mercoledì 30 dicembre 2015

Shifra Horn, “Inno alla gioia” ed. 2005

                        Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                         il libro ritrovato



Shifra Horn, “Inno alla gioia”
Ed. Fazi, trad. Elisa Carandina, pagg. 338, Euro 16,00

    
   Gerusalemme, 20 gennaio 2002: Yael Maghid, dottoranda in antropologia, è ferma ad un semaforo al volante della sua Mini e scherza con un bimbo che la saluta con la manina, schiacciando la sua faccetta contro il finestrino posteriore dell’autobus in coda davanti a lei. Un boato e l’autobus salta in aria; qualcuno estrae Yael dall’auto, salva per miracolo. Ma questo “evento” traumatizzante cambia la vita di Yael: incapace di esprimere a parole l’orrore di quello che ha visto, si avvicina al padre del bimbo che lei è stata l’ultima a vedere e che, casualmente, era in cura dentistica da suo marito. Ma l’uomo è un ebreo ortodosso che ha perso sia il figlio sia la moglie nell’esplosione e la respinge. Yael divorzia dal marito, trova conforto nel figlio piccolo e nell’amica Nehama, riprende gli studi ed infine accetta un incarico di visiting professor in Inghilterra.


INTERVISTA A SHIFRA HORN, autrice di “Inno alla gioia”

Ha cambiato tono la letteratura israeliana. Letteratura di frontiera, prima, nell’epoca dell’entusiasmo per la fondazione del nuovo stato e della riscoperta di una lingua che era vissuta fino ad allora sulle pagine della Bibbia, romanzi di un mondo inghiottito dalla guerra mondiale, saghe famigliari lungo le strade che dall’Europa portano al Mediterraneo, storie ambientate nella moderna Tel Aviv, o nella sacra Gerusalemme, o negli utopistici kibbutzim. C’è una diversa atmosfera, nei romanzi scritti dopo la seconda Intifada: l’aria è percorsa dal suono lugubre delle sirene delle ambulanze, le trasmissioni si interrompono per trasmettere notizie dell’ultimo attentato, si percepisce la paura che è diventata parte della vita quotidiana. Come sono diventati di routine i funerali a cui partecipa il presidente nel romanzo “Parti umane” di Orly Castel-Bloom, all’ordine del giorno le morti che passano inosservate, come nell’ultimo libro di Yehoshua, radicate la diffidenza e l’inimicizia verso gli arabi israeliani di cui troviamo espressione nei libri di Sayed Kashua. Il pericolo con cui si deve convivere, il lutto e la morte come realtà di ogni giorno- è questo il tema portante nel nuovo romanzo della scrittrice israeliana Shifra Horn, “Inno alla gioia”.
L’evento centrale del libro è l’attentato terroristico che fa saltare in aria un autobus, danneggiando l’auto della protagonista Yael ma lasciando lei incolume. E le note trionfanti dell’Inno alla Gioia trasmesse dallo stereo dell’auto servono solo da tragico contrappunto alla sensazione dominante di morte, anticipata nelle prime pagine dalla formazione rocciosa sul Mar Morto chiamata “la moglie di Lot”- la figura biblica trasformata in statua di sale per essersi volta indietro a guardare la distruzione di Sodoma-, dall’argomento stesso della ricerca antropologica di Yael (le usanze funebri delle comunità ultraortodosse di Gerusalemme), dal percorso del taxi nella valle di Hinnom, dove venivano offerti sacrifici umani alle divinità pagane, o ancora, dal ricordo del padre di Yael, che veniva “da là”, dal posto di cui era proibito parlare, dai campi di concentramento dove era scomparsa la sua bambina. E un filo, spezzato e riannodato e che non deve essere tagliato mai più, lega quella bambina senza nome al bimbo morto nell’attentato e al figlio di Yael, perché i nostri figli sono il nostro futuro e dobbiamo proteggerli.
formazione rocciosa "la moglie di Lot" sul Mar Morto
Stilos ha intervistato Shifra Horn, in visita in Italia.


