Voci da mondi diversi. Canada
FRESCO DI LETTURA
Miriam Toews, “I miei piccoli dispiaceri”
FRESCO DI LETTURA
Miriam Toews, “I miei piccoli dispiaceri”
Ed. Marcos y Marcos, trad. M.
Balmelli, pagg. 363, Euro 15,30
Titolo originale: All My Puny Sorrows
Smettila soltanto di mentirmi su cos’è la vita, dice Elf.
Benissimo, Elf, smetterò di
mentirti quando tu smetterai di cercare di ammazzarti.
Allora Elf mi dice che dentro di sé ha un
pianoforte di vetro. Ed è terrorizzata all’idea che possa rompersi. Non può
permettere che si rompa. Mi dice che è schiacciato sotto la parte destra del
suo stomaco, che a tratti sente gli spigoli duri premerle contro la pelle, che
teme possa trafiggerla, e di morire dissanguata.
Forse è vero che uno
scrittore scrive sempre di sé. Forse la grandezza di uno scrittore sta proprio
in questo, nello scrivere sempre di sé mentre in apparenza scrive d’altro,
riuscendo ad allargare la propria esperienza personale, trasformandola in
qualcosa di universale. Dieci anni fa avevo letto, restandone molto colpita,
“Un complicato atto d’amore”, di Miriam Toews. Avevo appreso della comunità mennonita
a cui il suo fondatore, l’olandese Menno Simons, aveva dato regole severissime
nel lontano 1540. E tuttavia le stesse regole che hanno qualcosa di implacabile
sono tuttora valide ai nostri giorni nella cittadina di East Village, nel
Manitoba, in Canada, dove vive la famiglia von Riesen, per molti versi simile
alla famiglia Nickels del primo romanzo di Miriam Toews. Padre, madre, due
sorelle. Un padre ossequioso alle leggi, una madre con una straordinaria
energia vitale, una sorella maggiore decisamente ribelle e infine lei, la
sorellina di sei anni più giovane, voce narrante di “I miei piccoli
dispiaceri”.
Quella che Yolandi, alter ego di Mriam
Toews, racconta, è una storia autobiografica. E’ la storia del viaggio verso la
morte della sorella Elfrieda. Una morte cercata, voluta, desiderata, implorata.
E’ una storia tristissima. Potrebbe essere solo una storia tristissima se non
fosse che il piatto della bilancia della disperazione è equilibrato da quello
traboccante del brio, dell’umorismo e della forza positiva di Yolandi. Elfrieda
è in ospedale. Una volta, due volte. Non c’è il due senza il tre. Si riesce
veramente ad impedire a qualcuno di suicidarsi, se proprio vuole? Elfrieda
aveva chiesto aiuto alla sorella, unita a lei da un legame fortissimo, perché
la aiutasse a ricorrere alla morte assistita. E Yolandi prende in
considerazione la possibilità in pagine che oscillano tra il macabro e il
comico mentre si informa su google dei costi in Svizzera, oppure in Messico
dove, però, bisogna addentrarsi in quartieri pericolosi (pericolosi per chi?
per chi sarebbe felice in ogni caso di morire in qualsiasi maniera?) per
procurarsi i medicinali letali, chiedendo nello stesso tempo ad un amico
avvocato se lei, Yolandi, corresse il rischio di essere incriminata per averla
aiutata. E poi, ha senso sorvegliare a vista una persona se c’è forse un gene
ereditario che spinge al suicidio? nella loro famiglia si erano suicidati il
padre, una cugina…
Si parla tanto di morte, cercata, arrivata
per caso a chi non se l’aspettava (una zia venuta ad aiutare la madre), e
tuttavia, parallelamente, si esalta la vita. E’ difficile far combaciare le due
figure di Elfrieda, quella ormai trasparente nel letto di ospedale e quella
dagli occhi verdi, il sorriso smagliante e i capelli al vento che aveva suonato
Rachmaninov sfidando gli anziani della comunità che erano venuti per opporsi
alla sua musica (peccaminosa) e alla sua iscrizione all’università (il posto
delle donne è a casa, a fare figli), Elfrieda iconoclasta che lascia la sua
firma in rosso sui muri, Elfrieda grande pianista capace di commuovere le
folle, Elfrieda che aveva tutto, proprio tutto, anche un marito che la adora e
un agente che arriva dall’Italia con un enorme fascio di fiori, Elfrieda
maestra di vita della sorellina che è il suo opposto, casinista, squinternata,
due figli da due diversi mariti, un divorzio in corso, un romanzo iniziato,
senza capo né coda, che si porta dietro in un sacchetto del supermercato.
Eppure, tutto l’amore, del marito, della sorella, della madre (personaggio
straordinario nella sua stravagante ingenuità e purezza di cuore), non è
sufficiente per ancorare Elfrieda.
Fortemente drammatico e teneramente buffo,
spruzzato di riferimenti letterari (il titolo è una citazione di Coleridge, uno
dei ‘fidanzati letterari’ di Elfrieda di cui Yolandi è gelosa), “I miei piccoli
dispiaceri” è opera di una scrittrice che sa costruire un mondo su ogni
frammento di ricordo.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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