Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Abraham Yehoshua, “Fuoco amico”
Ed. Einaudi, trad. Alessandra
Shomroni, pagg. 399, Euro 19,00
“Fuoco amico”: che espressione crudele per celare la realtà di qualcuno che è morto
colpito da una pallottola di un commilitone. Di un amico. Per un tragico
errore. Quasi che l’amicizia e l’errore possano rendere più dolce la morte,
meno assurdo lo spreco di una vita, più accettabile la perdita di un figlio. Il
nodo centrale dell’ultimo romanzo dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua è
nel cuore di un padre il cui figlio è
stato ucciso dal fuoco amico, mentre erano impegnati in un’operazione per
braccare un ricercato in un villaggio palestinese. Sono passati sette anni da
allora, nel frattempo è morta anche la moglie di Yirmiyahu e lui è rimasto in
Tanzania, anche se non ricopre più la carica con cui era stato inviato da
Israele a mo’ di compenso: non tornerà
mai più nel paese che gli ha rubato il figlio, non vuole avere più niente a
che fare con la famiglia della moglie, con gli ebrei, con il Dio degli ebrei.
Yirmiyahu non è un personaggio accattivante- e come potrebbe esserlo un uomo
che è passato attraverso l’esperienza peggiore che la vita può riservare?- e
non fa nulla per ingraziare il lettore, o la cognata Daniela che va a trovarlo.
Anzi, la prima cosa che fa, non appena Daniela gli porge quello che gli ha
portato, è gettare nel fuoco i giornali
israeliani e le candele di Hanukkah, lasciando intendere molto con questo
gesto- prima di tutto che non vuole essere coinvolto dal desiderio di Daniela
di rinnovare il dolore. Perché questo è il motivo per cui Daniela ha intrapreso
il lungo viaggio, perché le pareva che il ricordo della sorella le stesse
sfuggendo e sperava di ravvivarne le tinte parlandone con il cognato. Ma la
maniera di affrontare il dolore di Daniela è l’opposto di quella di Yirmiyahu:
lei cerca di avvicinarsi alla fonte del dolore, lui se ne allontana.
D’altra parte il romanzo di
Yehoshua è un romanzo sulla perdita ma
anche un romanzo sull’amore, uno la compensazione (se mai è possibile) per
l’altra. E, più che Daniela, il marito di lei, Amotz Yaari, è il polo dell’amore. Quando lo
conosciamo, all’inizio del libro, abbraccia la moglie all’aeroporto: sono
sposati da trentasette anni ed è la prima volta che si separano. Lui è
iperprotettivo, affettuosissimo; lei si lascia proteggere, al sicuro nel
bozzolo del suo amore. Lui, progettista di ascensori, si è sempre occupato di
tutto; di conseguenza lei, insegnante di inglese, è un po’ svagata e distratta.
Daniela si tratterrà dal cognato per tutta la durata delle feste di Hanukkah e
in quegli otto giorni non ci sarà
momento in cui Amotz non pensi a lei, anticipando la gioia del suo ritorno.
E intanto Amotz incontra i figli, si presta a badare ai due nipotini, fa visita
al padre che ha il morbo di Parkinson, si industria per riparare il
mini-ascensore che suo padre aveva installato nella casa di una donna ormai
anziana che aveva amato.
E soprattutto cerca di risolvere il problema degli ululati che il vento emette infilandosi
nella tromba degli ascensori di un grattacielo di Tel Aviv. E’ uno dei leit motiv del romanzo, quello dei
lamenti del vento che dà voce al pianto
dei fantasmi (il rappresentante degli inquilini è un altro padre che ha
perso il figlio), così come l’altro è quello del fuoco- ad iniziare dalle fiammelle delle candele di Hanukkah, e
poi quello della stufa in cui Yirmiyahu getta i regali, quello nelle capanne
degli africani, la stessa schermaglia verbale tra Daniela e il cognato è
paragonata ad un fuoco amico, certamente non letale come quello che ha ucciso
Eyal, ha causato l’allontanamento dei genitori, chiusi ognuno nel cerchio della
propria sofferenza.
Nessuno come Abraham Yehoshua è capace di sottintendere tanto
raccontandoci una storia la cui trama superficiale è il viaggio di otto giorni
di una donna che ha quasi sessant’anni. Sotto di questa c’è tutt’altro: il dramma di un paese che continua a veder
morire i suoi figli, la duplice
tragedia del genitore che ha perso il figlio e del cittadino che è stanco
di regalare i suoi figli allo stato. E
sono anni che pensiamo che nessuno come Abraham Yehoshua meriterebbe il premio
Nobel per la letteratura.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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