“Inno alla gioia” è scritto in uno stile molto diverso dai suoi precedenti romanzi. L’impressione è che abbia avuto uno shock, un confronto con una bruta realtà, perché non c’è più l’atmosfera lieve, quasi di sogno, di “La più bella tra le donne” e “Tamara cammina sull’acqua”.
       Questo è il mio primo romanzo contemporaneo, i tre precedenti erano romanzi storici in cui non trattavo direttamente del conflitto arabo-israeliano, ma lo facevo attraverso il prisma storico, era un compito più facile per me. E poi, improvvisamente mi sono trovata a scrivere un romanzo ambientato ai nostri giorni. Ho iniziato a scriverlo nel 2002: la spiegazione è che uno scrittore ha bisogno di una distanza storica per scrivere della contemporaneità. Adesso vivo in Nuova Zelanda, è un paese molto noioso, laggiù tutto è differente, non succede assolutamente niente. Ma vivere in Nuova Zelanda mi ha dato una prospettiva storica degli avvenimenti che accadono ora, altrimenti non sarei mai riuscita a scriverne e mi sarei rifugiata ancora una volta in un romanzo storico. La Nuova Zelanda mi ha offerto la distanza di tempo e di luogo, è come vivere su un altro pianeta.

Quello che negli altri libri era stato il soggetto di alcuni episodi- c’era sempre qualcuno ucciso da un arabo- qui diventa il tema del romanzo. Come si convive con la paura del terrorismo? Ha mai pensato di lasciare Israele  per questo?
       La mia vita si divide tra due luoghi, la Nuova Zelanda e Israele: io non lascerò mai Israele, ne ho bisogno per la mia ispirazione, ho bisogno della luce del sole, del Mediterraneo, della gente che parla con le mani. E il libro è una risposta alla mia paura: quando guido la mia automobile e mi trovo dietro ad un autobus, ho sempre paura che possa succedere qualcosa, che qualcuno si faccia saltare in aria su quell’autobus. Scrivere offre una via d’uscita ai miei timori, è la mia maniera di trattare la paura profonda di un attentato. Israele è un paese piccolo, ogni volta che succede qualcosa del genere, è inevitabile che si conosca qualcuno che è stato ucciso. Scrivo per combattere la mia paura radicata e primitiva.

 Dopo l’11 settembre, dopo il 7 di luglio a Londra, il terrorismo sembra attaccare ovunque. C’è una possibile fine di quest’incubo?
       Non c’è una via d’uscita dal terrorismo, perché il terrorismo non è logico: il Corano non approva l’uccisione degli innocenti, si può combattere contro dei soldati ma non contro i civili. Questo nuovo terrorismo non ha una spiegazione razionale perché colpiscono non solo in Israele, ma anche in Turchia, in Marocco, ammazzano i loro stessi fratelli in Iraq, uccidono donne e bambini, che sono innocenti, che non hanno niente a che fare con la politica. Non c’è un’ideologia dietro il terrorismo, solo la volontà di portare il caos nel mondo. Ho la sensazione tremenda che finirà solo quando tutto il mondo sarà convertito all’islam e la democrazia sarà sconfitta. Colpiscono anche l’Iraq perché sta avviandosi verso la democrazia e loro vogliono abolire la libertà e la democrazia. Ormai il bersaglio non è più Israele, uccidono per uccidere.

Avshalom, il padre del bambino morto nell’esplosione, era un pilota e paragona le missioni dei piloti agli attacchi terroristici, perché entrambi colpiscono dei civili innocenti. Pensava anche alla guerra in Iraq, scrivendo di questo?
      Il nome Avshalom vuol dire “il padre della pace”, e no, non pensavo all’Iraq quando scrivevo, perché ho iniziato a scrivere il romanzo prima della guerra in Iraq. Il problema etico di un pilota, come dico nel romanzo, è che deve considerare che, con la sua azione, può colpire anche vittime innocenti oltre all’obiettivo mirato. Ripensavo a quanto è successo nella seconda guerra mondiale, quando gli americani non hanno bombardato i campi di concentramento per timore di uccidere gli ebrei e non hanno considerato che era pur vero, ma ne avrebbero salvati molti altri. Non ho una risposta per questo problema, in Israele però i piloti possono scegliere, se hanno dei problemi di coscienza possono rifiutarsi di eseguire la missione a loro affidata. Possono disobbedire agli ordini.

