sabato 12 dicembre 2015

Amos Oz, “Altrove, forse” ed. 2015

Voci da mondi diversi. Medio Oriente
          FRESCO DI LETTURA


Amos Oz, “Altrove, forse”
Ed. Feltrinelli, trad. E. Loewenthal, pagg. 343, Euro 14,45


    Faccio velocemente il calcolo: se “Altrove, forse” è stato pubblicato per la prima volta nel 1966, Amos Oz doveva avere venticinque anni mentre lo scriveva. Ed è già un grande libro che contiene le promesse che lo scrittore manterrà.
      Mezudat Ram, un kibbutz nel nord del Paese, dominato dall’ombra minacciosa di una montagna da cui ogni tanto giungono degli spari. Vivere a Mezudat Ram non è così idilliaco come sembra, con il timore costante di un attacco da parte degli arabi oltre il confine. Non è così idilliaco affatto, anche per altri motivi che percepiamo a poco a poco, guidati dalla voce narrante fuori campo che però conosce tutti e sa tutto di tutti- strano, mi ha fatto pensare, nonostante le ovvie diversità, alla Spoon River Anthology. Uno dopo l’altro, veniamo a conoscere gli abitanti del kibbutz anche se presto sono due gli uomini a dominare la scena, con le loro famiglie: il poeta Ruben Harish e Ezra, il guidatore del camion che ogni giorno porta al mercato i prodotti agricoli del kibbutz. La moglie di Ruben lo ha lasciato per un altro uomo con cui è andata in Germania a gestire un night club. Sembra che l’Inferno sia fuori dei cancelli del kibbutz- tradire il marito, andare nella patria degli assassini degli ebrei  e a guadagnare soldi tra gente scostumata. Per fortuna i due figli, Noga e Gai, sono rimasti con il padre. Il quale, però, si consola con la moglie di Ezra- si sa, un uomo non può restare solo a lungo. Ed Ezra, che ovviamente sa della tresca, si consola anche lui come può, attratto dalla sedicenne Noga, esile come una gazzella, che flirta sfacciatamente con lui. Non può finir bene, ce lo dice qualcosa nella voce del narratore onnisciente.


   Se questi sono i personaggi principali, l’attenzione di Oz, tuttavia, si ferma anche sugli altri abitanti, li individua, li mette a fuoco, fa prendere loro vita per noi- i due figli di Ezra, uno già sposato con la ragazza dalla lieve zoppia che ha messo incinta e uno più giovane e scapestrato, capace di azioni molto crudeli sugli animali, la coppia che ha perso l’unica figlia e che, quasi per risarcimento, ha il permesso di arredare l’alloggio in maniera più personale, il giovane Rami che si arruola perché il suo amore per Noga non è ricambiato e fa soffrire la madre Fruma che ha perso in guerra il suo primogenito, Fruma, la pettegola di Mezudat Ram, che fa girare dicerie e informazioni. L’apologia del pettegolezzo, fatta dall’io narrante, è deliziosamente ironica: ne sostiene la necessità, ne vanta la capacità di ampliare le vedute e la comprensione. Non manca poi il personaggio subdolo, una sorte di serpente nel paradiso, il fratello di Ezra che arriva in visita dalla Germania: qual è il suo scopo? Convincere Noga a seguirlo e a ricongiungersi con sua madre? Ha un modo di fare un po’ lascivo, poco sincero, poco chiaro, innervosisce tutti anche se c’è del vero in quello che dice.
E’ lui, l’agente esterno che calca quello che la voce narrante ha fatto trapelare con sottigliezza: l’utopia è un sogno, si può e si deve lottare per un sogno, ma la natura umana è quella che è. Il tradimento esiste, e così esistono la lussuria e il desiderio di evasione. Esiste, eccome, la guerra- c’è un attacco da parte degli arabi, quando gli ebrei del kibbutz si mettono ad arare il campo sul confine. C’è tutto, nel microcosmo del kibbutz, il male e il bene. Quello che però prevale- ed è questa la nota positiva su cui si chiude il libro- è il senso di fratellanza, di comunità, di amicizia, del tutti per uno e uno per tutti che appiana ogni divergenza. Come avviene in una grande famiglia. E c’è una parola sola per esprimere tutto questo: chiamiamolo amore.









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