martedì 4 novembre 2014

Kakuta Mitsuyo, "La cicala dell'ottavo giorno" Intervista

                                                           Voci da mondi diversi. Asia
                                                            fresco di lettura



INTERVISTA A Kakuta Mitsuyo


   E’ la prima volta che si trova a Roma- dove sono venuta ad intervistarla-, mi dice Mitsuyo Kakuta (o Kakuta Mitsuyo, se vogliamo rispettare l’usanza giapponese di anteporre il cognome al nome). E’ già stata in Italia, però, nelle Dolomiti e in Sicilia. Le spiace che gli impegni di lavoro le impediscano di visitare Roma. Sarà per la prossima volta, le auguriamo tutti. Le rivolgo la prima domanda, sul titolo “La cicala dell’ottavo giorno” che continua a frullarmi in testa.

    E’ vero o è soltanto una specie di leggenda, che la cicala vive solo per sette giorni? E a chi si riferisce questa immagine, nel romanzo?
    E’ una diceria, una credenza popolare, una favola che si racconta ai bambini: prima di nascere le cicale restano per sette anni sotto terra e poi vivono per sette giorni. Rifacendomi a questa favola, ho voluto pensare alla possibilità di una cicala che arrivi a vivere un ottavo giorno e il riferimento è alla bambina Erina.


    Leggiamo spesso, purtroppo, fatti di cronaca sui quotidiani che riguardano furti di bambini, spesso anche con intenti meno ‘buoni’ di quelli che sono dietro la protagonista del suo romanzo. E’ stato un fatto di cronaca veramente accaduto che l’ha spinta a scrivere “La cicala dell’ottavo giorno”?
    No, non è un fatto di cronaca, ma un frutto della mia immaginazione.

    Esiste, però, il pericolo che i bambini vengano rapiti in Giappone? Personalmente sono diventata paranoica e divento ansiosa se perdo di vista i miei nipotini quando giocano.
    Non capita di frequente in Giappone, però si sente raccontare di coppie che non riescono ad avere figli e vanno negli ospedali ad osservare i neonati e finiscono per rapirne uno, come si dice di una coppia nel romanzo. Niente di così eclatante, tuttavia, come quello che succede nel mio libro.


    A mano a mano che procediamo nella lettura, ci rendiamo conto dell’ambiguità dei sentimenti di Kiwako. Se all’inizio, quando si limitava a spiare la coppia di genitori, prevalevano forse la gelosia, l’invidia, un desiderio di vendetta, poi quello che è più forte di tutto mi pare essere il desiderio di maternità. E’ così?
    La sua interpretazione è perfetta. I sentimenti di Kiwako, all’inizio, sono solo di invidia, gelosia e vendetta. Poi, quando entra in casa dell’ex amante e vede la bambina, nasce in lei il desiderio di maternità. I sentimenti negativi diventano positivi, desidera diventare madre.

   C’è anche una seconda tematica interessante nel romanzo, che si intreccia con quella del rapimento della bambina e ne è quasi uno sviluppo: la setta che accoglie Kiwako e la bambina in realtà ‘sequestra’ donne fragili e in cerca di aiuto. Si possono paragonare i due tipi di rapimento?
     No, sono due cose diverse. Kiwako rapisce la bambina mentre la setta non rapisce le donne ma vuole creare una comunità alternativa.

   Tuttavia si parla di sequestro, nel romanzo.
    Certamente la setta si macchia di un crimine, ma le accuse derivano dal fatto che i genitori sono stati ingannati: l’accusa alla setta è di aver ingannato le famiglie impossessandosi dei beni di queste.

   Mentre leggevo, mi sono trovata a parteggiare per Kiwako, domandandomi: chi è la vera madre? Quella che l’ha messa al mondo o quella che la circonda di un amore che la madre naturale non sarà mai capace di darle?
    Anche qui sono d’accordo con lei e con la sua interpretazione: questo è un romanzo sulla maternità e sul desiderio di diventare madre. La domanda che viene posta è: la madre è la donna che partorisce un bambino, o è quella che si prende cura di lui? La vera madre è quella che se ne prende cura e non necessariamente quella che lo dà alla luce.

   C’è un dubbio, in questo caso, però. Come si sarebbe comportata la vera madre, se non fosse stata privata della bambina, se il suo rapporto con lei non fosse stato stravolto dagli anni di lontananza?
    Diciamo che ho descritto la madre naturale come negativa in partenza: è a causa di una sua negligenza, l’aver lasciato la bambina da sola e con la porta aperta, che la piccola viene rapita. Ovviamente, poi, il periodo di lontananza l’ha trasformato ulteriormente in una madre incapace di amare la bambina.

    Quando la parola passa ad Erina, quella che era la bambina chiamata Kaoru, siamo portati a riflettere su qualcos’altro: che peso hanno i primi anni della nostra vita? Ci segnano per sempre? Quella che era l’amica d’infanzia di Kaoru ed Erina stessa sembrano dimostrare che è così, pur essendo diverse le loro reazioni all’esperienza che hanno condiviso.
    Sì, devo concordare con lei. sono sempre più convinta che gli anni dell’infanzia siano fondamentali, anche se cambiano le reazioni individuali. Ho voluto dire che, al di là delle esperienze negative e crudeli, c’è sempre una forza immensa nell’essere umano: chiunque ha la forza per reagire e cambiare le cose in verso positivo.

    Sono stata affascinata dai riti descritti che appartengono alla tradizione del Giappone. L’assoluta mancanza della vita moderna nel romanzo è stata voluta?

    Sì, l’ho fatto di proposito. Ho scelto queste ambientazioni per mettere in risalto le tradizioni del Giappone. E ho scelto l’isola di Shodoshima perché mi dava la possibilità di parlare di festività tradizionali scintoiste: sono molto più sentite lì che nelle grandi città.

   E’ già al lavoro su un altro romanzo?
    Sto scrivendo un romanzo serializzato su un quotidiano. E’ un romanzo diverso dai miei precedenti: è sulla boxe. Dopo che mi è stato fatto osservare che le donne sono al centro dei miei romanzi e che dipingo sempre gli uomini in luce negativa nei miei libri, ho risposto con un protagonista maschile.


L’intervista è finita. Mi congratulo, prima di tutto, con il professor Coci, ottimo interprete nonché traduttore del romanzo, poi tendo alla scrittrice la mia copia libro perché vi faccia l’autografo e le tendo anche la mia penna biro. Kakuta Mitsuyo la rifiuta con gentilezza e tira fuori un astuccio dalla sua borsa. Chiaramente la mia penna non va bene per i caratteri giapponesi. Traccia velocemente quello che deve essere il suo nome, in verticale, e poi estrae un timbro da una scatoletta. L’ultimo tocco di esotica perfezione.


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