Il suo romanzo è stato scritto prima della decisione di Sharon di lasciare i territori, e uno dei personaggi caldeggia questa decisione come risolutiva. Eppure continuano gli attacchi terroristici in Israele.
      Ecco perché siamo stati delusi. Ecco perché, dopo la delusione del trattato di Oslo, dopo quella del comportamento di Arafat, molti della sinistra sono passati alla destra. Yael, la protagonista del romanzo, era di sinistra ma, dopo il trauma dell’attentato, diventa più realista, teme per il futuro del figlio e si mette in una posizione di opposizione alla sua più cara amica. E’ un conflitto che sentiamo tutti: il 95% degli israeliani sono per la pace e per la liberazione dei territori, ma nello stesso tempo hanno paura. Pensano, ‘gli diamo quello che vogliono ma se poi non rispettano l’accordo?’. Dopotutto nel Corano si parla di quando Maometto, conquistando l’Arabia del sud, aveva promesso ad una tribù ebraica di non attaccarla e poi non ha mantenuto fede alla promessa: per i musulmani non esistono trattati validi con i non musulmani. Arafat, quelli di Hamas, non hanno rispettato gli accordi, gli attacchi contro Israele continuano, io sono molto preoccupata.

C’è un parallelo, nel romanzo, tra la tremenda esperienza dei sopravvissuti dei campi di concentramento e i sopravvissuti ad un attentato. Che cosa vuol dire sopravvivere?

     Yael appartiene alla seconda generazione dei sopravvissuti alla Shoah e in tutto il libro ci sono cenni al fatto che il padre ha perso una moglie e una figlia nei campi, per questo è molto protettivo nei confronti di Yael. Anche io sono una figlia di sopravvissuti alla Shoah e anche io penso di essere stata eccessivamente protetta- è l’esperienza di tutti i figli di sopravvissuti, ci soffocano con il loro amore, con il loro desiderio di una vita felice per noi. Dobbiamo riuscire nella vita, avere successo, per dare loro soddisfazione, siamo dei capri espiatori che devono dar loro la felicità. Dopo l’attentato, Yael si identifica con il padre; quando è in ospedale e aspetta il foglio con il permesso di andare a casa, teme che la trattengano, di dover indossare un pigiama a righe come quelli dei detenuti nei lager, di diventare una sopravvissuta E sente all’improvviso tutto l’orrore della connessione con suo padre, non le piace essere una sopravvissuta, i sopravvissuti erano i più forti, quelli che si erano attaccati alla vita con ogni mezzo. Scopre il significato di sopravvivere, il comun denominatore del destino degli ebrei, perseguitati per 2000 anni, sopravvissuti per mantenere il giudaismo. Questo è il significato della sopravvivenza.

Che cosa è il movimento delle Donne in Nero di cui si parla nel romanzo?

       Le Donne in Nero sono un gruppo di estrema sinistra che si radunano tutti i venerdì nel centro di Gerusalemme: non sono molte, una quindicina, sono tutte vestite di nero, portano occhiali scuri e reggono un cartello nero con una scritta a favore del ritiro dai territori. Davanti a loro si piazza un altro gruppo di donne di destra che dimostrano contro di loro, e il luogo in cui si ritrovano è vicino alla casa del primo ministro. E’ un po’ come il Triangolo delle Bermuda, tutte le parti sono rappresentate: quelli contro il ritiro, quelli a favore del ritiro, le moglie dei coloni che non vogliono andarsene, e adesso ci sono anche i rappresentanti del Movimento per la Pace, che contano i giorni dall’inizio dell’Intifada e il numero dei morti.

