la violenza di un pugno nello stomaco.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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