Voci da mondi diversi. America Latina
fresco di lettura
Maria
Venegas, “La figlia del fuorilegge”
Ed. Bollati Boringhieri, trad. M.
Faimali, pagg. 376, Euro 15,30
Titolo
originale: Bulletproof Vest: The Ballad
of an Outlaw and His Daughter
Se potessi fare uno scambio di
teste, rinuncerei alla sua pur di riavere indietro mio fratello. All’epoca
correva voce che l’omicidio di mio fratello avesse qualcosa a che vedere con
mio padre, una vecchia faida o qualcosa del genere. Si diceva che qualcuno
fosse stato pagato per uccidere Jose Manuel Venegas e avesse fatto fuori la
persona sbagliata. Perfino mia madre dava la colpa a mio padre. Secondo lei Dio
si era preso mio fratello per ‘occuparsi’ di mio padre- in modo che si
decidesse ad abbandonarsi al Signore una volta per tutte.
Bajaron al Toro Negro. Hanno abbattuto il Toro
Nero. Nelle parole del primo pensiero che passa per la mente a Pascuala quando
apprende della morte del marito cogliamo stupore, incredulità e, sì,
ammirazione. Pascuala e Jose erano separati da più di vent’anni- lui dava la
colpa agli alleluia (la Chiesa che Pascuala si era messa a frequentare troppo
assiduamente), lei agli eccessi di lui-, eppure c’è qualcosa di così violento e
definitivo nel verbo bajaron che usa
Pascuala, come se fosse necessaria una forza bruta per uccidere un uomo che
aveva sette vite come i gatti, che era già sfuggito infinite volte alle grinfie
della morte, qualcosa che comunica rispetto nell’immagine grandiosa e selvaggia
del Toro Nero che si distingue da tutti gli altri e che non può semplicemente
essere ucciso, deve essere abbattuto.
Jose Venegas è il Toro Nero che si ammira e che si teme, un personaggio
affascinante nella sua complessità e nella sua negatività. La figlia Maria
Venegas gli dedica un romanzo, “La figlia del fuorilegge”, un memoir che narra per lo più le vicende
della vita del padre inframmezzandole, a tratti, con quelle della sua propria
vita, spostando il racconto tra il Messico e gli Stati Uniti. E se, all’inizio,
prevale il sentimento di rifiuto, quasi di odio, per un padre che ha
abbandonato la moglie e gli otto figli, si è messo con un’altra donna, ha
ucciso non sa neppure lui quanti uomini, è stato la causa dell’assassinio del
figlio primogenito, ha scontato anni di prigione, è scampato miracolosamente ad
imboscate per essere infine rapito dai membri di un cartello della droga, a
poco a poco Maria si riavvicina al padre, forse perché si sente simile a lui-
l’ereditarietà non perdona-, perché ama il paesaggio messicano quanto lui,
perché gode della vita primitiva che fa quando va a trovarlo, perché prova un
istinto di protezione nei confronti di un uomo che deve essere difeso da se
stesso e dalla sua inclinazione al bere fino a mettersi in situazioni di
pericolo- come troppe volte è successo.
Le parti del romanzo in cui Maria parla
di sé, dei suoi studi, delle sue esperienze amorose e poi dei primi tentativi
di scrittura sono interessanti ma pallide, di certo è Jose Venegas che ruba la
scena, che si impone di prepotenza sulla pagina. Ogni volta che i ricordi di
Maria si volgono al passato, alla paura che tutti loro avevano quando lui si
metteva a sparare perché ubriaco, o a quando avevano dovuto abbandonare in
fretta la casa per timore di una qualche vendetta, prevale l’astio verso un
padre che non permette ai figli di avere una vita tranquilla come i compagni di
scuola. Eppure quella del padre è già un’immagine ingigantita dalla fantasia
infantile, nutrita dalle leggende familiari- il padre soprannominato il cento vacche, il padre che
corteggiava Pascuala, il padre bambino a cui la madre aveva ordinato di non
tirarsi mai indietro, il padre e il suo fucile appeso sopra il letto, il padre
con la pistola sotto il cuscino-, diventa l’uomo che affascina anche se non si
approvano le sue azioni.
E quando Maria incomincia ad andare a passare dei
lunghi periodi in Messico con lui, conosce un altro suo aspetto: Jose Venegas
che tratta cavalli e vacche con ‘sentimento’, che fiuta l’aria avvertendo il
temporale, che conosce ogni erba e ogni sasso di quelle distese vaste e
desertiche che aprono la porta su un altro mondo, lontano anni luce da Chicago
o da New York. Jose Venegas riesce a farsi amare, cancellando il ricordo di un
padre indifferente.
Jose Venegas aveva già scritto prima di
morire il suo ‘corrido’- la ballata o racconto di stile popolare così diffusa
in Messico- anche se mancava la fine che non poteva conoscere. Sua figlia Maria
ha scritto per lui questo romanzo fatto di sentimenti forti e violenti, aspri
come lo è la natura di quella terra: il più bel corrido che Jose Venegas
potesse avere.
la recensione e' stata pubblicata su www.wuz.it
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