Israele, come appare nel romanzo, sembra essere più che mai una terra di contrasti: guerra e obiettori di coscienza, ultraortodossi e ebrei non religiosi…
      Il mio romanzo è pieno di contrasti ed è un romanzo a strati: uno strato è quello del conflitto arabo-israeliano, un altro è quello del conflitto tra marito e moglie, poi c’è quello dell’amicizia tra le due donne che entrano in opposizione per le diverse idee politiche, e il conflitto tra ebrei secolari e ebrei ortodossi. Questo è un conflitto che si avverte specialmente a Gerusalemme perché gli ortodossi vivono in una zona isolata in cui non si può entrare in auto al sabato, si isolano come in una specie di ghetto. Ma anche se Israele è diviso riguardo alle questioni politiche o a quelle religiose, anche se ci sono ebrei sefarditi e ebrei ashkenaziti, è pur sempre la stessa società che parla la stessa lingua che è un collante, un comun denominatore. Siamo una sola nazione e, quando succedono delle tragedie, come le bombe dei suicidi, tutti quelli che discutevano, o che erano in conflitto, si riuniscono sotto l’ombrello comune della minaccia. E’ una paese diviso ma unito.

Come può Yael innamorarsi di un ultraortodosso?

      Solo alla fine del libro si capisce come possa Yael innamorarsi di un ultraortodosso, il che è molto raro, quasi impossibile per chi non è religioso. E dapprima neppure Yael ne aveva capito il perché. Il padre di Yael era solito ripetere quella che è una citazione da Nahum che ho messo in apertura del libro, “La sventura non avverrà due volte”. Voleva dire che nessuno gli avrebbe portato via Yael, perché lui aveva già perso una figlia nei campi. Questo è lo strato di una lettura mistica del romanzo, perché Yael è terrorizzata da una predizione che le è stata fatta da una donna che non conosceva e che non poteva sapere che lei fosse incinta, secondo cui avrebbe perso suo figlio. E quando incontra Avshalom che ha perso moglie e figlio nell’esplosione dell’autobus, pensa che, se lei darà ad Avshalom il suo proprio figlio, al bambino non potrà accadere niente. Essere con lui la proteggerà dal male.

Ci sono moltissime metafore nel romanzo. Una di quelle che colpiscono di più è quella dei rondoni che hanno fatto il nido nel cassettone della finestra.
     Sono un’intuitiva quando scrivo e il significato metaforico che potevano avere i rondoni nel cassettone mi è venuto in mente soltanto dopo che ne avevo scritto. E’ una metafora che può rappresentare i palestinesi che sono stati scacciati nel ‘48, oppure i rifugiati ebrei durante o dopo la seconda guerra mondiale, oppure anche i palestinesi di oggi, o anche i bosniaci. Possono rappresentare i rifugiati di qualunque nazionalità.

C’è un rapporto tenerissimo e speciale tra Yael e il suo bambino Yoavi: è suo figlio il piccolo Yoavi?
     Mio figlio adesso è grande e si è appena sposato, ma sì, Yoavi è come mio figlio quando era piccolo. Sono rimasta sola con lui dopo il divorzio e c’era un legame simbiotico tra me e lui. Mio figlio era come Yoavi nel romanzo, dolce e gentile, attento nei miei confronti e sollecito, era il mio migliore amico e siamo ancora molto uniti anche adesso.

Alla nascita di Yoavi, il marito di Yael dice una frase tremenda, “un altro soldato per Israele”. Viene fatto di pensare, ‘felice la terra che non ha bisogno di soldati ’ .
       La frase del marito di Yael è quella che ha detto a me mio marito quando è nato mio figlio, dopo un parto lunghissimo, durato 17 ore. “Un altro soldato per Israele”, una frase traumatizzante. Però, quando si tratta di un figlio unico, l’esercito non lo manda a combattere, proprio per proteggere la famiglia, e mio figlio, quando era nell’esercito, ha lavorato in un ufficio. Avrei potuto firmare una carta in cui autorizzavo a che venisse impiegato attivamente, e mio figlio lo avrebbe voluto, ma non l’ho fatto- e lui ha capito.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"


 a gennaio uscirà il nuovo romanzo di Shifra Horn, "Scorpion Dance", ne leggerete sul blog.

                            

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